Minima Cardiniana 300/6

Domenica 8 novembre 2020, San Goffredo

IN MEMORIAM
SEAN CONNERY, L’ULTIMO HIGHLANDER
Si era ritirato dalle scene nel 2003, dopo l’esperienza non proprio entusiasmante del film La leggenda degli uomini straordinari, del quale era stato attore e co-produttore. “Stufo di avere a che fare con degli idioti”, a poco più di settant’anni aveva deciso di appendere al chiodo gli abiti di scena per indossare l’adorato kilt scozzese, che grazie a lui riusciva quasi a diventare un abito fashion.
Sir Thomas Sean Connery è passato a miglior vita lo scorso 31 ottobre, qualche mese dopo aver spento novanta candeline. Una carriera meravigliosa, la sua, non solo per il ruolo che lo rese famoso, ovvero James Bond, del quale vestì i panni in ben sette pellicole. Fisico atletico e slanciato, un metro e ottantanove di altezza, dopo aver svolto diversi, umili mestieri, si affacciò sulle scene inglesi come attore teatrale. Ma fu la sua partecipazione a Mister Universo, nel 1953, a spalancargli l’anticamera della gloria: in rappresentanza della Scozia, si classificò al terzo posto; così fu notato e “scritturato” in diverse produzioni televisive e cinematografiche.
Una volta spogliatosi della divisa dello 007 più amato dalla critica (e dalle donne) – una divisa che creò mode e trend –, Sean Connery attraversò il periodo più felice, in qualità di attore, negli anni ottanta del secolo scorso. Magistrale nel ruolo di Guglielmo da Baskerville ne Il nome della rosa (1986), straordinario nei panni del poliziotto irlandese (buon sangue “cugino” non mente) Jimmy Malone (Oscar come miglior attore non protagonista) ne Gli intoccabili (1987) di Brian De Palma, il fascinoso scozzese riusciva a circondare di un alone magico ogni film in cui recitava, caratteristica che distingue un fuoriclasse da un “normale” attore, seppur di rilievo. La mia generazione non può dimenticare Juan Sánchez Villa-Lobos Ramírez, il maestro d’armi spagnolo di origine egiziana che insegna i trucchi del mestiere a Connor MacLeod (Cristopher Lambert) in Highlander. L’ultimo immortale (1986). Citare ogni singola apparizione è impossibile. La sua estrema versatilità lo rendeva adatto a ogni tipologia di personaggio: ricordate lo scrittore scorbutico William Forrester, che richiama un po’ il mitico J.D. Salinger, l’autore de Il giovane Holden, in Scoprendo Forrester (2000)? Oppure il capitano sovietico Marko Ramius in Caccia a Ottobre Rosso (1990)? Infine, il “padre” di Idiana Jones ne L’ultima crociata (1989)?
Qualche curiosità: a causa della prematura calvizie, Connery recitò in tutte le pellicole di 007 con un toupet per non rischiare di compromettere il fascino di Bond. Non lo compromise. Anzi, la calvizie, con l’avanzare dell’età, finì per rivelarsi un componente “aggiuntivo” del suo successo: come un buon single malt (scotch, naturalmente), Sean migliorava man mano che gli anni passavano.
Connery portava un tatuaggio sul braccio destro, “Scotland Forever”, che tuttavia non permise mai che si notasse nei film che interpretava. Profondamente innamorato del suo paese (come dargli torto), sostenne la campagna per l’indipendenza della Scozia in occasione del referendum del 2014. Come non amare un personaggio del genere. So long, Sean.

GIGI PROIETTI, L’OTTAVO RE DI ROMA
Stava compiendo ottant’anni, il grandissimo Gigi Proietti, all’anagrafe Luigi. Ma forse, come ci ha raccontato il collega ma soprattutto amico di una vita, Enrico Montesano, ha preferito lasciarci così, con un’ultima “mandrakata”, nello stile del personaggio da lui interpretato e reso famoso da un film diventato cult, Febbre da cavallo (1976). Se n’è andato all’alba del giorno del suo compleanno, lo sorso 2 novembre, per un arresto cardiaco. Un gigante della nostra cultura, un maestro del teatro prestato al cinema e alla televisione, in tutti i sensi uno straordinario compagno di viaggio, quasi fosse un amico di “famiglia”. Un talento più unico che raro assecondato da anni di studio e gavetta, sudore e fatica, in un’epoca durante la quale un fiore che nasce non può sbocciare senza un duro lavoro che renda fertile il terreno.
Che dire di Proietti, se non quello che personalmente ho apprezzato di più. Non è possibile citare neanche una piccola parte di ciò che ha realizzato e (fortunatamente) ci ha lasciato. È stato un po’ tutto: attore, doppiatore, conduttore televisivo, cabarettista, cantante, direttore artistico, regista. Il teatro ha rappresentato senz’altro la sua dimensione elettiva: alla fine degli anni settanta assunse la direzione artistica del Brancaccio di Roma, creando un laboratorio per formare giovani attori tra i quali, negli anni, si sono distinti per esempio Giorgio Tirabassi, Enrico Brignano, Francesca Reggiani, Gabriele Cirilli. Nel 2003 riuscì a realizzare il suo sogno con la nascita del Globe Theatre a Roma, un teatro ricostruito architettonicamente sul modello del Globe di Londra, il teatro più famoso del periodo elisabettiano all’interno del quale si rappresentavano le opere di William Shakespeare.
Le sue straordinarie doti di trasformista lo consacrarono pienamente nella dimensione del One-Man Show: il suo spettacolo A me gli occhi, please si rivelò un grandissimo successo, tanto da essere riportato in scena nel 1993, nel 1996 e infine nel 2000. Erede di Ettore Petrolini – che imiterà più volte nel ruolo di Gastone –, Proietti è riuscito a farsi apprezzare anche in televisione nel ruolo di conduttore: fu lui a raccogliere il testimone lasciato vacante da Corrado e a condurre Fantastico 4, nel 1983, edizione giudicata “sfortunata” in termini di ascolti (il gruppo Fininvest, all’epoca, stava cominciando la sua scalata privando le reti pubbliche dei suoi elementi migliori a suon di contratti miliardari), ma decisamente valida e divertente nel segno del trattenimento “intelligente” e di qualità; o come attore nelle fiction, per esempio in Un figlio a metà a oppure nel ruolo del maresciallo Rocca durante gli anni novanta.
Avrebbe potuto regalarci molto di più a livello cinematografico, le doti senz’altro non gli mancavano. È pur vero che il livello culturale delle produzioni cinematografiche è andato progressivamente scemando negli ultimi tre decenni almeno, e probabilmente sarebbero andate strette a un talento come il suo. Perché uno dei suoi meriti più grandi è stato quello di non aver mai rinunciato alla qualità delle sue produzioni e, soprattutto, interpretazioni: mantenersi popolare garantendo al tempo stesso la denominazione di origine controllata e garantita di quanto proposto è impresa ardua e difficilissima. Ma il grande Gigi c’è sempre riuscito, senza mai piegarsi all’accademia da una parte o alla banalità dall’altra.
Il suo capolavoro? Viene citato pochissimo, tanto che la RAI si è lasciata scappare un’occasione d’oro, visto che avrebbe potuto trasmetterlo nelle scorse serate, invece di (ri)proporre interpretazioni “minori” e ben più inflazionate. Si tratta de I sette re di Roma, spettacolo teatrale di Luigi Magni, regia di Pietro Garinei e musiche di Nicola Piovani, rappresentato per diverse stagioni al teatro Sistina di Roma a partire dal 1989. Uno straordinario viaggio nella città eterna, una sorta di musical nel quale Proietti interpreta da solo i sette re più altri personaggi in chiave comica e, soprattutto per i giovani, decisamente istruttiva. Proietti è incontenibile, padrone assoluto del palcoscenico per circa tre ore, senza flessioni, senza pause, accompagnato dalla “divinità” Giano Bifronte, interpretato magistralmente dal grande Gianni Bonagura. Trovatelo, guardatelo, riguardatelo, fatelo guardare.
Una curiosità: il doppiatore dello Stallone del primo Rocky è lui, non Ferruccio Amendola (altro mito assoluto), che comincerà a prestare la voce a Balboa a partire dal secondo capitolo della saga.
Di Proietti mancherà tutto, anche il suo sguardo malinconico. Nella triste consapevolezza che di artisti così non ne nasceranno più.

STEFANO D’ORAZIO, IL “FIGLIO” DI ELEONORA
Anno bisestile, anno di Covid, un anno di tristezza e preoccupazione, questo 2020. Anche perché se ne stanno andando, uno dopo l’altro, tantissimi artisti che hanno segnato la nostra vita. La mia, Stefano D’Orazio, l’ha segnata di sicuro, visto che con le canzoni dei Pooh sono cresciuto e molti di quei brani mi hanno accompagnato durante l’adolescenza, anche se all’epoca il periodo d’oro della band italiana era ormai alle spalle. Lo avrei riscoperto diversi anni più tardi, ormai “spogliato” di quel peccato originale che la stampa musicale specializzata, soprattutto italiana, ha sempre appiccicato addosso a molti dei musicisti e artisti di casa nostra, non curandosene o addirittura disprezzandoli.
Il batterista Stefano D’Orazio se n’è andato in punta di piedi la sera del 6 novembre, a 72 anni. Il Covid ha aggravato le sue condizioni di salute già precarie, non lascandogli scampo. Era entrato nel gruppo nel settembre del 1971, dopo l’abbandono di Valerio Negrini, che da quel momento avrebbe partecipato ai destini (felici) dei Pooh ma solo come collaboratore “esterno”, dedicandosi esclusivamente alla composizione dei brani. Ma, come tutti gli altri membri, anche il ruolo di Stefano non si limitava allo strumento, tanto che nei quasi cinquant’anni di attività saranno molte le canzoni da lui composte e interpretate.
Era stato il primo a decidere di abbandonare la band nel 2009, per poi raggiungere di nuovo i compagni d’avventura in occasione della réunion del cinquantennale, nel biennio 2015/2016. I Pooh avevano poi deciso di sciogliersi, ma nel nostro immaginario non si sarebbero mai “lasciati” del tutto. Troppo amici, i vari componenti, troppo intrisa delle loro canzoni la tradizione musicale italiana, troppo presenti nel nostro immaginario per poterli pensare inattivi o scomparsi.
La storia dei Pooh si dipana su una ricca tela nella quale trovano spazio il colore del talento, dell’amicizia, del viaggio e del miraggio. Sullo sfondo, un’Italia che sta rapidamente mutando i connotati, un paese di tensioni, di grandi cambiamenti e sconvolgimenti. Le loro melodie, la nostra colonna sonora.
Vorrei ricordare soprattutto una canzone per omaggiare a dovere Stefano D’Orazio, il primo testo da lui composto per il gruppo. L’anno è il 1975, l’album Un po’ del nostro tempo migliore, il brano in questione Eleonora mia madre. Che, in definitiva, è una delle più belle composizioni in assoluto dei Pooh. Stefano parla di una madre, una ragazza rimasta incinta in giovanissima età (“Eri già mia madre troppo presto e solo per fatalità / Con nemmeno il tempo che ci vuole ad imparare a far l’amore”), che decide di crescere da sola il figlio, rinunciando alla vita, alla libertà, al fiore dei suoi anni. Una scelta di responsabilità e di amore, che avrebbe molto da insegnare a un’epoca in cui il sentimento si è venduto alla mercé della leggerezza, dell’individualismo, dell’istinto, del piacere senza legame, del desiderio senza limite. La madre non si pente e accompagna suo figlio durante le varie tappe dell’esistenza, grazie alle sue rinunce e ai suoi sacrifici: “Donna mai ma senza mai rimpianti, / la rinuncia del tuo tempo, la tua unica ragione sempre io”.
Altri tempi, altri artisti, altri uomini. Perché D’Orazio, prima di tutto, era un uomo perbene. Goodbye, Stefano.
David Nieri