Domenica 8 novembre 2020, San Goffredo
EDITORIALE
LA LEGGE, LA GIUSTIZIA, LA NATURA UMANA
Il 4 novembre scorso, la Camera ha approvato in prima lettura la cosiddetta “legge Zan”: la quale, come a mio avviso giustamente osserva Francesco Ognibene nell’articolo mutatis mutandis, su “Avvenire” del giorno successivo, “non solo è superflua, anche se in parte originariamente benintenzionata: è soprattutto una legge presuntuosa e rischiosa”.
Non sono un giurista: e le cose che dirò saranno fondamentalmente ispirate com’è evidente dalla mia fede cattolica e dalla posizione storico-antropologica che da essa dipende discende. Mi sforzerò comunque di non assumere alcun atteggiamento rigorosamente “confessionale”, anche perché il farlo renderebbe in partenza inutile e impossibile proseguire il discorso. Non sono affatto un cattolico “laico” (se non nel senso strettamente ecclesiologico e liturgico di tale aggettivo): ma sono un cattolico profondamente cosciente di vivere in uno stato laico, di averne accettato non già i princìpi ontologici e metafisici bensì la logica storica e la normativa che ne consegue; e ho coscienza del mio dovere di essere fedele allo stato del quale sono cittadino e del quale continuo a sentirmi funzionario dal momento che ininterrottamente lo sono stato – e sotto giuramento – per quarantasei anni, dal marzo del 1966 all’ottobre del 2012, prima come ufficiale delle forze armate e quindi come insegnante nella scuola secondaria e docente nell’università di stato. Come anzi continuo ad esserlo, in quanto la mia attuale condizione di professore emerito mi obbliga a tenermi a disposizione del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca per eventuali necessità. Una fedeltà che intendo assoluta e incondizionata, salva fidelitate Sanctae Romanae Ecclesiae.
Sia chiaro anzitutto che io non solo seguo disciplinatamente, ma che intimamente solidarizzo con quanto il Santo Padre ha avuto modo di affermare a proposito di omosessuali e di transessuali: che non sposta di uno iota né di un apice la dottrina e la tradizione cattolica al riguardo ma che sottolinea con forza – e col rischio, peraltro calcolato, di far insorgere equivoci: che però NON possono mettere radici tra cristiani intelligenti e in buona fede – il preciso dovere di rispetto, di solidarietà, di carità nei confronti di fratelli che, secondo la dottrina cattolica, sono certo vittime di un “vizio” – vale a dire di una perversa inclinazione psichica ch’essi hanno il dovere di combattere e di reprimere – ma non responsabili di alcun peccato finché a quel rischio non hanno accordato il loro consenso. Chi si porta addosso un simile fardello merita rispetto e comprensione, non dileggio e insulti. Chi cede al peccato ha comunque diritto alla solidarietà alla quale tutti i peccatori debbono poter accedere presso il loro prossimo. Da qui al cedimento ce ne corre: e chi mentendo afferma il contrario è a sua volta un peccatore di un peccato non meno grave di quello che sostiene di stigmatizzare.
Sacrosanto quindi l’impegno – dal quale parte anche il DDL Zan – di combattere, contrastare e punire penalmente l’espressione di volontari pregiudizi contro omosessuali e transessuali e il tentativo di sottoporli a umiliazioni e a discriminazioni ingiuste.
Però il dibattito che si è acceso prima in Commissione e poi in Aula ha svelato in molti deputati qualcosa di molto diverso e che va molto al di là delle intenzioni preliminarmente espresse: è emerso, ed è passato sotto forma di enunciazione giuridica, un disegno scopo del quale è la ridefinizione profonda di comportamenti etici e sociali che sono largamente condivisi e consolidati nella nostra società; e, al di là di ciò, addirittura un’istanza di modifica sostanziale di quella che tanto nelle tre religioni abramitiche quanto in numerosi culti propri di quelle che si definiscono ordinariamente “religioni naturali”, cioè cosmico-immanentistiche, si qualifica ordinariamente come natura umana. Dietro il terenziano homo sum, nihil humani a me alienum puto, che pure esprime anche comprensione per lo stesso crimine, c’è un’energia che nei millenni si è tradotta in istanze miticoreligiose e giuridiche e che si ritrova – per restare nel nostro mondo di radice grecolatina – dall’Odissea all’Antigone di Sofocle fino a giungere a Seneca e a Marco Aurelio: si tratta delle “nozze”, dei “tribunali” e delle “are” di foscoliana memoria, non già rinnegate bensì al contrario corroborate dalla Bibbia, dal Vangelo, dal Corano e dall’Iti Vuttaka buddhistico. E siamo ben prima, con ciò, nel giusnaturalismo del Grozio e del Pufendorf.
Ognibene enumera, nel suo articolo su “Avvenire” (che, lo sappiamo, è il quotidiano della CEI: quindi senza dubbio una “parte in causa”), “almeno otto motivi che rendono questa legge ideologica e perciò potenzialmente dannosa”. E li declina subito, avvertendo che prima che la legge divenga operativa c’è tutto il tempo di modificarla nei due rami del parlamento (ammesso inoltre, e magari anche concesso, che qualcosa di esso non venga rimesso in discussione dalla presidenza della repubblica o dalla Corte costituzionale).
Dal canto mio, sottolineerei alcuni punti sui quali una riflessione mi pare opportuna.
Anzitutto, prendiamo in considerazione l’ingresso di una “Giornata nazionale” – fissata al 17 maggio – durante la quale si assumerebbero in tutte le scuole iniziative (quali?) dirette “contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”.
Ora, in queto rosario di più o meno ormai stagionati neologismi io francamente non mi ritrovo granché. Anzitutto perché mi sembra che si siano affastellati a caso concetti tutt’altro che chiari. Come si configura – a livello tanto fisiologico quanto etico e giuridico – una “fobia”, intesa come non tanto un odio o un’avversione, quanto (andatevi a consultare qualunque dizionario specialistico) un “sintomo nevrotico consistente nella paura esagerate e invincibile nei confronti di qualcuno o di qualcosa”? Io non mangio pesce e, gattofilo convinto, non provo particolare simpatia per i cani, pur accordando loro molti pregi. Sono per questo un “ittiofobo” o un “cinofobo”? Oppure, se per un’ipotesi di rovesciamento che, se non altro come divertissement, si usa molto formulare a livello etologico o antropologico (ricordate il “Paradosso di Porta Vicentina” di Umberto Eco?) noi vivessimo in una società che ritenesse indecorosa e indecente l’espressione di attrazione per il sesso opposto al proprio, potrei essere accusato di “omofilia” solo se affermassi che una ragazza mi piace, o per essere incriminato dovrei ricorrere a qualcosa di più deciso? E perché poi, a livello filologico e giuridico serio, distinguere tra “omofobia” e “lesbofobia”? Se “lesbofobia”, con riferimento alla povera venerabile Saffo, s’intende la condanna per l’attrazione erotica nei confronti del sesso femminile da parte di esseri umani di sesso analogo, ciò non è già espresso nel concetto di “omofobia”, dal momento che tale termine indica l’avversione nei confronti di chi è attratto dai portatori di un sesso uguale al suo (greco omoios), non dai portatori di sesso maschile (latino homo, che ha tutt’altra radice)? La lesbofobia esprime l’avversione all’omofilia manifestata da donne, poiché il termine “ginecofobia” non si usa. Tecnicamente, si dovrebbe parlare di “omofobia” maschile o femminile, oppure distinguere tra “androfobia” e “ginecofobia” o “femminofobia”, bruttissimo neologismo, analogo però al “femminicidio” che erroneamente si oppone all’“omicidio” inteso in modo sbagliato come “assassinio di un essere di sesso maschile” (homo), mentre correttamente significa “assassinio di un simile” (omoios). Peraltro, dovrebb’esser noto che il Genesi parla dell’uomo (anthropos, homo) e dice che Dio lo creò maschio (anèr) e femmina (gynè). E già che stiamo a sottilizzare aggiungiamo che, visto il fatto che si sta parlando di sesso e non di sentimenti, più che omofilia – da philia, amore tendenzialmente casto e spirituale – si dovrebbe denominare “omerastia”, da eros, amore carnale e sensuale.
Vi chiederete se vi stia prendendo in giro. Il fatto è che le cattive leggi cominciano da un cattivo uso delle parole: e proprio dall’emendarle si dovrebbe cominciare, anche per dare un esempio alle giovani generazioni. Allo stesso modo, “bifobia” risulta ridicolo: altrettanto, ma più proprio, sarebbe un grecoromano uterquefobia, per indicare l’avversione nei confronti di quel che volgarmente sono gli “ambodestri”.
Insisto su questi ridicoli aspetti della questione per sottolineare quanto inopportuno sia, già dal punto di vista della corretta esplicazione e del corretto apprendimento, il toccare argomenti del genere con bambini delle elementari e con ragazzini delle scuole medie. L’apprendimento specifico, in quei casi, verrà col tempo: e l’ideale sarebbe che cominciasse appunto dalle famiglie ancor prima che non dalle scuole; per quanto poi si sappia che è piuttosto la frequentazione tra coetanei o semicoetanei, quando non “la strada”, che inizia magari anche brutalmente a certe cognizioni; e questo tipo di iniziazione, sia quella correttamente auspicabile in una sede familiare o amica responsabile, non è burocraticamente gestibile dalla scuola se non a un’età sulla quale si può discutere, ma che non deve comunque raggiungerne una troppo antecedente la fase preadolescenziale. Scuola materna, scuola elementare e media inferiore rimangono quindi istituti che a questo tipo d’iniziazione debbono rimanere estranei: la “Giornata nazionale” contro certi atteggiamenti mentali, che presuppongono un’esperienza almeno concettuale e una scelta, debbono aspettare. E, nella misura nella quale questi temi toccano anche lo statuto religioso dei giovanissimi e delle famiglie, la scuola non può se non astenersi dall’entrarvi prima del raggiungimento da parte dei ragazzi d’un’adeguata maturità d’informazione e di giudizio: che dovranno essere la famiglia, l’eventuale personale religioso di riferimento e gli specialisti delle discipline psicopedagogiche a decidere, non il parlamento. La questione è molto vicina al problema del delitto d’opinione da qualcuno auspicato a proposito di temi il giudicare i quali è pertinenza degli storici, come i limiti della legittimità o meno nella discussione di temi riguardanti il fascismo, il nazismo, il cosiddetto “negazionismo” e la shoah: temi storici, dinanzi ai quali la comunità degli storici deve esprimersi in prima istanza mentre magistrati e politici non possono che prendere atto dei responsi che in sede specialistica storica saranno formulati. Altrimenti, si configura un atto di liberticidio: che è proprio quello che si configura anche imponendo la “Giornata nazionale” dei temi relativi all’educazione sessuale come attribuibile alla scuola, scippandola alle famiglie e, per quelle che lo desiderano per i loro figli minorenni, al magistero religioso.
Tale è il pericolo insito nella problematica relativa al gender, vale a dire all’atteggiamento psichicamente e comportabilmente – in una parola “culturalmente” – diverso da quello che sotto il profilo naturale è il sesso. Se è vero che la persona può esercitare il proprio diritto scegliendosi un “genere” culturale, è non meno vero che tale scelta va tutelata affinché avvenga in un contesto di piena coscienza e di totale libertà: l’instillare in bambini l’idea che l’appartenenza sessuale, dalla quale dipende fra l’altro la sopravvivenza del genere umano, sia pura convenzione e che l’umanità non sia costituita di molteplici e indefinite diversità esclusivamente individuali (tra le quali quella sessuale è una, come quella generazionale, o quella antropolinguistica, o quella religiosa, sono altre), bensì da ben individuabili – e preziose – diversità comunitarie, è un’infamia indegna di passare nel tessuto giuridico-politico di qualunque società; e quell’infamia non sarebbe affatto qualcosa di “naturale”, bensì un’autentica violenza nei confronti della realtà, della natura, della storia. I glottologi e i linguisti, a non dir altro, dovrebbero essere ben consci dei danni dirompenti che una diseducazione del genere potrebbe portare nello stesso tessuto del linguaggio; e non esiste psicanalista che non sia in grado di spiegare quali danni irreparabili nella psiche di qualcuno siano prodotti dalla confusione nel linguaggio. La pretesa di riscrivere “per legge” atteggiamenti e sentimenti strettamente, profondamente connessi con la natura intima di ciascuno di noi, e di volerlo fare nel nome di un’astratta “libertà individuale” che si dovrebbe in tal modo raggiungere, è una mostruosità orwelliana: e difatti la “neolingua” che ossimoricamente chiama “pace” la guerra e “amore” l’odio è un asse portante di 1984. Un conto è insegnare ai ragazzi, appena raggiungano la maturità necessaria e in accordo con i loro tutori responsabili (cioè ordinariamente con le famiglie) a gestire l’esperienza della diversità in se stessi e negli altri; un altro è imporla con l’autorevolezza dell’insegnamento scolastico a minori che non sono in grado di valutare, sostituendosi a genitori (o a educatori di altro ambiente e livello: e io, cattolico, penso anche alle parrocchie) che possono essere su ciò in disaccordo e negando anzi addirittura loro il diritto al dissenso. Non sarebbe la prima volta nella storia che una tirannia viene imposta nel nome della generalizzata libertà di tutti e di ciascuno: ed è questo l’ossimorico rischio sottostante – c’illudevamo che ciò fosse chiaro… – al politically correct.
La società occidentale moderna è pluralistica, per quanto lo sia molto meno di quanto pretende e millanta. Può non piacere – e personalmente non sono affatto sicuro che mi piaccia – ma è così e bisogna stare al gioco. Il pluralismo sottintende differenti visioni e differenti atteggiamenti rispetto a qualunque problema nel quale un’opzione sia lecita: premesso che a nessuno possono essere sottratti i fondamentali diritti alla vita, alla libertà, al lavoro, all’istruzione e al rapporto con gli altri nel rispetto reciproco, è evidente che i modi d’intendere la vita, i rapporti fra i sessi i gruppi sociali o etnici o le generazioni, le opzioni culturali eccetera debbano essere liberi e tutelati da leggi che per loro natura tali libertà limitano nella misura in cui la libertà di ciascuno è limitata da quella di tutti. Ma il pretendere per legge di stabilire un cànone psicopedagogico unitario che vada al di là del rispetto di ciascuno per l’altro prescrivendo al contrario – perché di questo si tratta – il diritto di alcuni alla prevaricazione e il dovere di altri di essere prevaricati, ciò è inammissibile. Il papa ha chiarito con energia che nessuno deve negare dignità e libertà d’espressione a chi sia passibile di essere considerato “diverso” sessualmente: ma appunto ciò sottintende il dovere di servirsi di tutte le libertà con discrezione. Il negare il diritto di espressione a chi respinga dal suo codice morale certe espressioni o certi comportamenti derubricando questa libera espressione di volontà a crimine è giuridicamente contraddittorio e moralmente inammissibile. Ciascuno di noi ha il sacrosanto diritto di respingere da sé e da quanto gli è prossimo e pertinente certi stili di vita o tipi di comportamento che egli non approva, pur senza giudicare né condannare chi ne è portatore; per converso, la scelta di un certo stile di vita o di un certo comportamento non può giungere ad imporsi sugli altri con espressioni che sarebbero “libertà” per chi ne abusasse ma offesa e violenza per chi ne fosse ferito. La legge Zan finisce col minare questi princìpi, con il coartare e il negare il corretto e generale uso della libertà di ciascuno.
E questo è appunto quanto è più debole e meno accettabile della legge Zan. Chi stabilisce, in ultima istanza, i limiti e la qualità dell’ossequio a qualcosa che rientri nella normativa pubblica? Le scuole religiose – cristiane, ebraiche, musulmane – che non volessero celebrare la “Giornata” antiomofoba o volessero farlo sulla base di altri argomenti e di differenti problematiche, potrebbero farlo, e come? Sarebbe ammessa una “obiezione di coscienza” d’insegnanti (e non parliamo poi del caso particolare degli insegnanti di religione), di familiari e perfino degli studenti stessi, quanto meno di quelli in età di potersi liberamente esprimere? E che ne sarebbe delle (molte) femministe che negano la legittimità dell’“identità di genere” ritenendola distruttiva nei confronti del femminismo stesso? Ma che cos’accadrebbe poi, in materia di “genere”, se una sola autocertificazione di scelta autonoma bastasse a sconvolgere confini che toccano le stesse “certezze del diritto”? Vi sono evidentemente “libertà” che, per pretendere il diritto ad essere esercitate, non possono non esserlo se non in un àmbito il più possibile privato e riservato: senza vergogna, ma con la discrezione e il senso di responsabilità sufficiente a rendersi conto che una libertà che s’impone con arroganza a quelle altrui è per sua natura una “libertà liberticida”. La cultura occidentale moderna ha chiesto “pluralismo” e “relativismo”: chi si proclama portatore di certi valori deve aver ben chiaro che essi, se non vogliono trasformarsi in forze aggressive e disgreganti dei diritti altrui, debbono esser esercitati nel contesto della “relatività”. E questo non è un gioco di parole: significa che nessuna identità può pretendere di esprimersi in modo lesivo delle identità altrui e che le leggi sono tenute a rispettare tale difficile equilibrio. Perché la libertà, quella vera, è una realtà tanto bellissima quanto fragile.
Non è quindi opportuno che l’iter della legge Zan sia troppo rapido. Certe questioni hanno bisogno di venir soggette a un’adeguata stagionatura. Il senato ne muterà senza dubbio il quadro e la rimanderà alla camera; vi sono poi altri poteri dello stato che reclameranno il loro diritto a farsi sentire; e in questo paese, in questa civiltà, esiste infine un sostrato etico trascendentalmente appoggiato che non riguarda la sola Chiesa cattolica né la sola fede cristiana. Vi sarà tempo e modo di meditare senza bisogno di preoccuparsi troppo dell’eventualità di fenomeni di “prevaricazione” o di “bullismo” che il dispositivo di questa legge dovrebbe combattere: per questo fine la legislazione ordinaria è più che sufficiente. Com’era già sufficiente la legislazione ordinaria contro le apologie “di reato” o “di fascismo” senza bisogno di tentare il maldestro ricorso a nuove leggi “contro il liberticidio” cha hanno finito con il configurarsi, nella concreta realtà, come veri e propri attentati alla libertà di coscienza, d’opinione e di ricerca. Ossimoriche “libertà liberticide”; mostruosi meccanismi pseudolegali tesi fra il mondo sognato da Saint-Just e quello disegnato da Orwell.