Domenica 1° novembre 2020, Ognissanti
LA PAROLA DI DIO E LE LINGUE DELL’UOMO
UN PATER EMENDATO, UN GLORIA DA RIVEDERE
Sia chiaro che quanto sto per dire esula quasi del tutto dalle mie competenze. Non sono né un biblista, né un liturgista. Sono solo un membro della Chiesa cattolica che in questi anni ha studiato qualcosa nell’àmbito delle lingue antiche e della teologia neotestamentaria, senz’alcuna pretesa di originalità e pronto a sottomettermi umilmente al magistero della Chiesa.
Il nuovo Messale Romano, ohimè, non mi è apparso esente da bufale: resto convinto che tradurre la liturgia nelle lingue volgari sia stato un grave errore; e mi chiedo se davvero l’équipe dei traduttori sia stata idonea alla bisogna e abbia potuto lavorare nel modo migliore. L’errore, peraltro, è a monte e risale alle pieghe meno commendevoli del Concilio Vaticano II: l’adozione degli idiomi volgari nella liturgia. Scelta incauta e demagogica, destinata a creare danni incalcolabili. Del resto, una qualche plausibilità visto l’originale latino poteva darsi per le lingue non-neolatine: ma nelle nostre (e soprattutto nell’italiano) non era proprio il caso. Bastava un po’ di pazienza e di buona volontà: sarebbe stato almeno in parte evitato il tragico precipizio nel quale è caduta la cultura media, che in quel che restava della fede e della pratica ecclesiale trovava un solido, e prezioso ancoraggio. Ma ormai la frittata è fatta: è da una sessantina d’anni che Santa Romana Chiesa (un po’ anche in capite, moltissimo in membris) non ne imbrocca più una o quasi. Dev’esser proprio vero che gode della speciale assistenza dello Spirito Santo: altrimenti a quest’ora sarebbe già in polvere.
Il Pater andava modificato da tempo. Già il latino biblico-neotestamentario è una frana, ma quel “non indurci in tentazione” (ne nos inducas significa in realtà il ben diverso “non permettere che cadiamo…”) gridava vendetta al cospetto di Dio da secoli. Stessa faccenda della traduzione letterale e maccheronica – ancora più grave – del Gloria. La fonte della preghiera è Luca, 2,14; ma per quanto ne sappiamo noi l’autore che identifichiamo con l’evangelista Luca (che segue Matteo e anche Marco) difficilissimamente fu il medico compagno di Paolo e autore anche degli Atti degli Apostoli, e il suo scritto va datato almeno addentro al II secolo d.C. Che fosse antiocheno è probabile, era forse un greco-siriaco: non doveva essere originariamente ebreo (vale a dire figlio di madre ebrea), quindi è probabile fosse un proselytos, un “sopraggiunto”, uno di coloro che, di origine non-ebraica, avevano accettato il credo e i costumi d’Israele ma ormai già quando il cristianesimo si era già formato e il cordone ombelicale con la tradizione giudaica era già tagliato (che poi al filiazione resti ferma e irrinunziabile è un altro discorso). In altri termini, forse un po’ di ebraico quella persona o quell’équipe che noi siamo abituati a chiamare “Luca” lo aveva anche studiacchiato: ma l’aramaico – la lingua di Gesù – con tutta probabilità non lo conosceva, forse non se n’era nemmeno curato (per quanto esso sarebbe stato necessario alla migliore comprensione del testo di Matteo, la versione aramaica del quale è adesso purtroppo a noi sconosciuta) e comunque il suo testo originario è in greco. In altre e più semplici parole, “Luca” (persona o équipe) è probabilmente comunque un pagano convertito al cristianesimo, con nessun vero e proprio legame con la tradizione ebraica: i suoi angheloi che cantano hanno poco a vedere con i malakhim dell’Antico Testamento. Il fatto che di Luca non si abbia un testo ebraico o aramaico ha anche impedito a san Gerolamo di modificare in qualche modo una tradizione che ai suoi tempi, fra IV e V secolo, egli trovava già consolidata (per fortuna, d’altronde: altrimenti magari avrebbe fatto peggio che meglio).
A questo punto il Gloria… hominibus bonae voluntatis, in un latino già sintetico ed oscuro, forse misteriosamente maldestro – è difficile spiegare razionalmente un’intuizione o un’ispirazione –, significa con ogni probabilità “gli uomini (fedeli) alla giusta Volontà”, cioè coloro che seguono la retta via della Volontà di Dio. Per indicare il deciso e sicuro conformarsi alla Volontà divina non mi risulta vi sia né in ebraico, né in greco, né in latino una parola sola e tecnicamente precisa: è probabilmente necessario ricorrere a una parafrasi, com’è appunto in latino l’espressione bona voluntas, dove l’aggettivo bona non riguarda gli uomini che la seguono, ma Dio che ne è la fonte. Siamo al fiat Voluntas Dei di Maria: “Ecce ancilla Domini: fiat mihi secundum verbum tuum” (Luca, 1, 38; rileggetevi anche la mirabile sura XIX del Ciorano, che è Maryam, dedicata a Maria). Ma il Verbum dell’angelo è appunto espressione fedele e diretta della Voluntas di Dio: Maria è il modello e lo specchio degli homines bonae voluntatis, coloro che ascoltano la parola di Dio, l’intendono correttamente e la seguono ogni giorno. Per quest’attitudine esiste una sola parola esclusivamente in arabo, è ed è meravigliosa: Islam, probabilmente connesso con il suo quasi omofono Salam, che è perfettamente analogo all’ebraico Shalom e che significa perfetto e cosciente consenso da parte dell’uomo alla Volontà di Dio. È quanto appunto troviamo espresso dal Perfetto tra gli esseri umani esattamente nel momento nel quale in tutta la Scrittura – e, per i credenti cristiani, in tutta la storia – il consenso tra Volontà divina e volontà umana appare più problematico: la preghiera di Gesù nell’Orto del Gethsemani, quando la Sua anima era triste “fino alla morte” (Matteo, 26, 39; cfr. Marco, 14, 36; Luca, 22, 43). Questo è esattamente, nel modo più alto, profondo e drammatico, il limite estremo della conformitas da parte dell’Uomo, che è pur anche Dio, rispetto alla Volontà del Padre: il momento più drammatico e misterioso della teologia trinitaria e il modello irraggiungibile e ineffabile di quello che i nostri fratelli in Abramo, i musulmani, intendono con il termine Islam. Francesco d’Assisi è giunto a conferire a quest’assoluta perfezione l’ultimo tocco quando ha espresso il concetto di Laetitia: obbedire a Dio e farlo sempre con gioia. Qui sta l’intimità del consenso, il vero Islam.