Minima Cardiniana 303/2

Domenica 29 novembre 2020, Prima Domenica d’Avvento

ANCORA SULL’ISTITUTO ITALIANO PER IL MEDIO EVO

Sull’inqualificabile e tragicomica faccenda dell’ISIME ecco qua un aggiornamento.

CHE SI SFRATTI LA CULTURA. ANZI NO, SI DIA UNA PROROGA
Il gerarca nazista che ha detto “Quando sento parlare di cultura la mia mano corre al revolver” non è mai esistito. Non era Goering, non era Goebbels. Dicono fosse Baldur von Schirach, ma non se ne trova conferma. È forse la solita leggenda metropolitana.
D’altronde, alla cultura non c’è bisogno di spararle. L’insegnamento, come sempre, viene dalla Città Eterna. Di recente, in Campidoglio qualcuno ha deciso che, senza bisogno di sprecar proiettili, per ammazzare la cultura basta darle lo sfratto. Come ha fatto l’illuminato Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, che dal 2017 ha trasferito il Museo d’Arte Orientale Giuseppe Tucci dalla sua prestigiosa sede storica in Via Nomentana installandolo all’EUR: un trasferimento del quale non si sentiva il bisogno e una nuova sede che funziona solo a scartamento ridotto.
Ma la faccenda dello sfratto che l’Amministrazione Comunale ha ingiunto all’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo è a modo suo un capolavoro sublime. L’amico e collega Alessandro Barbero l’ha già raccontata con lo humour e la precisione che gli sono propri su “La Stampa” di lunedì 23 u.s. Dal canto mio posso aggiungere solo qualche particolare vissuto in prima persona da un osservatorio immeritatamente privilegiato, in quanto membro del Consiglio Scientifico di tale Istituto.
L’ISIME (questo il suo acronimo) è nato si può dire con l’unità d’Italia. Venne istituito con Regio Decreto del 25 novembre 1883 – sta quindi per compiere 137 anni – e lo tenne a battesimo Giosuè Carducci, non grandissimo forse come poeta ma straordinario erudito. In seguito, la presidenza dell’ISIME passò a personaggi come Pietro Fedele, Raffaello Morghen, Ovidio Capitani, Girolamo Arnaldi; oggi ne è titolare Massimo Miglio, Accademico dei Lincei. Insomma, il Gotha della medievistica italiana ed europea.
L’ISIME ha la sede che si merita: l’oratorio dei Filippini nel prestigioso Palazzo Borromini, gioiello barocco di Roma (la “Chiesa Nuova”), dov’è ospite – in affitto agevolato, secondo le leggi vigenti – del Comune di Roma, proprietario dell’immobile. Preziosi annessi dell’ISIME sono una biblioteca di 100.000 volumi, aperta al pubblico e regolarmente frequentata, un Archivio Storico che la Soprintendenza archivistica per il Lazio ha riconosciuto nel 1992 “di notevole interesse storico” (e quindi vincolato dal 2004) e una Scuola storica nazionale per l’edizione delle fonti documentarie. Nel 2005 il Comune di Roma autorizzò il rinnovo della concessione per dodici anni, a quelle condizioni di affitto agevolato che si usano per gli immobili destinati a pubblico uso (su ciò, un deciso parere della Corte dei Conti, sentenza 77, 18.4.2017).
Ma già dal 2015 l’Amministrazione comunale aveva espresso intenzione di voler nuovamente valutare “le modalità di assegnazione/concessione del patrimonio pubblico più conforme ai princìpi di trasparenza e concorrenzialità”: cioè, fuori dai denti, di voler adeguare l’affitto dell’immobile ai prezzi di mercato. Sembrava che ci fosse bisogno di ampliare lo spazio destinato all’Archivio capitolino, attiguo all’Istituto: ma al riguardo erano già stati restaurati altri spazi nel medesimo palazzo, che restano attualmente vuoti. E allora?
Sono seguiti due anni di ping pong giocato da una parte sola: l’ISIME tempestava il comune di rapporti, di promemoria, di quesiti urgenti, senza ricever nemmeno un grazioso segno di risposta. Alla fine, l’interlocutore si decise a un sopralluogo tra il marzo e l’aprile del 2017. Poi, di nuovo notte e nebbia. Di nuovo silenzio a fronte di continue sollecitazioni.
Ed ecco il fulmine. Il 1° ottobre scorso l’Ufficio Concessioni del Comune di Roma (nota prot. 35770) invita l’ente a “rilasciare bonariamente l’immobile” entro 30 giorni e gli comunica un debito d’affitto pari a euri 24.465,84. Chissà quanto avrà pensato qualcuno, in Campidoglio, di poterci tirar su da quel secondo piano in Piazza dell’Orologio 4, se lo affitta a Benetton o magari a Christian Dior.
Insomma, dobbiamo andarcene. Ci hanno più o meno trattati come Casa Pound, solo che quelli hanno meno libri da spostare. Dobbiamo andarcene con i 100.000 della biblioteca, gli uffici, l’Archivio Storico, la scuola di specializzazione. Dove, non ce lo dice nessuno. A spese di chi, idem.
Il punto è che noialtri, naturalmente, non ce ne andremo. Avevamo da tempo interessato alla cosa sia la Corte dei Conti, sia il TAR del Lazio: che fino dal 2017 erano intervenuti in nostro appoggio. Tantopiù che i sospetti d’una qualche speculazione immobiliare dietro la faccenda non sembrano infondati. Comunque, su tempestivo interessamento del presidente della commissione Cultura del Senato, senatore Riccardo Nencini, sembra che il vicesindaco di Roma in persona si sia impegnato per una sospensione dell’ordine di sfratto per 60 giorni. Ma Nencini è un carro armato e non demorde. Inoltre ha girato per tutta Italia un appello, Non si sfratta la cultura. Alla fine, un provvedimento diretto della signora Raggi ha stabilito una proroga più congrua, pare tre mesi. Ma la signora sindaca non si è espressa sulla validità del grottesco e sconcertante sfratto, già impugnato da Corte dei Conti e TAR del Lazio. Quindi, come “dicheno” a Roma, “dovemo de sta’ ’n campana”.
Questo, ad oggi, lo status quaestionis. Una cosa è certa: noi non ci muoviamo. Né “bonariamente”, né in altro modo. Né adesso, né fra tre mesi. Ve lo assicuro personalmente: peso 110 chili e sono difficile da rimuovere.