Domenica 6 dicembre 2020, II Domenica d’Avvento
ASPETTANDO IL CENTENARIO DANTESCO
SPIRITI MAGNI E GRANDI BUFALE
Nell’approssimarsi del 2021, “Anno Dantesco” – e nella speranza ch’esso ci porti in dono anche la liberazione dall’epidemia –, è utile auspicare che alcune questioni dantesche vengano definitivamente risolte; e che su alcuni equivoci si faccia finalmente piena luce.
In tempi di trasformazione epocale della “cultura diffusa” in seguito alla crisi delle istituzioni tradizionali scolastiche e universitarie e del diffondersi dei social (con la conseguenza allarmante di un intensificarsi della confusione dei linguaggi e della perdita progressiva di ancoraggi culturali autorevoli sui quali fondarsi) stanno pericolosamente riemergendo questioni dalle quali speravamo di essere definitivamente usciti.
Una delle più divertenti da un lato e angoscianti dall’altro riguarda Dante e il suo tempo: quella dei “Fedeli d’Amore”. Una strana storia, un equivoco nato fra Otto e Novecento e in seguito bizzarramente trascinatosi dopo l’affermarsi nella nostra cultura sia d’élite, sia “diffusa”, dell’interruzione di un dialogo che ha dato luogo a una sorta di schizofrenia, di dialogo tra sordi.
Cominciamo dal principio. Nel sonetto dantesco A ciascun’alma, il primo accolto nella Vita Nova, il poeta allora diciottenne (si è quindi nel 1283) c’informa di essere stato còlto nella sua stanza “da un soave sonno” dopo aver incontrato per la seconda volta “la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice”. Durante il sonno, egli narra di essere stato visitato verso l’alba da uno di quelli che Carl Gustav Jung avrebbe definito “sogni significanti”: svegliatosi, aveva composto un sonetto e lo aveva inviato alla ristretta cerchia di coloro che egli chiama “tutti li Fedeli d’Amore” – Guido Cavalcanti e Lapo Gianni principalmente –, pregandoli “che giudicassero la mia visione”. La quale era terribile: Dante aveva sognato il loro “signore”, cioè Amore personificato, il quale teneva fra le braccia “madonna” (cioè Beatrice) addormentata e che stringeva nella sua mano il cuore di Dante stesso, ardente; e, svegliatala, la costringeva spaventata a mangiarlo. Il “cuore ardente” e il “cuore mangiato” sono immagini archetipiche fondamentali nella nostra cultura, e anche in altre: ne parla anche il Boccaccio, nella nona novella della IV giornata del Decameron[1].
L’ispiratore primario del giovane Dante era il poeta Guido Guinizzelli, il quale a sua volta era divenuto un celebre caposcuola per la sua canzone Al cor gentil, nella quale con efficace e affascinante chiarezza, ma sulla base di un’esile autocoscienza filosofica, aveva diffuso la lezione ripresa in pieno XII secolo dal trattato De amore di Andrea Cappellano, chierico al servizio di Maria di Champagne, figlia di Luigi VII di Francia e della grande Eleonora d’Aquitania, e pertanto sorella di Riccardo Cuor di Leone. Ora, Eleonora aveva fatto conoscer in Francia settentrionale, cioè nel “paese della lingua d’oïl”, la poetica di suo padre Guglielmo IX, duca d’Aquitania e celebre trovatore, fondata sul servizio dell’innamorato all’amata: il primo considerato vassallo (fizel, cioè fidelis) della seconda, che gli ha concesso in feudo il suo stesso cuore. Ma la dottrina di Andrea era una metafora del magistero relativo all’amore che risaliva a Platone e che, dopo aver animato tutto il neoplatonismo medievale, era giunto nella cristianità occidentale alla sua piena maturazione con il platonismo della scuola di Chartres, cui ha dedicato un “classico” Tullio Gregory[2].
Il fatto è che nella Christianitas latina l’aristotelismo scolastico di Tommaso d’Aquino, principale referente di Dante, aveva spazzato via quasi del tutto – e il poco rimasto lo aveva stravolto – quella grande tradizione neoplatonica ellenistica che aveva resistito fino alla scuola di Chartres del XII secolo e senza la quale gli stessi Agostino e Boezio, capifila della filosofia cristiana medievale, risultavano quasi incomprensibili. Il grande successo di Dante, quindi il profondo mutamento culturale della Modernità e la riscoperta dantesca d’età romantica fecero il resto.
Durante il secolo XIX Dante e il suo richiamo ai “Fedeli d’Amore” (ormai divenuto un gruppo penitenziale esclusivo e segreto, una “sètta”) fu reinterpretato alla luce dell’equivoco misticismo politico laicista “ghibellino” di Ugo Foscolo[3], di Gabriele Rossetti[4] e di suo figlio il pittore preraffaellita Dante Gabriele[5], ohimè legittimati dalla sterminata, equivoca erudizione di Giovanni Pascoli[6]. Tutta questa affascinante, ingovernabile massa di coltissimi malintesi trovò un rielaboratore e sistematore in un professore liceale di filosofia, Luigi Valli, responsabile tra Otto e Novecento di una teoria generale complottistica che di Dante e dei suoi immaginari sodali faceva gli eroi contro una congiura oscurantistica ordita nei secoli dal papato[7].
Era così nata la “sètta” medievale dei “Fedeli d’Amore”, oscuramente collegata al catarismo, al templarismo e alla Weltanschauung massonica, alla quale avevano fornito credibilità gli stessi saggi dell’esoterista René Guénon. Il tutto era stato sigillato da un altro geniale e coltissimo pasticcione, Alfonso Ricolfi, anch’egli documentato critico dei “Fedeli d’Amore” e delle “Corti d’Amore” in polemica col Valli[8].
Bisogna dire che i professionisti della ricerca storico-filolgica dantesca, anziché replicare mostrando semplicemente gli equivoci generati dalle scarse cognizioni filologiche del giovane Dante (e anche di quello non più giovane) a proposito del neoplatonismo antico e medievale, si erano dottamente impegnati a sottolineare che i “Fedeli d’Amore” erano una costruzione immaginaria; e l’avevano fatto in modo irreprensibile, ma con l’aiuto di documenti autentici sì, che per loro natura tutto potevano provare però meno che l’inesistente non fosse mai esistito.
Risultato di tutto ciò, un’allucinante follia schizofrenica: da una parte storici e filologi occupati a scomunicare – si leggano le pagine di Eugenio Garin, di Antonio Viscardi, di Natalino Sapegno – l’inconsistenza e l’irrazionalismo dei seguaci del Rossetti e del Valli, dall’altra coloro che ne approfondiscono incuranti le tematiche. Il punto però è che entrambe le “scuole” – chiamiamole così – sono partite da dante e hanno seguito le polemiche nate sui “Fedeli d’Amore” fino ai giorni nostri senza ascoltare mai l’altra campana. Sarebbe stato sufficiente che gli studiosi seri e i dantisti filologicamente attrezzati avessero ricostruito – e avrebbero potuto ben farlo – le lacune di Dante relative ai fondamenti neoplatonici dell’Amor cortese. Il Contini e il Vinay c’erano andati vicini; nel segno ha colpito la scuola di Maria Teresa Beonio Brocchieri, che però non si era preoccupata di “disincantare” né il Pascoli né il Valli. Oggi, Franco Galletti torna sui “Fedeli d’Amore” con La bella veste della verità, (Udine, Mimesis, 2020, pp. 602), nel quale ricostruisce l’influenza della dottrina avviata (involontariamente) dal giovane Dante sui secoli successivi senza però nemmeno toccare “l’anello debole”, la sua inconsistente conoscenza del neoplatonismo del XII secolo che gli avrebbe fatto capir tutto; e sì che nel frattempo il capolavoro di Tullio Gregory è stato ristampato (esaminate il silenzio della sua bibliografia su alcuni autori a proposito di catari, di poesia francese medievale e di templari: capirete tutto). Quanto ad Alberto Ventura, che ha fornito al Galletti l’assistenza delle sue solide cognizioni islamologiche, egli parla certamente con ottime ragioni del sufismo musulmano, senza avvertirci (non era suo còmpito il farlo) che esso – pur essendo l’Islam, col commento aristotelico di Averroè, alla base della scolastica tomista – non aveva mai reciso né dissimulato il rapporto con la tradizione neoplatonica.
Insomma: un grazie a Rossetti che ha riportato la nostra attenzione sull’equivoco tardoromantico-esoterico-massonico della lettura di Dante e un invito a tutti a riprendere in mano le cose dal principio. Cultura, alla fine e nella sostanza, è questo: avere il coraggio e l’energia di rimettersi in discussione.
[1] Se con Dante il cuore mangiato ha una dimensione onirica e metafisica, in Boccaccio recupera la fisicità della tradizione precedente. Due novelle del Decameron contengono questo tema: nella IV.9 «Messer Guiglielmo Rossiglione dá a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui ed amato da lei; il che ella sappiendo poi, si gitta da un’alta finestra in terra e muore, e col suo amante è sepellita». Nella IV.1 «Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella si bee, e cosí muore». Entrambe le novelle sono inserite nella quarta giornata, quella degli amori infelici; nel secondo caso il pasto immondo non avviene, nel primo invece sì, in una delle varianti più note nella letteratura: l’amante si vendica del tradimento costringendo a mangiare il cuore dell’amante; tuttavia, in altri esempi è l’amante morente a chiedere che il suo cuore venga estratto e portato alla donna come prova della fedeltà. La storia del cuore di Guglielmo Guardastagno trova un parallelo molto preciso nella letteratura indiana (La storia di Raja Rasálu), mentre Boccaccio lo trae dalla leggendaria vita del trovatore occitano Guilhem de Cabestaing, vissuto a cavallo fra XII e XIII secolo: Guilhem è amante di Seremonda, moglie del signore Raimondo di Rossiglione, e quando quest’ultimo viene a sapere della loro relazione, lo uccide durante una battuta di caccia, ne estirpa il cuore e lo fa cucinare per essere servito a tavola alla sua consorte la quale, venuta a conoscenza della verità, si suicida gettandosi da una finestra del palazzo.
[2] T. Gregory, Anima mundi, n.ed., Firenze 1955, n.ed. Spoleto 2020.
[3] Per Ugo Foscolo e il suo equivoco “ghibellin fuggiasco”, cfr. l’edizione degli Atti del I congresso nazionale di studi danteschi, 1962, con contributi – fra gli alti – di B. Nardi e T. Marcialis, e P. Giannantonio, Dante e l’allegorismo, Firenze 1969.
[4] G. Rossetti, Il mistero dell’amor platonico nel medioevo, voll. 5, Londra 1840; Idem, La Beatrice di Dante, ivi 1842.
[5] R. Lo Schiavo, La poesia di Dante Gabriele Rossetti, Roma 1957.
[6] G. Pascoli, Scritti danteschi, a cura di A. Vicinelli, Milano 1952.
[7] La sua opera più nota è L. Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’Amore, voll. 2, Roma 1928-30.
[8] A. Ricolfi, Studi sui Fedeli d’Amore, Roma 1933; Idem, Dal problema del gergo al crollo d’un regno, Genova 1940.