Domenica 1° novembre 2020, Ognissanti
L’AMORE, LA VOCAZIONE E LA MUSICA
FRANCESCO, BACH, SCHWEITZER E BERGOGLIO
Credo sia importante riflettere sulle molte implicazioni che le due ultime lettere encicliche, la Laudato si’ e la Fratelli tutti, comportano ai livelli più vari. Uno di essi, a mio avviso molto importante anche per chi non è musicologo e non ama particolarmente la musica cosiddetta “classica”, è la consonanza tra la lezione di queste due encicliche, nel solo significato cristocentrico e nella loro valenza paolina, e la meditazione bachiana di Albert Schweitzer assunta nel suo valore teologico e letta, attraverso la testimonianza di Francesco d’Assisi, alla luce della sua esperienza non immanentisticamente “umanitaria”, bensì squisitamente mistica.
Nato nel 1875 a Kaysersberg, in Alsazia, da una famiglia luterana e germanofona, Schweitzer fu pastore e teologo nonché studioso di cristologia e musicista di valore a Strasburgo (e di organistica a Parigi) fino alla definitiva scelta del 1905 allorché, trentenne, decise di abbracciare la vocazione del medico missionario e per questo, lasciata da parte una promettente carriera universitaria – aveva già pubblicato lavori importanti sulla vita di Gesù, sulla storia della ricerca cristica e di quella paolina –, dopo la laurea in medicina conseguita nel 1913, si trasferì con la moglie – e contro il parere dei familiari – nell’Africa Equatoriale Francese con l’unico oggetto di lusso di un pianoforte regalatogli dalla Società Bachiana di Parigi dove aveva studiato organo e pianoforte nel 1898. Dei suoi studi erano già testimoni la monografia a Bach dedicata nel 1905 e le ricerche filologico-pratiche di ars organaria del grande Johann Sebastian che ne avevano liberato le composizioni dagli equivoci romantici delle “sonorità orchestrali” e “sinfoniche” restituendo loro il purissimo, austero carattere d’una musica ecclesiale totalmente religiosa e mistica. Senza lo Schweitzer musicologo e musicista, lo Schweitzer organista e pianista, non è possibile capire appieno neppure lo Schweitzer innamorato biografo di Gesù di Nazareth e studioso di cristologia ben al di là – grazie al “salto di qualità” mistico – degli equivoci seminati dal positivismo “umanizzante” renaniano e dall’esistenzialismo “demitizzatore” bultmanniano.
Ma nell’Africa Francese lo aveva sorpreso nel 1914 lo scoppio della prima guerra mondiale. Per questa ragione egli, tedesco residente in una colonia francese e che dai tempi della giovinezza sempre aveva guardato alla Francia come a una “seconda patria”, era stato allontanato dall’ospedale di Lambaréné da lui fondato e nel ’17 spedito in un campo di lavoro nel meridione francese. Ottenuta automaticamente in quanto alsaziano la nazionalità francese con il trattato di Versailles e tornato a Strasburgo, aveva viaggiato in vari paesi europei prima di rientrare a Lambaréné nel 1924.
Era stata la sua convinzione, profondamente paolina, che all’amore per il Figlio di Dio (e quindi per il Padre) si giungesse attraverso la mediazione dell’amore di Gesù per gli esseri umani spinto fino alla morte – e “alla morte di croce” – a fargli scegliere di dedicare la sua vita di universitario di successo e di musicista ormai affermato agli ultimi degli ultimi, ai lebbrosi africani. È profondamente significativo, direi addirittura sconvolgente, che l’anno 1905, quello del culmine del suo successo come studioso e interprete bachiano, l’anno della pubblicazione a Lipsia del Johann Sebastian Bach, le musicien-poéte (che avrebbe pubblicato in traduzione tedesca presso lo stesso editore nel 1908), sia anche il medesimo dell’abbandono della carriera universitaria e della scelta missionaria.
“Quando ero nei peccati, troppo amara mi era sembrata la vista dei lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia; e allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu mutato in dolcezza di animo e di corpo; e in seguito, dopo aver indugiato un poco, uscii dalla vita secolare”. Queste parole autentiche di Francesco d’Assisi, poste a sigillo iniziale del suo Testamentum, sono la chiave interpretativa centrale della vita di Albert Schweitzer. E lo sono della lettera enciclica Fratres omnes di un altro Francesco, di papa Jorge Mario Bergoglio, il quale incentra la sua mistica cristocentrica – da troppi fraintesa come “umanitarismo immanente” – sull’amore per gli ultimi.
Nel 1953 in un’altra colonia francese, l’Indocina, la guerra di liberazione avviata nel 1946 volgeva al termine: l’anno dopo si sarebbe svolta la tremenda, definitiva battaglia di Bien-Bien-Phu. Intanto, la stessa Africa Equatoriale Francese – così denominata dal 1910 – si andava dissolvendo e frammentando in più stati di nuova, faticosa indipendenza. Appunto nel ’53 ad Albert Schweitzer, che avrebbe abbandonato novantenne dopo ogni sorta di prove e di privazioni questo mondo dodici anni più tardi, venne assegnato il Nobel per la pace. I suoi scritti sul tema del rispetto della vita – la vita umana e la vita cosmica –, che suonano così coerenti con la lettera enciclica Laudato si’ di papa Francesco, giustificano ampiamente quell’altissimo riconoscimento premio di una testimonianza che non aveva esitato a mettersi in gioco sia nel contatto con le malattie contagiose, sia nel pieno delle più feroce lotte che avevano dilaniato la sua terra d’elezione, la sua Africa.
E di pace, la vera pace che non è di questo mondo, di pace fondata non sull’assenza di guerre guerreggiate bensì sull’amore, Schweitzer era stato testimone. Riascoltare oggi le sue magistrali interpretazioni organistiche bachiane ci riconduce al centro della sua testimonianza.