Lunedì 21 settembre 2020, San Matteo Apostolo
GIUSEPPE GALASSO, QUALCOSA DI PIÙ DI UN “RICORDO”
Questa non è una recensione. Non parliamo di libri. Parliamo di un uomo, di uno studioso, di un cittadino scomparso soltanto due anni fa. A indurci a riparlare di lui è il fatto che il dibattito sul “senso della storia” è tornato recentissimamente in primo piano. E di ciò egli fu un Maestro.
In altri tempi, in un’Italia che non era ridotta ad adorare solo i campioni del calcio e le stars televisive, per lui i pubblici uffici avrebbero esposto il tricolore a mezz’asta. Ora, il mondo degli studi non è più lo stesso. E si stenta ancora a credere che se ne sia andato.
Giuseppe Galasso (Napoli, 19 novembre 1929 – Pozzuoli, 12 febbraio 2018), a oltre ottant’anni e decisamente gravato dalla non lieve mole del suo peso – quello fisico non era minore di quello accademico – continuava a percorrere a piedi le strade della “sua” Napoli (quanto “sua”!) e quelle di Roma con un passo quasi giovanile. Aveva solo rinunziato ad affrontare gli aspri saliscendi di San Marino, dove mi capitava d’incontrarlo perché eravamo entrambi docenti alla scuola Superiore di Studi Storici di quell’università, valorosamente diretta dall’amico Luciano Canfora. Camminava, insegnava, studiava, rideva: instancabile, sempre vivace, con appena quell’ombra di sorriso ironico che gli restava là, impigliata tra i baffi e gli occhiali.
Era un gigante, “don Peppino”. Si stenta a definirlo storico “dell’età moderna”, o “dell’Europa”, o “di Napoli”. Si trovava a suo agio con qualunque stagione del passato: era, ad esempio, medievista appassionato e finissimo. Come i professori all’antica, quelli d’una volta, la sua materia era la Storia, libera dagli alibi di troppo sofisticate specializzazioni o di rigide periodizzazioni. Professore emerito all’università Federico II di Napoli, accademico dei Lincei, era stato ministro e presidente della Biennale di Venezia. Come politico ebbe anche i suoi guai: e ne uscì alla grande, a testa alta. Di lui si ricorda ancora con ammirazione quella “legge Galasso” sulla protezione del paesaggio ch’è un esemplare miracolo di rigore e di equilibrio.
Lo guardavi, lo sentivi parlare, e pensavi immediatamente a don Benedetto Croce: suo modello di storiografia limpida, precisa, senza troppe preoccupazioni teoretiche e metodologiche; e suo modello anche politico e umano, con la sua “religione della libertà”. Liberale vecchio stampo, severo con qualunque forma di statalismo ma ben radicato in un senso dello stato “all’antica”, condivideva il laicismo illuminato di storici quali Rosario Romeo o Girolamo Arnaldi, non a caso suoi amici carissimi. Europeista convinto, aveva saputo riversare il suo lucido e pacato amore per la “patria” europea in una Storia d’Europa (Laterza) che resta un “classico”; mentre i sei volumi della sua Storia di Napoli (UTET) sono lì a testimoniare la sua devozione per una città unica, che fra Due e Ottocento era ininterrottamente stata una capitale anche quando era inserita nella più ampia realtà della Monarchia di Spagna.
E l’esperienza asburgica e quindi borbonica della Napoli cinque-settecentesca era un altro dei suoi più profondi interessi: era devotissimo alle figure di Carlo V, del quale pur non taceva limiti ed errori, e del grande riformatore Carlo di Borbone, settimo di questo nome come re di Napoli e di Sicilia, terzo come re di Spagna. Tuttavia, molto francamente, il Galasso che amo di più è quello di Nient’altro che storia (il Mulino), una preziosa raccolta di saggi di teoria e di metodologia della storia. Questo austero signore pieno di humour, che affettava talvolta un filo di raffinata noia dinanzi alle discussioni esegetiche, epistemologiche e via discorrendo, dimostrava poi di maneggiare da maestro anche quelle. Vederlo dirigere una tornata di convegno scientifico era una gioia per gli occhi, le orecchie e lo spirito.
Non che fosse un uomo facile. I primi tempi della nostra amicizia (perché, oltre che un Maestro, era per me anche un amico impareggiabile) furono caratterizzati da severissime tirate d’orecchie che mi faceva pubblicamente, sul “Corriere della Sera”, accusandomi – lui, cultore critico ma anche intransigente del Risorgimento – di “nostalgismi reazionari” per le monarchie italiche preunitarie. Non erano accusa gratuite, al contrario: e io me ne vantavo. Quando proprio, durante una discussione tra il serio e il faceto comunque un po’ più accesa, cercavo di fargli perdere le staffe, lo apostrofavo con un sonoro “Viv’o’rre!” o con un vibrante “Dio guardi!”, oppure gli recitavo qualche verso della Carmagnola sanfedista (“…siempr’a’mmuort’i’ggiacobbini!”). In quei casi, non si degnava nemmeno di replicare: mi lanciava un’occhiata sorniona e mi correggeva la pronunzia napoletana redarguendomi “Mamma mia! Maronna! E hai pure insegnato al sant’Orsola!”.
I grandi Maestri se ne vanno, anche quelli che non credevamo potessero morire mai. Don Peppino Galasso aveva lavorato e lottato per un’Italia migliore. Quella che ha lasciato non gli piaceva e non lo meritava. Purtroppo. L’Italia che sognava non era la mia: ma nonostante ciò onoro il galantuomo e lo studioso ch’egli fu: egocentrico, prepotente, tutto quel che volete: ma galantuomo e studioso di prim’ordine. Ci restano la memoria del suo rigore e del suo entusiasmo; ci restano i suoi libri. Se non temessi di offendere il suo intemerato laicismo, amerei immaginarmelo adesso in cielo: anzi – bando alle ipocrisie – me lo immagino proprio così. A un tavolino del “nostro” ristorante di Ciro a Santa Brigida che certo ci sarà in Paradiso come c’è a Napoli, intento ad ascoltar sorridendo quei tre vecchi professori di violino di una delle canzoni napoletane più celebri, quelli che “’n paradiso jetter’ a sunà”.