Minima Cardiniana 298/1

Domenica 25 ottobre 2020, San Germano

EDITORIALE
Preferirei francamente non parlare di me: ma non posso farlo perché dovrei inviare un certo numero di e-mail appartenenti a persone fra loro estranee e temo che sorgerebbero problemi di privacy. Valga quindi una risposta collettiva.
Molti mi hanno scritto indignati in quanto hanno avuto l’impressione che giovedì 22 ottobre scorso, alle 8.30, RAI 1 (Unomattina), dopo avermi invitato alla trasmissione mi abbia tolto rapidamente la parola non troppi secondi dopo che l’avevo presa e non mi abbia più fatto comparire nel corso della rubrica, né mi abbia solo salutato alla fine. Alcuni mi hanno avvertito che avrebbero inviato la loro protesta per lettera o per e-mail.
Sono molto riconoscente a chi è intervenuto in mio favore, ma – a parte che in generale non amo il vittimismo – debbo osservare due cose. Primo, al di là di qualunque vittimismo, che non amo, ammetto di saper molto bene (e non da ieri) che la mia immagine non tanto di studioso quanto di (sia pur modestissimo) opinion maker è in genere circondata da qualche riserva per non dire diffidenza; e ho registrato anche alcuni episodi d’indubbio ostracismo: càpita a chi ha le sue idee, magari non “maggioritarie”, ed è abituato ad esporle con franchezza (purtroppo non si può piacere a tutti). Secondo, può darsi che il mio esordio a proposito del Covid-19 in Italia sia stato salutato in studio TV da una certa apprensione allorché ho pronunziato la fatidica frase (più o meno): “In Italia esiste attualmente una dittatura, nel senso tecnico del termine”. Collaboro con la RAI-TV da quasi mezzo secolo e sono stato due anni membro del Consiglio di Amministrazione. Conosco quindi certi meccanismi e certe suscettibilità. Per me l’incidente è chiuso: collaborerò ancora con gli amici della RAI se torneranno a interpellarmi, ma mi farò una ragione se non lo faranno.
Mi preme però continuare qui il ragionamento che avrei fatto se non fossi stato interrotto in quanto mi sembra importante.
In Italia, in questo momento, siamo in un regime che si può definire tecnicamente “dittatoriale”. Il termine “dittatura” va inteso nel suo senso proprio, che pochissimo ha a che vedere con l’uso volgare che si fa di questa parola. La “dittatura”, in politica, è un tipo di governo che si utilizza per periodi ben precisi e di solito anche brevi, periodi caratterizzati da uno stato di emergenza e comunque di “eccezione”: ogni sinonimo di “dittatura” con “tirannia” o con “totalitarismo” è quindi improprio. Nella Roma repubblicana, come nei comuni medievali (dove si definiva “balìa”) e anche nel nostro Risorgimento, il dittatore era un magistrato straordinario che veniva eletto per risolvere un problema in un momento critico della vita pubblica e di solito, dopo aver lasciato il governo alla fine di un periodo piuttosto breve durante il quale veniva obbedito senza discutere, veniva sottoposto a sindacato per appurare se avesse compiuto abusi durante il suo mandato. È evidente che storicamente parlando il pericolo è che il dittatore fosse restio ad andarsene, a tornare nella normalità.
Quel che avrei voluto dire il 22 scorso in TV è che la “dittatura di fatto” esercitata dal premier Conte attraverso lo strumento dei DPCM e con scarso o nullo coinvolgimento del parlamento – il che è fisiologico vista la natura del DPCM – mi sembrerebbe del tutto logica e anche opportuna, vista la situazione del paese, se soltanto: 1. fosse prevedibile una sua durata precisa e una scadenza possibilmente prossima e non rinviabile del regime dei DPCM; 2. fosse previsto che, durante la fase del governo tramite DPCM (ch’è evidentemente accettata dalla maggioranza del parlamento) le autorità regionali si adeguassero alle decisioni governative anziché modificarle o intralciarle. Siamo in un momento delicatissimo: “l’unità di comando” è essenziale; ove la politica governativa non conducesse entro tempi da precisare ai risultati voluti, è evidente che il premier dovrebbe rassegnare le dimissioni e rispondere anche dei suoi errori. Dal momento che così non è, il risultato è una “dittatura imperfetta”, vale a dire un ibrido tra una presidenza che governa tramite DPCM, una minoranza parlamentare che protesta contro di essa fingendo d’ignorare che la situazione “di regime” è sostenuta dalla maggioranza e alcuni presidenti delle giunte regionali i quali assumono decisioni in parziale o totale contrasto con la politica governativa.
In questa situazione assurda, contraddittoria e anticostituzionale, in una repubblica che non è riuscita a trasformarsi in federalistica ma ormai con ogni evidenza non è più unitaria, non ci sarà da meravigliarsi se in Italia le situazioni nella quale si è trovata Napoli la sera di venerdì 23 ottobre si moltiplicherà fino a giungere a uno stato obiettivamente caotico. A questo punto saranno necessarie o misure di forza da parte del governo, o esperienze di ristabilimento dell’equilibrio da parte di altri soggetti: e la situazione potrebbe addirittura configurarsi come obiettivamente “rivoluzionaria”.
Ma anche nel caso di questa deprecabile eppur storicamente interessante evenienza, amici miei, non preoccupatevi. Si verificherebbe una di queste due situazioni:
1. L’appello all’ordine e all’unità. È storicamente dimostrato da circa un secolo e mezzo (dal tempo dei “compromessi” cavouriani”) che nei momenti d’emergenza, a differenza di quel che fa la maggior parte dei popoli europei, gli italiani non si dividono, bensì “serrano al centro”. Cavour, Giolitti, Mussolini, De Gasperi, Craxi, Berlusconi: “serrare al centro” significa combattere per far sì che tutto cambi allo scopo che tutto resti uguale. Con un bel disagio dei ceti medi e un’ulteriore proletarizzazione di quelli inferiori, benintesi. Ma è il trend della globalizzazione. I signori della finanza e delle lobbies internazionalmente appoggiate sarebbero al sicuro.
2. L’autentico, seminedito precipizio (mutatis mutandis, un altro 8 settembre). Il Si Salvi Chi Può. Sarebbe una tragedia, se fossimo uno stato sovrano; una guerra civile, se avessimo un esercito. Ma noi non siamo uno stato sovrano e al posto dell’esercito abbiamo una piccola ancorché discretamente armata e addestrata milizia di mercenari (peraltro in sé rispettabili professionisti) pronta al pari di un’armata di ascari ad accorrere agli ordini delle autorità di uno stato straniero. In altre parole, siamo privi di sovranità: non – a dispetto di quel che sostengono i sovranisti – perché non abbiamo più una moneta nazionale, ma semplicemente perché non abbiamo una forza militare indipendente e quindi non siamo in grado di gestire una vera e propria politica estera. Se in Italia succedesse qualcosa che desse l’aria di poter preludere a una situazione sul tipo di quel che accadde il 24 ottobre 1970 (esattamente mezzo secolo fa) in Cile, il terreno si aprirebbe in quel di Aviano come in quel di Camp Darby presso Pisa o di Ghedi eccetera. E dai bunker nascosti nelle viscere della terra (non è fantascienza: ne abbiamo prove e testimoni) emergerebbero bei soldatoni statunitensi a salvare la situazione. Perché il Bel Paese è una colonia: sul suo territorio vi sono circa 140 basi fra esercito USA e forze NATO, alcune con equipaggiamento nucleare alla faccia della costituzione.
Allegri, quindi. La rivoluzione non si farà, perché farla è impossibile. Il paese potrà ammalarsi in massa, impoverire, arrivare al collasso. Ma nulla di rinnovante e di risolutivo uscirà dal suo seno.
A meno di un miracolo. “Credo quia absurdum. Credo nell’Italia e nella sua impossibile rinascita”. Parola di Ezra Pound, nei Cantos pisani. Ma lui, lo sanno tutti meno Patty Pravo, era matto.