Minima Cardiniana 304/1

Domenica 6 dicembre 2020, II Domenica d’Avvento

EDITORIALE
IL FUSCELLO E LE TRAVI
Continuano le polemiche sul nuovo messale della CEI, sul Pater Noster e sulla sostituzione della formula “non indurci in tentazione” con “non abbandonarci alla tentazione”. Segnalo al riguardo l’eccellente esame condotto dall’amico padre Nicola Bux (amico da quando, dal 1986 in poi – quando lavoravo nella sua Bari –, ci siamo a lungo e intensamente occupati della Terrasanta: abbiamo anche scritto insieme il volume L’anno prossimo a Gerusalemme) sul rapporto fra il testo greco “dei Settanta” e quello latino di Gerolamo, con la conclusione che entrambi i verbi usati nei due rispettivi testi sono stati correttamente resi dall’italiano “indurre”. Tuttavia, il problema non sta fra i testi greco e latino, bensì unicamente nel verbo italiano: e non è né etimologico, né lessicologico, né filologico, bensì unicamente semantico. Il che significa che riguarda non la forma della parola, bensì la dinamica dei significati ch’essa è andata assumendo in italiano.
E qui mi soccorre la mi’ nonna, contadina del Valdarno e semianalfabeta ma molto seriamente e coscientemente devota, la quale tre quarti di secolo fa circa rispondeva ai miei dubbi di bambino: “Nonna, ma Dio ci può spingere a fare il male?”; e lei mi rispondeva con le sagge parole del Catechismo di san Pio X, “Dio non vuole il male, ma lo permette”; e mi spiegava che Lui ci ha dato delle regole da seguire e ci ha anche avvertito che se non lo facciamo saremo puniti, ma ci dà la libertà di sbagliare e anche di ribellarci. Libero Arbitrio, d’accordo, scomoda ma anche gran bella cosa. Il punto è che – come aveva capito anche un bambino di San Frediano di tre quarti di secolo fa – nell’italiano indurre è insita un’accezione di “spingere qualcuno, maliziosamente, a credere, a dire o a fare cose che potrebbe fare altrimenti se fosse lasciato libero di scegliere”. Questa sfumatura d’inganno non c’è nel latino inducere: per cui, il latino induco e l’italiano indurre appartengono a quella categoria lessicale che noi denominiamo ordinariamente dei “falsi amici”.
Non serve quindi che si scomodi il libro di Giobbe e si ripeta che Dio ha il diritto di saggiare finché vuole la fede del credente. Quando recitiamo il Pater Noster, anche senza saperlo noi chiamiamo sempre in causa appunto l’esempio di Giobbe e magari – dal momento che la disperazione è a sua volta un peccato: ed è alla disperazione che Gesù rischia di abbandonarsi nell’“orto degli ulivi” – perfino Gesù non solo nella pagina delle tentazioni del deserto, ma anche e soprattutto in quella del Gethsemani. Anche noi preghiamo Dio che quel calice passi da noi: mettiamo ai Suoi piedi la nostra fragilità e Gli ricordiamo ciò che Lui sa benissimo, cioè che noi non siamo Giobbe e tantomeno Gesù. E qui si profila una questione di teodicea. Perché Dio permette che alcuni di noi vivano sempre sani e altri ammalati dalla nascita, alcuni ricchi e felici e altri poveri e infelici? Le strade di Dio sono inconoscibili: ma noi conosciamo al contrario lo stretto cammino della nostra debolezza e Lo preghiamo di non esporci a prove che sentiamo di non poter sostenere. È questo che non appariva chiaro nel “non indurci in tentazione”, una frase che configura un Dio che non solo permette il male, ma che spinge il fedele sulla via di commetterlo. Il “non abbandonarci alla tentazione” esprime in modo più chiaro la nostra preghiera: ci consente di chiarirla meglio a noi stessi nel momento in cui la proferiamo.
Il fatto è tuttavia che il nuovo Messale contiene altre innovazioni, che sono rimaste in disparte nelle polemiche.
Confesso di essere rimasto ironicamente tiepido dinanzi a quei “fratelli” sistematicamente divenuto “fratelli e sorelle”: che in italiano nel caso dei sostantivi plurali di genere misto il maschile prevalga sul femminile (e meno male che non c’è il neutro…) non è un’invenzione maschilista, è una vecchia norma lessicale: se la Crusca vuole allinearsi al diktat del politically correct lo faccia pure, ma è un po’ come il Lei e il Voi oppure il Cognac e l’Arzente di ducesca memoria. Certo, da ora in poi, quando uscirò di casa portandomi dietro un po’ di cibo da distribuire ai molti gatti randagi che abitano dalle mie parti e che ormai sono vecchi amici, non dirò mai che “sto portando da mangiare alle gatte e ai gatti”: anche se so bene che quelle ne hanno più bisogno e diritto di questi, perché hanno speso dei gattini (e delle gattine) da nutrire.
Plaudo invece alla restaurazione solenne e reazionaria del Kyrie, eléison, Christe eléison al posto del ridicolo “Signore, pietà…”, battuta da melodramma di quart’ordine. Strano che i tradizionalisti puri e duri non se ne siano rallegrati.
Plaudo toto corde (era ora!) alla sostituzione di un “pace in terra agli uomini amati dal Signore” (passabile succedaneo di un “pace in terra agli uomini che fanno la volontà di Dio”, che sarebbe stato più complesso ma meno impreciso) al ridicolo “pace in terra agli uomini di buona volontà”, che non voleva dir nulla e lo diceva anche male.
Bene la prescrizione dell’alzarsi in piedi all’invito che in latino si esprime con un oremus, invito alla preghiera alla quale è corretto rispondere assumendo subito la posizione iniziale della preghiera, cioè alzandosi in piedi (ricordate l’Akàtistos?). I musulmani sanno perfettamente quando alzarsi, quando sedersi (sui talloni), quando prostrarsi: i cattolici danno l’idea di star alla messa come starebbero al bar.
Eccellente l’abolizione della stolida usanza della stretta di mano in segno di pace: un’usanza odiosamente piccoloborghese, d’una quotidianità ipocrita e perfino antigienica (faceva bene Trilussa a preferire il “saluto romano”) alla quale io ho l’onore di non essermi mai piegato – dal momento che non era un precetto –, salvo indulgervi per carità cristiana quando mi sembrava che chi ma la porgeva ne avrebbe ricevuto un conforto. La restaurazione del gesto paleocristiano delle mani alzate (che fu sostituita nel mondo latino, verso il secolo XI-XII, dalle feudali mani giunte che hanno un lontano sapore indobuddhista).
Ma ohimè, reverendissimi Padri della CEI, in cauda venenum. Ed eterna vergogna ai furbastri che, indirettamente polemizzando col papa – perché questo è sempre il loro pensiero dominante –, se la sono presa tanto col fuscello del “non indurci in tentazione” e non hanno degnato nemmeno di un briciolo d’attenzione la trave di quello che il sacerdote continuerà a dire presentando il Dio Vivente nell’ostia: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo”. A parte la stolidità della costruzione che confonde genitivo e ablativo (come si può concordare il verbo “togliere” con il caso di specificazione, a meno che non si alluda proprio ai “peccati del mondo”, e allora si dovrebbe dire quali sono?), il latino è chiarissimo: “Ecce Agnus Dei, qui tollit peccata mundi”. Il Cristo crocifisso, vero Agnello sacrificato sulla croce, nel momento in cui si assume il ruolo della vittima sacrificale si comporta esattamente come il “capro espiatorio”: viene caricato di tutti i peccati del mondo e compie il supremo atto d’amore di prenderseli su di sé liberandone i fedeli. Questo il significato dell’indicativo presente tollit, “prende”, “assume”. Anche in italiano noi ci ricordiamo di tale significato ogni volta che offriamo qualcosa al nostro cane accompagnandolo con l’imperativo to’ (forma troncata di tolle), dicendogli appunto: “Prendi!”. Infatti, anche il latino tollo e l’italiano togliere sono due “falsi amici”. Quindi, Agnello di Dio che prendi su di Te i peccati del mondo, aiutaci a servirTi sempre più degnamente anche con una corretta liturgia e perdona i cristianucci sempre pronti a vegliare in armi attorno al Tuo trono per la difesa di Santa Romana Chiesa dalle insidie del papa comunista, ma che avrebbero tanto bisogno di tornare in prima media.
La prima media di una volta, beninteso.