Minima Cardiniana 295/6

Domenica 4 ottobre 2020, San Francesco d’Assisi

“QUO VADIS, ISRAEL?”
Israele è un paese straordinario, affascinante, sorprendente: che purtroppo in Italia e in Occidente molti fanno l’errore di non conoscere quasi per nulla o di giudicarlo solo attraverso il filtro inquinante degli stereotipi. Ma all’interno di quel paese si discute con grande animosità: e il quotidiano “Haaretz” si distingue spesso offrendoci contributi che spiazzano di continuo gli amanti dei giudizi stereotipi e tutti coloro che non amano mettersi in discussione.

ZVI BAR’EL
UCCIDERE, MA SOLO IN BASE ALLA LEGGE EBRAICA
“In Israele, come parte della sua libertà di espressione rabbinica ed attenendosi al suo ruolo, a un rabbino è concesso parlare dalla propria prospettiva religiosa sionista per esporre parole della Torah come egli le intende e di trasmettere ai propri fedeli – che non sono considerati ascoltatori passivi – qualunque messaggio halakhico [riguardante il sistema normativo religioso ebraico ndtr.] ritenga opportuno purché sia effettivamente un messaggio halakhico espresso come tale sinceramente e in buona fede”.
Questo è l’involuto rompicapo presentato dal giudice Alex Stein nella sua sentenza riguardante un ricorso contro il rabbino capo di Safed [città israeliana con folta presenza di palestinesi, ndtr.] Shmuel Eliyahu. Eliyahu verrà sottoposto a un procedimento disciplinare, magra consolazione per chiunque sia orripilato dal sentire il vero e proprio razzismo ardente di sacro fuoco da molto tempo vomitato dalla sua bocca. Ma neppure la sberla in faccia rifilata dall’Alta Corte di Giustizia all’ex – ministra della Giustizia Ayele Shaked, quando ha stabilito che la sua decisione di non sottoporre il rabbino a un procedimento disciplinare riflette “un errore di giudizio” ed è “assolutamente irragionevole”, può nascondere la decisione fondamentalmente errata del giudice Stein.
Per esempio, in che misura il rabbino deve allontanarsi dalla sua affermazione secondo cui “oggi dobbiamo cercare di garantire che se qualcuno alza la mano contro un ebreo per ucciderlo, quest’ultimo sia vendicato. Anche se non ha ucciso ma solo colpito (un ebreo) o intendeva ucciderlo” – che Stein ha usato come esempio di un’affermazione proibita – in modo che le sue parole rientrino all’interno della categoria di “libertà di espressione rabbinica” che Stein considera legittima.
Se volessimo essere ottimisti, potremmo rallegrarci per un attimo del fatto che una persona qualunque, che non sia un rabbino, non possa godere degli ampi spazi di libertà di espressione che il giudice Stein concede ad Eliyahu, anche se ha una missione religiosa sionista. Il problema risiede nell’oscuro aspetto dell’interpretazione di Stein. Stein sta tenendo in mano un ago particolarmente spesso per cucire un’insistente frattura tra un messaggio halakhico “espresso sinceramente e in buona fede” e “una prospettiva religiosa sionista” – come se questi due fondamenti non emergessero da un’unica matrice, che concede a un rabbino e ai suoi accoliti il permesso fare tutto quello che vogliono.
Chiunque si diverta a spaccare il capello in quattro può affermare che d’ora in avanti chi voglia incitare all’odio, prendere in giro e istigare all’omicidio dovrà rispondere a due condizioni: una prospettiva religiosa sionista e l’adesione “sincera e in buona fede” ad essa. In altre parole, se un rabbino esprimesse in pubblico le sue opinioni in base a questa stessa “prospettiva” non dovrebbe essere accusato di massacro, ma gli si dovrebbe attribuire una parte della libertà di espressione rabbinica a cui ha diritto.
Questo è esattamente il gioco di prestigio del giudice Stein. In uno Stato ebraico non ci può essere una prospettiva che non sia religiosa sionista, il fondamento della politica israeliana, e nel Paese non c’è posto per chi non creda “sinceramente e in buona fede” a questa prospettiva. E perché questa allucinatoria protezione “da dio” dovrebbe essere riservata solo ai rabbini? I politici, i politicanti, per non parlare di un primo ministro, non sono degni di usare il nome dell’halakha o di accogliere questa stessa “prospettiva religiosa sionista” come protezione dalla legge contro l’incitamento all’odio e il razzismo?
Perché, qual è la differenza tra l’affermazione del rabbino Eliyahu e il pronunciamento del rabbino capo Yitzhak Yosef, che nel 2016 affermò che “ogni terrorista dovrebbe essere colpito a morte, a prescindere da quello che dice l’Alta Corte di Giustizia,” e tra loro e la dichiarazione dell’ex-ministro della Sicurezza Pubblica Yitzhak Aharonovich, secondo il quale “un terrorista che provochi un danno a civili deve essere ucciso,” o le parole dell’allora ministro Naftali Bennett nel 2013, secondo cui “se noi diamo la caccia ai terroristi li dobbiamo semplicemente uccidere”?
Nessuno di loro è stato processato, contro di loro non è stata neppure presentata una denuncia. Perché tra tutte queste persone è stato condannato al rogo Eliyahu? Dopotutto non ha fatto altro che diffondere un messaggio halakhico nel contesto della “libertà di espressione rabbinica”, che a quanto pare non ha confini e riflette i sentimenti della maggioranza dell’opinione pubblica.
E cosa ne è dei normali cittadini? Di chi, in nome della religione/nazionalità grida “Morte agli arabi”? La via d’uscita aperta agli studiosi dell’Halakha dal giudice Stein sarà preclusa solo a lui? Dio non voglia. Nella democrazia israeliana chiunque ha il diritto di incitare all’odio.
(Haaretz, 23 settembre 2020, traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

AMIRA HASS
VERBALI DA INCRIMINAZIONE DI UNA COMMISSIONE DELLA KNESSET ISRAELIANA SULLA CISGIORDANIA
Ci sono cinque modi di leggere i verbali della commissione per gli Affari esteri e la Difesa della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] riunitasi in una sottocommissione sull’espansione delle colonie. Tutti possono leggerli sul sito della Knesset. Il primo modo è di non preoccuparsi, dopotutto a chi importa un incontro che non sia sugli ultra-ortodossi, sul lockdown da coronavirus o sul futuro dei nostri stipendi? Basta sapere che quei bravi signori stanno preparando più terra per le nostre escursioni e vacanze e non per gli arabi.
Il secondo modo è di leggerlo come materiale di studio sulla gara fra burocrati per le risorse, cioè per l’uso dei soldi delle nostre tasse. I rappresentanti dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.] si sono vantati con i parlamentari dei loro risultati negli ultimi anni nelle confische, distruzioni e nello sradicamento di alberi. Il loro capo, brigadiere generale Ghassan Alian, ha parlato orgogliosamente della vittoria nella battaglia contro l’Unione Europea. Ma il budget non è sufficiente, ha detto. Lo preoccupa la proposta di alcuni parlamentari di stabilire un’autorità speciale che si occupi di queste stesse cose. “Invece raccomando di investire quei soldi, risorse e posti di lavoro in un’unità di polizia con 30 ispettori e non 17,” ha detto.
Forse la commissione si è dimenticata che un nuovo ministero per le colonie capeggiato da Tzachi Hanegbi [del partito di destra Likud, ndtr.], già tallona da vicino l’Amministrazione Civile? A questo ministero giovedì sono stati destinati 20 milioni di shekel [circa 5 milioni di euro] per mappare costruzioni “illegali” nell’Area C. Si scopre poi che gli scialacquatori dei nostri soldi non sanno cosa Alian abbia detto alla commissione per gli Affari esteri e la Difesa, cioè che l’Amministrazione Civile ha già fatto la mappatura che è piuttosto accurata. Stanno pagando due volte per lo stesso lavoro.
Un terzo modo sarebbe leggere i verbali come una lezione di sadismo. Siedono sui banchi dell’assemblea legislativa della nazione e si consultano su come torturare: “confiscate i loro trattori e pompe dell’acqua per un anno”, consiglia Moti Yogev [di estrema destra, ndtr.], ex parlamentare dell’insediamento di Dolev, a Marco Ben-Shabbat, capo dell’unità dell’esercito dell’Amministrazione Civile. “Il danno economico sradicherebbe il fenomeno,” ha spiegato. Ben-Shabbat l’ha rassicurato che sa come farlo e senza violare la legge.
Alian va fiero dei 42.000 alberi sradicati dall’Amministrazione Civile negli ultimi vent’anni (7500 solo l’anno scorso). Questo è avvenuto su terra palestinese che Israele, con il suo arsenale di strumenti giuridici per il furto, ha trasformato in terra solo per gli ebrei (con il nome di copertura di “terre di proprietà dello Stato”). I parlamentari non sono contenti. Amit Halevi (Likud) è sorpreso: secondo voi, 2.100 alberi sono tanti “su quei 3.5 milioni di dunam (35 mila ettari)?” Il parlamentare Matan Kahana, membro di Yamina [alleanza di partiti di estrema destra, ndtr.], dice sarcasticamente che è pieno per un ottavo. Shlomo Karhi del Likud calcola che sia circa un terzo degli alberi, ce ne sono più di 80.000 ancora da sradicare. Il presidente della commissione Zvi Hauser Derech Eretz ([di centro destra]) si mostra moderato, notando che non si intende abbattere alberi su proprietà privata.
I membri della commissione sarebbero certamente felicissimi nell’apprendere la notizia che per festeggiare l’inizio dell’anno scolastico, nella comunità di Ras a-Tin, est di Ramallah, una delle molte prese di mira, gli ispettori dell’Amministrazione Civile hanno confiscato 40 sedie e 24 banchi, quattro aule in mattoni e circa una dozzina di lamiere di stagno destinate alla scuola.
Un quarto modo sarebbe leggere i verbali da un punto di vista storico. Nir Barkat (del Likud) e Meir Deutsch di Regavim, ONG di destra, ha detto che i palestinesi hanno abbastanza terra su cui costruire nelle enclavi delle aree A e B (dopotutto non hanno bisogno di spazi aperti per passeggiare, di aree verdi o terreni agricoli). Infatti, questo è esattamente quello che Israele ha fatto negli ultimi 30 anni: inneggiando alla pace, i suoi funzionari e soldati stanno lavorando per trasformare circa il 61% della Cisgiordania palestinese (eccetto Gerusalemme Est) in territorio israeliano a tutti gli effetti. Così facendo le riserve indiane verranno fagocitate.
Il quinto modo consisterebbe nell’usare i verbali come prova a carico in un tribunale internazionale per crimini di colonialismo e apartheid.
(Haaretz, 16 settembre 2020, traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)