Domenica 1° novembre 2020, Ognissanti
TRADIZIONALISMO E CONSERVATORISMO
CONTRO IL “CONSERVATORISMO RIFORMISTA”, PER LA “RIVOLUZIONE REAZIONARIA”
Alcuni Amici, ai quali evidentemente la definizione politica di “conservatori riformisti” recentemente adottata a livello europeo piace ma che non la trovano del tutto convincente, mi chiedano perché mai io, che pure mi professo “reazionario”, ce l’abbia tanto con i “conservatori”. Ma il reazionario, in fondo, non è un “conservatore al quadrato”? E poi – argomentano – magari attaccassi i conservatori “da destra”, accusandoli di non essere abbastanza reazionari (come invece mi vanto di essere io); nossignori, io li attacco “da sinistra”. A questo punto mi dicono: “Caro mio, i casi sono due: o sei davvero un VVV (Vecchio Vanitoso Vaneggiante) come ti ha descritto un anonimo interlocutore di Marco Tarchi, o siamo noi che non ci capiamo più nulla”.
Cari amici, la prima ipotesi non sono in grado di smentirla: certo è esatta per i primi due elementi e non posso escludere che lo sia anche per il terzo; la seconda è sbagliata. Voi capite benissimo: forse, però, c’è una cosa che non vi è chiara abbastanza. La seguente.
Cominciamo col riferire, sobriamente commentandola, quella che al riguardo è la “dottrina classica”. Il conservatore è colui che accetta e valorizza la tradizione alla quale appartiene, vi fonda la propria identità, vi conforma le proprie scelte e alla luce di essa risolve i problemi che gli si presentano dinanzi. Valutando il presente in funzione della lezione del passato, può anche correggere quest’ultimo: in questo caso, restando un conservatore, è anche un riformista che si distingue dal “riformista puro” il quale del passato non tiene adeguato conto. Mai il conservatore sarà un rivoluzionario, dal momento che quest’ultimo la tradizione vuole distruggerla.
Ebbene: se fossimo in un mondo segnato dall’Islam, o dal buddhismo, o dall’induismo, o dal confucianesimo, o dallo shintoismo, o perfino da una qualche tradizione sciamanica o animista, e comunque non contaminato dalla Modernità occidentale – ma un mondo così ohimè non esiste più in nessun angolo del globo terraqueo –, magari sarei conservatore anch’io: e “conservatore riformista”, appunto, in quanto penserei che quelle nobili e venerabili tradizioni si gioverebbero di una modernizzazione che accogliesse con misura e saggezza la lezione occidentale.
Ma la modernizzazione occidentale impostasi alla luce di quella che noi definiamo Modernità – costituita (ripetiamolo l’ennesima volta) di primato dell’individualismo e di egemonia del trinomio economia-finanza-tecnologia prometeica, quindi essenzialmente postcristiana-anticristiana – quella non posso né apprezzarla, né accettarla.
Il conservatore occidentale assume in blocco, e se ne gloria, la Modernità: che è idolatria dell’individualismo, ipertrofia del capitalismo, culto del profitto che ha come fine il profitto ulteriore, secolarizzazione della società e desacralizzazione del potere (il che finisce col coincidere con la relativizzazione dei fondamenti del diritto), eredità del colonialismo con tutte le sue infamie e i suoi delitti, assunzione della pratica liberista con i suoi fallimenti storici nascosti dietro due successive vittorie militari nel 1918 e nel 1945 e il fallimento di un esperimento socialista, quello sovietico, che prova l’inadeguatezza di esso ma non la bontà dell’antagonista che ha invece equivocamente trionfato. Ed è alla luce di un passato così assunto che il conservatore giudica il presente: con risultati che, in questo nostro XXI secolo, si giudicano in tutta la tragicità di un mondo senza pace, senza sicurezza, senza giustizia.
Il reazionario è invece, anzitutto, colui che respinge la conservazione del mondo ereditato dalla Modernità: può a sua volta servirsi dello strumento politico delle riforme per correggerne gli aspetti più infami e deleteri; ma sa che quel che occorrerebbe per rovesciarlo del tutto sarebbe una Rivoluzione. E Rivoluzione antimoderna significa restaurazione del pensiero metafisico e comunitario al posto dell’immanentismo e dell’individualismo; liberazione culturale delle tradizioni dalla cappa umiliante del “razionalismo” moderno; riaffermazione della sacralità della vita e dell’ordine cosmico di fronte alla visione meccanicistica e in prospettiva ateistica loro imposta dalle “rivoluzioni scientifiche” cinque-settecentesche, preludio all’approdo moderno all’ateismo de facto (magari travestito in Occidente da “cristianesimo sociologico” e agghindato dal maquillage della “tolleranza”).
Una “Rivoluzione impossibile”? Nella prospettiva metafisica, no davvero: in quell’àmbito, la “Reazione rivoluzionaria” è anzi, come avrebbero detto i predicatori barocchi, appunto “predicabile”. Nella pratica storica, purtroppo forse sì. Ne deriva la necessità e la ragionevolezza del dirsi “reazionari riformisti”: decisi cioè ad attuare, nell’ordine e nei limiti del possibile, quelle “riforme” suscettibili di rimediare in tutto o in parte ai guasti della Modernità. Solo che combattere gli esiti della Modernità non può essere ormai un fatto solo “riformistico”; deve andare al di là della correzione e della depurazione, deve trasformarsi in distruzione di precedenti infausti: dev’essere per forza “rivoluzionario”. Non c’è nulla da conservare, neppur corretto da riforme.
Ma – si obietta – tutto ciò non equivale a “voler rimettere indietro le lancette della storia?”. Miei poveri amici, andatevi a rivedere le prime scene de Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, quelle esplicitamente oniriche. L’orologio della storia le lancette non ce le ha: alla domanda del Galileo di Brecht, “A che punto è la notte?”, la storia non sa e non può rispondere. Non c’è un “avanti”, non c’è un “indietro”, salvo nell’ampio ma pur limitato àmbito delle scienze e delle tecnologie; in quello della religione, dell’etica, dell’estetica e di tutte le forme sociali della vita umana alle quali scienza e tecnologia possono dal canto loro infinitivamente adattarsi, la storia è un continuo avvicendarsi di forme sociali e istituzionali dettate dall’incontro tra volontà umana e condizionamenti naturali-ambientali; e il passaggio dall’uno all’altro può esser dolce e graduale talora, violento e repentino (l’“emergenza” e la “decisione”) talaltra.
Né la storia non conosce alcun fine immanente: non ha alcun senso, non ha alcuno scopo. Ovviamente, ne ha uno trascendente: riguardo al quale ci è consentito l’interrogarsi, ma che non ci è dato né il conoscere, né il modificare. Per quello abbiamo solide e sicure guide nelle Scritture e nella Tradizione, della quale le differenti tradizioni sono specchio imperfetto eppure prezioso. E a differente distanza dalla Verità.