Domenica 25 ottobre 2020, San Germano
LIBRI LIBRI LIBRI
Ho indugiato un po’ prima di licenziare questo Minimum in quanto volevo aspettare le dichiarazioni pomeridiane rese dal presidente Conte a proposito delle nuova misure anticovid: ed esse mi hanno rafforzato nella convinzione che una dittatura – nel senso giuridico, tecnico e storico del termine, non in quello malinteso con il quale opinione pubblica e politica lo impiegano – sarebbe utile per fronteggiare il problema concedendogli anche quel respiro cronologico che rende possibile la trasformazione di una prognosi in una diagnosi: il tempo da oggi al 24 novembre è poco. Mai come oggi ho rimpianto che, di fronte a quanto sta accedendo in certe città, non sia possibile utilizzare l’“esercito di popolo” che da vent’anni non abbiamo più: i pochi professionisti-“mercenari” di cui disponiamo non sono né opportuni, né necessari alla bisogna odierna.
Intanto però si va chiarendo il vero pericolo che il nostro paese corre, se non vi sta già sprofondando: quello che molti definiscono sottosviluppo e che io, pasolinianamente ostile al concetto stesso di “sviluppo”, preferirei definire di destrutturazione.
Invito al riguardo alla lettura (senza polemizzare contro il titolo) di La spirale del sottosviluppo. Perché (così) l’Italia non ha futuro (Tempi Nuovi), ultimo libro di uno dei nostri sociologi migliori e più anticonformisti, Stefano Allievi dell’Università di Padova, del quale ho già apprezzato i lucidi e coraggiosi saggi dedicati a Il burkini come metafora. Conflitti simbolici sull’Islam in Europa (Castelvecchi 2017), Conversioni: verso un nuovo modo di credere: Europa, pluralismo, Islam (Guida 2017) e Immigrazione. Cambiare tutto (Laterza 2018).
Ma questo suo ultimo libro, nella semplicità con la quale sintetizza dati che pur dovrebbero essere noti e che sono sotto l’occhio di tutti, è terrorizzante, agghiacciante: e fornisce lo spazio e la prospettiva per approfondire l’esame odierno di Conte, il quale forse non lo dice ma pensa cose non lontane da Allievi. L’Italia è un paese dal quale le generazioni più giovani (e anche più colte e preparate) sono in fuga, tagliandoci fra l’altro la speranza di una ripersa demografica. Siamo una delle popolazioni più anziane d’Europa, con un’età media superiore ai 44 anni, maggiore rispetto a quella europea che non arriva ai 42 (quella del mondo è sotto i 30, quella africana non arriva ai 20); e, mentre 17 milioni di noi superano i 60 anni, appena 10 ne hanno meno di 20. Le prospettive dei giovani in termini di lavoro sono così disperanti che l’emigrazione è divenuto un problema tremendo, che non richiama però l’attenzione dei media: dal 2018 abbiamo più morti che nati e più emigranti che immigrati. Nel 2019 gli immigrati – la “bestia nera” di gran parte dell’opinione pubblica italiana – sono stati poco più di 13.000, a fronte di circa 285.000 emigrati, di solito in giovane età e magari con le rispettive famiglie. Un’emorragia letale. Eppure c’è chi continua a lanciare proclami sull’immigrazionismo e non dice nemmeno una parola sull’emigrazionismo. Panorama allarmante anche sotto il profilo culturale: nonostante la non eccelsa qualità dei nostri laureati, essi sono comunque la metà rispetto agli altri paesi d’Europa; in cambio il numero degli analfabeti funzionali è il doppio e raggiunge il 30% della popolazione. Un disastro di cui media e classe politica non sembrano essersi resi ancora contro. Allievi indica anche alcune semplici misure terapeutiche: vale la pena di prenderle in considerazione (mi esimo qui dal riassumerle).
Rispetto agli immigrati, le informazioni fornite da Allievi saranno senza dubbio una sorpresa per molti di noi, abituati a ritenere quello il nostro maggiore rischio e a sottovalutare se non a negare i vantaggi che in una popolazione in calo provengono da quest’immissione di energie (pensiamo solo ai badanti). Certo dobbiamo saperne di più: ad esempio consultando il denso lavoro di Giovanna Ceccatelli, Stefania Tirini e Stefania Tusini, Atlante delle migrazioni. Dalle origini dell’uomo alle nuove pandemie (Clichy).
Frattanto, però, siamo attanagliati dalla paura: il fatto è che il virus ci è piombato addosso sbaragliando fragili ma lucenti e inossidabili certezze che da anni ci avevano progressivamente abituati a ritenerci al sicuro da tutto, padroni del presente e del futuro. Utile al riguardo la riflessione di Alberto Contri, La sindrome del criceto. Una malattia che blocca il paese, una proposta per rimetterlo in modo, che si avvale anche di una Postfazione di Salvatore Veca (Edizioni La Vela). Su una linea diversa, ma in fondo complementare, il saggio di Paolo Crepet, Vulnerabili. Cosa abbiamo imparato dal virus e quale futuro ci attende (Mondadori). La convergenza diagnostica di Contri e Crepet punta sulla terapia contro il delirio di onnipotenza che ci aveva colti: avrebbe già dovuto curarci il terrorismo, che abbiamo scambiato per una causa (rispetto alla quale ci siamo precipitosamente dichiarati innocenti) mentre era solo una reazione e un effetto.
Ma insomma, chi comanda sul serio in questo mondo impazzito che si sta ancora chiedendo chi sarà il futuro ospite della Casa Bianca senza sapere che egli stesso sarà comunque, nella migliore delle ipotesi, il presidente di un Comitato d’Affari? Chi volesse cominciare a farsi un’idea solida al riguardo dovrebbe leggersi il libro di Germana Leoni, Julian Paul Assange. L’ultima frontiera della libertà, con prefazione di Manlio Dinucci (La Vela) e Pietro Ratto, I Rothschild e gli altri (Arianna), che c’insegna fra l’altro come riusciamo a farci strangolare dai debiti contratti nei confronti di gente che, negli ultimi decenni, non ha fatto che derubarci. Che peccato che, nei nostri libri di storia, si continui tanto a parlare di Zanardelli o del tristo Bava Beccaris e non si nominino neppure alla lontana i Rothschild.