Minima Cardiniana 302/4

Domenica 22 novembre 2020, Festa del Cristo Re

IN MEMORIAM
ROMANO ROMOLI (1930-2020)
Il mio vecchio amico Romano Romoli, mercante – mi rifiuto di definirlo commerciante – in Firenze, se n’è andato il 6 novembre scorso dalla sua bella e ingrata città, dov’era nato novant’anni or sono, il 7 dicembre del 1930. Era un uomo fedele: alla sua religione, alla sua città, alla sua patria, al suo mestiere, alla sua famiglia, agli amici. E ne aveva tanti: mi limito a ricordare Attilio Mordini, magari Giovanni Semerano, Massimo Cacciari, Vittorio Vettori, Giorgio Luti, Mario Luzi e moltissimi altri. Persone differenti, spesso scomode e difficili, che avevano in comune l’amarlo e lo stimarlo perché era un galantuomo.
Per i suoi novant’anni, avevamo pronta per lui una festicciola, magari a saracinesche abbassate nel suo fondaco (mi rifiuto di definirlo negozio) di Via de’ Pecori: in quell’occasione gli avremmo offerta la prima copia della sua autobiografia.
Non ce l’abbiamo fatta: ci ha preceduti. Modesto e schivo, come al solito. E forse anche un po’ stanco di questa nostra bella impossibile e insopportabile città, di questo mondo impazzito. Non ha aspettato l’Anno Dantesco, e sì che ci teneva. E non ha avuto nemmeno la pazienza di aspettare il suo novantesimo che sarebbe arrivato il 7 prossimo, giorno di sant’Ambrogio. Se n’è andato un mesetto prima, il 6 novembre. “Così ‘un ci si pensa più”, come avrebbe detto lui. Vi offro in onore della sua memoria l’
Anteprima dell’Invito alla lettura che avevo scritto per il suo libro, in attesa ch’esso veda la luce.

INVITO ALLA LETTURA
Il “luogo”, storico e naturale, di Romano Romoli, è stata la Bottega: la sua Bottega. E amo definirla così, esigo definirla così, con questo bel nome fiorentino che qualcuno giudica un po’ volgare e che invece non lo è affatto – deriva al contrario da una nobilissima origine ellenica –, anziché applicarle il nome di “negozio”, anch’esso peraltro di etimo illustrissimo ma che ormai è, sotto il profilo semantico, passato a indicare una versione più “elegante” (nella ristretta e conformistica visione semantica di chi lo usa) del termine “bottega”, sentito come più rozzo e popolano. Per me, fiorentino di San Frediano figlio di un maestro artigiano, “andare a bottega” e “stare a bottega” è bello, sa d’impegno serio e di operosità amorosa, ha il profumo del pane guadagnato con fatica e dell’opera ben riuscita che esce da mani esperte e che, sa convenzionalmente ha un prezzo di vendita, moralmente è impagabile.
Per me, ancora oggi e nonostante le molte primavere che si sono accumulate sulle mie spalle, è ancora una festa scendere da Piazza della Repubblica dopo il rito del caffè da Pazskowki (“Pascoschi”, lo chiamano i vecchio fiorentini) e arrivato in fondo a Via Brunelleschi, girare a destra verso il battistero. In tale occasione cambio regolarmente marciapiede e passo davanti alle belle vetrine della bottega del Romoli: e che abbia appartenuto o appartenga, o apparterrà ad altri, non m’importa. Per me è la bottega del Romoli: e sono riconoscente a Romano per non aver mai ceduto alle lusinghe di quanti, secondo un odioso malvezzo a Firenze diffusissimo, amano cambiar di continuo aspetto ai loro esercizi commerciali. È così che, dall’Oltrarno a Santa Croce, il volto della città negli ultimi decenni è irrimediabilmente cambiato. E, questioni di manutenzione e di restauro a parte, non in meglio.
Ho poi nei confronti della sua generosità un altro, più profondo, debito. Ero abituato tutti gli anni, sotto Natale, a passare davanti alle vetrine del Romoli che puntualmente, in periodo d’Avvento, esponeva un grande quadro, una bella riproduzione (di quelle che si facevano una volta, da Pineider per esempio) dell’Adorazione dei Magi del Ghirlandaio il cui originale è custodito nello Spedale degli Innocenti. È uno dei capolavori della pittura fiorentina che più ammiro non solo per il rigore della concezione teologica e la purezza del disegno ma anche – lo confesso – per il fasto delle stoffe che vi sono dipinte e che ne fanno un vero manifesto delle glorie tessili della Firenze rinascimentale: la purezza delle sete, l’opulenza dei velluti, la sensuale fantasia dei broccati, la leggerezza degli sciamiti, la delicata trasparenza degli zendadi.
Conosco ormai da molti anni Romano Romoli: la nostra amicizia – forte e profonda nonostante la rarità degli incontri e delle reciproche frequentazioni – si fonda sul comune affetto per un grande studioso purtroppo scomparso, Giovanni Semerano, e per molti amici anch’essi appunto comuni a lui e ad entrambi noi: da Massimo Cacciari a Giovanni Cipriani. Dopo aver fatto conoscenza, mi capitava molto spesso di entrare nella sua bottega e di rivolgergli un rapido saluto, quando passavo da quelle parti; oppure, ben più sovente, era lui a chiamarmi, a invitarmi a entrare, a mostrarmi qualcuno dei suoi tesori o semplicemente a offrirmi un caffè. Parlavamo spesso dei suoi Maestri: di Armando Sapori che lo aveva iniziato ai segreti del fiorino e della mercatura, o di Eugenio Garin suo professore di filosofia al Liceo e mio all’Università, al quale entrambi dobbiamo tra le altre moltissime cose la massima – ch’egli amava di frequente citare – che le persone razionali (e ragionevoli) si adattano alla realtà, mentre gli irrazionali (e irragionevoli) pretendono invece che sia essa ad adattarsi a loro: il che è molto pericoloso ma è anche il sale della vita, quel che permette al genere umano di andare avanti. E fu appunto quella la molla propulsiva del dono che Firenze ha fatto al mondo, il Rinascimento, punto di partenza di quella vera e propria rivoluzione che ha mutato il volto del genere umano: la Modernità. Vero è che oggi, di essa e del processo di globalizzazione che ne è stato il più caratteristico connotato, noi vediamo – e subiamo – ormai i problemi, i limiti, gli squilibri, gli svantaggi. Ma tutto ciò è avvenuto soprattutto perché noialtri moderni abbiamo stravolto il messaggio della grande civiltà fiorentina medievale e umanistica: quello che in essa era il primato della bellezza e dell’equilibrio, frutto d’ingegno e di coraggio, è stato stravolto nel primato dell’individualismo sfrenato, del primato dell’economico e del tecnologico, cioè della sete di guadagno e della volontà di potenza. È quanto lucidamente è stato denunziato, ad esempio, da pensatori come Emanuele Severino.
Ebbene: i “re” magi sono appunto il simbolo purissimo di quella cultura del Dono ch’era la chiave della civiltà cristiana premoderna come di molte altre civiltà – oserei dire, alla luce delle ricerche antropologiche di Marcel Mauss, di tutte: il Dono, ch’è gratuito, non impone contraccambio, eppure al tempo stesso lo rende necessario, lo esige; il Dono, che lega gli uomini con la catena aurea e invisibile, leggerissima e possente, dell’amore e della riconoscenza reciproca.
Il Dono: appunto. Dopo alcuni anni dalla nostra conoscenza, capitò forse a Romano di notarmi più volte, di stagione in stagione, incollato alla sua vetrina nella quale egli esponeva puntualmente, dall’Avvento all’Epifania, una bella riproduzione a colori – di quelle che si facevano una volta, a mano – dell’Adorazione dei Magi del Ghirlandaio. Mi chiese quindi, una volta, se quel quadro mi piacesse tanto e perché. Alla mia risposta, con la massima naturalezza del mondo me lo regalò: replicando alle mie proteste – come accettare una cosa tanto preziosa, per giunta un simbolo della bottega che i fiorentini erano da anni abituati a vedere puntualmente ogni anno? – che in fondo si trattava di una vecchia formula di allestimento, e che di tanto in tanto bisognava pur rinnovarsi. Oggi, il Ghirlandaio di Romoli illumina con i suoi preziosi colori il soggiorno della mia casetta di Bagno a Ripoli: e, leggendo il libro che Romano mi ha chiesto di presentare con qualche parola introduttiva, ho compreso tra l’altro il valore che egli – commerciante e, soprattutto, artigiano “all’antica” – attribuisce all’allestimento delle vetrine e alla presentazione della merce: un valore all’insegna della cortesia e della generosità, come si apprende anche dall’episodio nel quale egli narra del suo incontro con Oriana Fallaci e dell’omaggio che egli le indirizzò. Ancora un Dono. Di Romano Romoli, come accade sempre quando ci s’imbatte in persone particolarmente generose, non si riesce mai a sentirsi se non debitori.
Ma io, ormai, non gli sono debitore solo per il Ghirlandaio e per la comune amicizia con Giovanni Semerano, uno studioso che la città di Firenze non riesce ancora a ricordare e a onorare come egli avrebbe il diritto ed essa il dovere di fare. Purtroppo, l’Accademia è sovente ingrata, invidiosa, ingenerosa: sembra impossibile che difetti così ignobili possano albergare anche in ambienti frequentati da seri e valentissimi studiosi, ma è purtroppo così; e poche categorie accademiche sono più ombrose, faziose e litigiose dei linguisti, dei glottologi e dei filologi. Ma il mio debito nei confronti di Romano Romoli ormai – lo dico in quanto entrambi due vecchi fiorentini – è costituito proprio da questo libro. Ancora un Dono. Offerto generosamente a Firenze tutta.
Un libro l’importanza del quale l’Autore, secondo lo stile della sua indole schiva, tende a minimizzare. Ma che riesce, in non troppe pagine, a sintetizzare tre cose, quasi tre libri in uno. Del resto, omne trinum est perfectum. E qui siamo dinanzi a una memoria autobiografica – anzi, a una memoria familiare – che è anche storia cittadina e guida di Firenze: il tutto in uno stile piano, spontaneamente narrativo, personalissimo, con frequenti inserti poetici di straordinario valore vocativo.
L’epopea dei Romoli, anzitutto: tre generazioni incentrate attorno a un impegno che si trasmette generazionalmente e che sa di affetti profondi e fedeli, di sentimenti forti e puliti, di lavoro orgoglioso e appassionato. Una lenta affermazione che ha come cornice l’incomparabile realtà fiorentina del Novecento, concreta e sotto molti aspetti amara – le leggi razziali, la guerra, l’alluvione del 4 novembre 1966 –, con momenti ora difficili, ora terribili, ora lieti ed esaltanti.
Romano ha uno stile di narrazione tutto suo, che qua e là può a prima vista sorprendere, magari sconcertare: finché non ci si rende conto ch’egli segue in realtà costantemente un filo rigoroso, quello dei suoi ricordi e delle immagini, delle considerazioni, delle libere associazioni ch’essi fanno volta per volta emergere. Questo il senso d’un racconto che procede per frequenti flash back e che ha l’aria di non voler lasciar quasi nulla al rischio dell’oblìo. Al di là del piacere del racconto, Romano sa di essere un testimone: ama narrare, ma più ancora avverte il dovere di farlo. Siamo dinanzi alla vita di un commerciante e di un artigiano nel senso antico di questo termine, che equivaleva al concetto di artista: una vita concentrata sulla bottega, sui suoi tesori, sui clienti e sui visitatori trattati sempre con semplicità signorile, con amicizia sincera; signore di buona e ottima famiglia e gente semplice, professori e politici, giornalisti e celebrità del mondo dello spettacolo. Ci sono passati tutti, dalla bottega di Romano: molti hanno voluto lasciare una testimonianza sul “libro d’onore”, molti hanno scritto lettere e cartoline più tardi, tutti sono restati – senza retorica, senza affettazione – veri e propri amici. E per Romano era del tutto normale tradurre tutto ciò, a partire dai suoi sentimenti, in termini di poesia.
Quando Romano Romoli parlava dei grandi della sua città, di Dante o di Michelangelo – ma anche di Papini e di Rosai –, egli aveva la capacità di annullare il tempo che passa. Tutto, nella sua Firenze, era vivo e presente. Tutto è storia perché tutto è vita. La Bottega diventa il simbolo di una vita, il simbolo del senso che ciascuno di noi è chiamato a dare alla propria. Romano era in quegli sporti, in quelle pezze, in quei tavoli di legno antico, in quei gesti artigiani più antichi ancora che Armando Sapori gli aveva insegnato ad amare parlandogli delle Arti e della Mercatura e ai quali egli è rimasto fedele. Perché è sull’ordito della Provvidenza che ciascuno di noi intreccia la trama della sua vita; tessere è lavoro e al tempo stesso è antica arte magica, come in Calypso. Nello stesso modo nel quale cultus è cura della terra e cura dell’anima, e difatti “cultura” e “coltura” profondamente coincidono. E textus è il filo del discorso e lo stame dal quale nasce l’opera d’arte tradotta in drappi, in panni, in tele, nella città che nei suoi tempi d’oro viveva tutta in ogni singola fase della lavorazione del fiocco, del filo e del panno, dall’umile “cima” – la canna, appunto, del cimatore – ai morbidi manti delle dame e dei re. Quei fiocchi, quei fili, quei panni di lana e quei drappi di seta che si trasformavano nell’oro lucente del fiorino destinato a sua volta a sostenere le più grandi opere d’arte che siano mai state prodotte al mondo.
Quando penso alla seta di Romano Romoli e della sua Bottega, io che da molti anni mi occupo di rapporti con l’Oriente non riesco a immaginarli se non come il capolinea di quel lunghissimo intricato fascio di carovaniere, la Via della Seta, che aveva l’altro capolinea nel Celeste Impero, a Xian. Il fiorino coniato nel 1252 fu molto probabilmente il primo anello della catena della globalizzazione moderna. Ma il fiorino, col suo oro purissimo e il suo conio raffinato, era anche bello; bello come la carta-moneta e la moneta virtuale non sono mai riuscite ad essere e non saranno mai. C’è purtroppo anche qualcosa d’irrimediabilmente passato, di disperatamente perduto, nella Grande Bellezza della quale noialtri fiorentini siamo custodi sovente inconsci, sovente inadeguati. Risvegliarsi alla consapevolezza di un’eredità della quale non siamo forse degni, ma che pure ci spetta; e riviverla in termini di custodia e di memoria è quanto non possiamo fare a meno di fare. Questa è stata la lezione di Romano, del suo libro, delle poesie che scrive, della Bottega che ama.