Minima Cardiniana 305/4

Domenica 13 dicembre 2020, Santa Lucia Vergine e Martire

LIBRI LIBRI LIBRI

Luigi DE ANNA, La thailandese e il colonnello, Chieti, Solfanelli, n. ed. 2020;
IDEM, I racconti del Mala Bar, ibidem;

IDEM, Tiziano Terzani e la guerra in Vietnam, ibidem.

La recensione di De Anna al libro di Altana, chi mi è molto piaciuta, mi ha spinto a ricercare nel caotico assemblaggio di mucchi di libri che è diventata casa mia (non è proprio il caso di parlare di “biblioteca”) due romanzi che mi aveva successivamente spedito e che, lo confesso, avevo accantonato in attesa di aver due minuti di tempo libero (speranza vana). Certo, mi rendo conto che in questo modo questo numero dei Minima Cardiniana rischia di diventare un Deannianum, ma non è certo un male. Anzi, forse bisognerebbe dedicare a intervalli regolari qualche numero a singoli Autori.
Quindi, i due libri li ho letti. Con qualche scetticismo, sulle prima pagine (l’Amarcord di un Lord Jim in ritardo, cascami di Conrad… questo mi ripetevo). Leggendo, ho cambiato idea.
Ricordi d’Oriente. Per un medievista l’Oriente, Vicino o Lontano che sia, rappresenta non soltanto un oggetto di studio, ma anche, anzi, soprattutto, una passione. Nel mio caso passione che nasce nella lontana fanciullezza e si rinnova ad ogni viaggio che il Signore mi concede di fare, da Gerusalemme a Samarcanda a Phnom Penh. Dopo la non del tutto felice esperienza della rivista “La Porta d’Oriente” (che stava diventando una grande cosa, ma purtroppo si era imbattuta in un editore che non se n’era accorto), dopo la lettura di una rivista fuori dal coro, l’“Eurasia” di Claudio Mutti, mi è capitato di leggere i libri di de Anna, che conoscevo piuttosto come saggista.
Ma parlavo di una lontana passione. Appartengo alla generazione nata e cresciuta culturalmente nei primi anni dell’adolescenza con Emilio Salgari e il suo epigono Luigi Motta (Jules Verne ci portava in altri Paesi). Credo che nessun Autore abbia avuto il potere di modellarci come fece il Veronese. Non si trattava solo di aprirci la visione di mondi lontani, dall’India di Tremalnaik al Borneo di Sandokan e Yanez de Gomera (a lui Felice Pozzo, forse il maggior studioso salgariano di oggi, ha dedicato un bel saggio, Tra Sandokan e Salgari. Yanez de Gomera il bohémien dei mari malesi, Bibliografia e Informazione, Pontedera 2016), col loro fascino dell’esotico, ma anche d’insegnarci nuove parole, tanto che i prahos, i kriss e gli jatagan balenavano nei discorsi di noi fanciulli con la naturalezza con cui parlavamo il vernacolo sanfredianino. Rileggere Salgari oggi sarebbe rischioso, lo leggeremmo con gli occhi del professore universitario, e non sarebbe facile tornare adolescenti per leggerlo con quegli occhi di una volta. Ma di Salgari se ne parlerà, speriamo, ancora molto nel corso del 2021, anno di ricorrenze (era morto nel 1911).
Pensavo a Salgari perché i libri di de Anna cui accennavo non sarebbero mai stati scritti, ne sono sicuro, se anche lui non avesse letto, amato, divorato i romanzi di Salgari. Certo l’Oriente di cui ci racconta non è più quello del ciclo della Malesia, ma molti spunti comuni si possono trovare: dai danni fatti dall’imperialismo “bianco”, alla vita tribolata del “farang” espatriato (quanti Yanez nei racconti di de Anna!) e, naturalmente, alle “Perle di Labuan”, certo più a buon mercato di una volta, ma sempre ugualmente affascinanti.
Dunque de Anna, professore ordinario emerito di lingua e cultura italiana all’università di Turku, abbandonate le alti latitudini, si sposta con queste sue prime prove narrative e saggistiche “orientali” verso altri climi. Saranno gli effetti dell’età, o dei reumatismi causati da un clima gelido, ma i Tropici ora lo affascinano: a meno che non si tratti di qualche ritorno di fiamma sentimentale (e, parlando di thailandesi e di massaggiatrici – oh, Lucio Dalla!… –, dico “sentimentale” perché sono un signore…). I motivi sono da ricercarsi nella sua opera prima come romanziere, La thailandese e il colonnello, edito nel 2018 da Solfanelli (nuova edizione 2020). Il romanzo si articola su piani diversi, ma per spiegarli riporterò quanto si legge nella quarta di copertina: “Il romanzo si muove su due piani distinti, ma tra loro complementari. Il tema di attualità è rappresentato dalla descrizione della condizione sociale e umana in cui vivono le donne thailandesi quando si trasferiscono all’estero. Vengono messi in evidenza i loro problemi di adattamento in una società tanto differente dalla loro, che a volte le porta all’emarginazione. Il secondo piano su cui si muove il romanzo, che è quello più profondo, riguarda la ricerca di se stesso da parte del personaggio principale, Marco Amari, colonnello dei Carabinieri e agente dei Servizi Segreti. Il Colonnello seguirà le tracce dell’amico Giulio Corbera, scomparso da tempo in compagnia di Min, una donna thailandese conosciuta a Turku in Finlandia. Entrato in contatto col mondo thailandese, Marco Amari scoprirà una nuova dimensione di se stesso, conquistato dal fascino dell’Indocina. Da una parte Marco si dovrà confrontare con situazioni anche pericolose, e dall’altra con un Oriente che gli offre quanto l’Occidente decaduto oramai gli nega. La scelta finale di Marco sarà di restare in Thailandia, dove inizia una propria, nuova vita. In questo romanzo il vero protagonista è il fascino che la Thailandia, il ‘Paese degli uomini liberi’, esercita su un uomo giunto alla soglia della vecchiaia”.
Dunque, romanzo ambizioso; da una parte intende essere una ricerca antropologica e sociologica (e qui a volte la mano del professore, forse inavvertitamente, si dilunga anche troppo nel parlarci di questa condizione umana delle thailandesi emigrate: ma anche qui, non ci sarà un motivo personale sottostante? Lo dico non senza invidia malcelata) e dall’altra vuole diventare un diario intimo, anzi autobiografico, di una persona che, arrivata a passare la settantina, cerca nuove esperienze di vita, ma soprattutto cerca di riconciliarsi con un mondo che gli appariva oramai definitivamente corrotto.
Conosco molto bene de Anna, e so benissimo, perché siamo affini, quanto su lui abbia agito la lettura di altri autori a noi ben cari, a cominciare da Drieu la Rochelle, quell’amaro critico di un’Europa decaduta, o Joseph Conrad, con le nostre inevitabili “linee d’ombra” o il Rudyard Kipling di un’India coloniale (la nostra eterna contraddizione, ci muovevamo tra ribellione e conservazione, tra amore per i popoli oppressi e la stima dello stile degli oppressori: di quelli di una volta, non dei cialtroni democratici e umanitari di oggi che sono delle autentiche belve). De Anna dunque: i due personaggi principali sono le due facce della sua ricerca umana, troverà nella Thailandia la sua “Via dei Re”, e la seguirà come fanno Marco Amari e Giulio Corbera. Passa, in tempi normali, buona parte dell’anno a Chiang rai, nel nord del Triangolo d’oro, a confine con Burma e Laos. Ha anche una casa nella campagna della Thailandia centrale, dove, essendo del tutto inetto, fa coltivare ad altri le sue banane e i suoi limes. È diventato, anche lui, un “farang espatriato” anche se non ancora a tempo pieno. E questo è il tema del suo secondo lavoro “thailandese”, I racconti del Mala Bar. Anche qui, per brevità, riportiamo la bandella editoriale: “La raccolta di brevi novelle I racconti del Mala bar. Diario di un viaggiatore in Thailandia, è la narrazione di fatti, e dei personaggi che li hanno vissuti, raccolti a Chiang rai, capoluogo della Thailandia settentrionale, a confine con Myanmar e il Laos. Chi racconta, il Viaggiatore, incontra in un bar di questa cittadina gli espatriati che vi vivono e ne riporta le avventure, a volte tragiche, a volte comiche. Ne nasce un ritratto appassionante dei farang, come i thailandesi chiamano gli occidentali, visti nella loro molteplice tipologia, ma anche di quelle donne thai che a loro si accompagnano, donne a volte fedeli a volte infedeli, ma sempre dolci e umane. I racconti del Mala Bar ci conducono in un Paese esotico, ma sono al tempo stesso un itinerario nel desiderio dell’uomo di evadere dalla propria realtà quotidiana, per ritrovare, nel fascino dell’Oriente, una nuova ragione di vita”.
Nostra personale opinione è che nei racconti, la tecnica narrativa si sia perfezionata. Abbandonato il sovraccarico “accademico” che un po’ appesantisce il romanzo, la lettura scorre rapida e piacevole. Diventa quello che insomma era una volta il “libro da treno” da leggersi tra la partenza e l’arrivo. Il Mala bar, precisiamo, non ha a che fare con località indiane, ma è il nome del “girl-bar” dove de Anna, evidentemente, passa buona parte del suo ozioso tempo. Che Dio, o il Buddha in cui oramai sembra credere, lo perdoni (ammesso che si possa “credere” nel Buddha: e io temo se lo immagini un po’ “da cristiano”, come fanno molti buddhisti immaginari occidentali).
Pur non essendo una “fiction”, il terzo libro Tiziano Terzani e la guerra nel Vietnam, edito nel 2018 da Solfanelli, ci porta in Indocina. È appunto dedicato a Tiziano Terzani. Con lui ho avuto un profondo rapporto di amicizia, che continua con la moglie, Angela Staude, dolcissima e simpaticissima alemanno-fiorentina. Mi fa quindi molto piacere che de Anna abbia voluto in qualche modo “difenderlo” scrivendo come uomo della Destra qual egli è. Mi spiego: Terzani nell’ambiente della Destra politica e culturale per molto tempo non fu amato; questi ambienti rivolgevano la propria simpatia piuttosto a Oriana Fallaci. Ho conosciuto ambedue, ma non parlo qui di simpatia umana, ma di impegno politico e ideologico. Terzani difese l’Islam all’indomani dell’11 settembre, entrando in profondo contrasto con Oriana, come ricorda appunto de Anna e questo ovviamente irritò gli epigoni nostrani dei neocons americani. E poi c’era la questione sospesa della visione della guerra del Vietnam. La mia generazione di “destra”, o meglio quella dei miei sodali di Giovane Europa, fu combattuta tra la simpatia d’obbligo dei Berretti verdi (che però durò poco: e ci distanziò irrimediabilmente dalla “destra”) e quella “razionalmente politica” – destinata a diventare anche sentimentale – che pur sentivamo nei confronti del Nord Vietnam. Alcuni di noi parteciparono alle manifestazioni fiorentine contro la guerra del Vietnam, e ci ritrovavamo sotto il consolato americano sul Lungarno con gli amici/nemici della sinistra, veramente questa volta uniti da una comune causa (ah, ancora le reminiscenze larochelliane!). De Anna spiega bene l’itinerario che porta il comunista Terzani (dell’antifascismo cocciuto e cieco della sua generazione noi fiorentini dell’altra parte portiamo un ricordo ancora vivo) a scoprire i misfatti di un comunismo mal interpretato come fu quello dei khmer rossi e, in alcune situazioni, dei vietcong una volta arrivati a Saigon. Terzani fu accusato di cieca simpatia nei confronti del Nord Vietnam, ma la Destra a volte legge male (e poco), perché Terzani fu estremamente onesto: vide, scrisse quanto vide. E per andarsene a documentare quasi ci rimise la pelle (finì contro un muro e solo all’ultimo momento si salvò).
Ma il libro su Terzani non è per de Anna semplicemente una rilettura di un grandissimo personaggio della nostra letteratura odeporico-orientale, ma anche un atto d’amore nei confronti del Sud-est asiatico, che nasce, è evidente, dalla lettura di quel formidabile romanzo che fu The Quiet American di Graham Greene, uscito nel 1955, che suscitò, per il suo anti-americanismo, le ire della Destra americana ed europea ai tempi della guerra d’Indocina.
La storia di Thomas Fowler, il giornalista inglese sessantenne che ama Phuong, la saigonese di quaranta anni più giovane, ha evidentemente affascinato il settantenne de Anna. Ma concediamogli questo: la Via del Re ha tanti svincoli…
E concedete a me un ricordo “orientale”. Nel 1974 partimmo (della compagine facevano parte Marco Barsacchi, Guglielmo François e appunto Luigi de Anna), verso Kabul. Portavamo, sub specie di un Fiorino d’oro, la solidarietà fiorentina a quella città. A causa della imperfetta meccanica del pulmino che avevamo avventatamente acquistato dalle Poste italiane, non potemmo raggiungere Kabul, ma quell’Oriente fascinoso, da Erzurum, a Trebisonda, all’Ararat lo vedemmo e lo vivemmo. Anche noi abbiano percorso uno svincolo della Via dei Re. Qualcuno da quell’Oriente è fisicamente tornato, qualcuno vi è rimasto. Spiritualmente, ci siamo rimasti tutti.
P.S. A proposito: anzi, a sproposito. Visto che parlavamo di Salgari, perché non vi leggete Viva Sandokan. La Tigre della Malesia nei mari del 2000 (Catania, Prova d’Autore, 1997, ripescato per caso da un mucchio su cui era sistemata la cuccia del gatto) di Gaetano Cristaldi, capitano di lungo corso milanese per nascita, siciliano per elezione, autore di teatro e ora alla sua opera prima narrativa? Con Salgari, c’entra poco. Ma c’entra molto con i nostri tempi.

Gianni BRIZZI, Io, Annibale. Memorie di un condottiero, Roma-Bari, Laterza, 2019, pp. 339, euri 22.
Piaccia o non piaccia – a me non piace granché –, don Benedetto Croce qualche volta aveva ragione. Come quando proclamava, con scandalo degli storici “di professione” di allora, che la biografia era la regina della storiografia, il sottogenere storico più amato ed efficace, il banco di prova sul quale davvero si misurava il valore di uno studioso di storia. La cosa non piace ai professionisti “seri” della ricerca. Ma il grande pubblico apprezza e condivide quell’idea.
Ma la biografia, tra i suoi difetti, ne ha uno quasi patetico. Fa sì che di solito il biografante finisce con l’innamorarsi del biografato. Se mi è permessa una nota personale, io l’ho provato con Federico Barbarossa, che pure è un soggetto storico per certi versi comodo. L’amore può essere nascosto, negato, contrastato: ma c’è. Che il comunista Luciano Canfora si sia “innamorato” di Giulio Cesare (ma lo era già da prima di scrivere il suo saggio sul “dittatore democratico”) o che ai suoi tempi il nazionalsocialista Helmut Berve si fosse innamorato di Milziade, si può capire, come Lucien Febvre o Luigi Mascilli Migliorini di Napoleone; ma il sospetto è che anche Renzo De felice sotto sotto una cottarella per il Duce se la sia presa. E non parliamo per non entrare in argomenti scabrosi di certi biografi di Hitler o di Stalin o di Churchill.
Beninteso, si tratta di un amore scientifico: che non ha nulla a che fare con l’aspetto ideologico oppure etico della persona biografata. Anni fa Umberto Eco, provocato da un intervistatore proprio su questo tema, rispose che era del tutto normale: esattamente come il microbiologo che studi la spirochèta pallida, vale a dire l’agente della sifilide, finisce con l’invaghirsi anche di lei.
Mi sono chiesto spesso in che senso Giovanni Brizzi, uno dei nostri migliori storici della Roma antica e delle istituzioni militari, sia innamorato di Annibale. Perché è ovvio che lo storico debba essere equo: ma tale aggettivo non è affatto sinonimo né di imparziale, né d’indifferente. E se è legittimo che un microbiologo s’innamori della spirochèta, figurarsi se il biografo di Spartaco, di Silla e di Scipione non ha voluto bene anche a loro, e figuriamoci se in interiore homine, e magari anche in exteriore, non è dannatamente filoromano.
Eppure il suo Grande Amore rimane Annibale. Contraddizioni e lacerazioni della storia e della coscienza. Del resto, quanti austeri studiosi britannici della seconda guerra mondiale non sono, in realtà, degli innamorati id Heinz Guderian? E c’è da chiedersi come sia impossibile non esserlo.
Quindi, Brizzi ama Annibale. Sarebbe interessante sapere come e quando ha preso la cotta. Un po’ come il giovane Werther di Goethe, che pare s’innamorasse della gentile Carlotta vedendola imburrare leggiadramente delle tartine. Il suo Annibale laterziano ha fatto sicuramente epoca. Ma ora – ebbene, sì – questo suo Io, Annibale. Memorie di un condottiero (Roma-Bari, Laterza, 2019, pp. 339, euri 22) lo batte. Siamo di fronte a un grande libro, nel quale Giovanni Brizzi riversa, pur riuscendo a non ripetersi né ad “autoplagiarsi” mai, alcuni decenni di studi ricchi peraltro di ripensamenti e anche di crisi: perché siamo davanti a uno studioso che ha il coraggio e l’onestà intellettuale di rimettersi di continuo, e talora duramente, in discussione. Come nelle belle pagine in cui, ora apertamente ora implicitamente, egli si trova ad affrontare il problema – qualcuno lo stimerà uno “pseudoproblema” – della duplice natura della sua coscienza identitarie, del suo essere un punico figlio della suicida Elissa/Didone e della sua anima ellenica erede di Alessandro e attraverso di esso di tutta una civiltà ellenistica che Roma avrebbe poi ereditato e rivendicato, ma della quale alla fine del III secolo essa poteva sembrare piuttosto la predatrice e la nemica. Era alla tradita Didone o alla Magna Grecia calpestata che il giovane Annibale pensava, mentre giurava odio eterno contro i romani?
Il libro è pregevole per molti motivi. Ne ho appezzato soprattutto la stringatezza, lo stile qua e là “cesariano” che ho trovato adatto al suo protagonista/io narrante: asciutto, diretto, essenziale. Uno stile che “racconta” anche quelle cose che – in un contesto ricchissimo di fatti – non può indugiare a descrivere in dettaglio. Leggete con attenzione le poche pagine, dalla 112 alla 118, riservate all’epopea del passaggio delle Alpi al tramonto delle Pleiadi, con quel vento che trascina “fiocchi radi e taglienti come lame”: Tolstoj non lo avrebbe detto meglio. Rammento en passant a chi ami le cose di montagna che è molto consigliabile la lettura del recentissimo L’impero in quota. I Romani e le Alpi di Silvia Giorcelli Bersani (Einaudi).
Nella sua breve ma lucida e intensa Prefazione al libro di Brizzi, Sabatino Moscati rievoca il libro di una trentina di anni or sono nel quale Amedeo Maiuri, “il famoso archeologo, senza dubbio il più grande del XX secolo, si trasformava in un letterato finissimo”: le Lettere di Tiberio da Capri. Credo che per Brizzi l’essere stato avvicinato a Maiuri da uno studioso come Moscati equivalga a una sorta di Légion d’Honneur morale: anche perché – ed è importante – ne riconosce non solo il rigore di studioso, ma anche la qualità di scrittore. Confesso però che, leggendo l’Io Annibale brizziano, non è a Maiuri che mi è capitato di pensare bensì a un capolavoro del secolo scorso, uno dei più grandi: alludo, è ovvio, alle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, alle quali Giovanni Brizzi non può non essersi mutatis mutandis ispirato.
Ho pensato subito a quel grande, sofferto libro avviato negli Anni Trenta del secolo scorso e completato dopo ripetuti abbandoni una ventina di anni dopo: e ci ho pensato proprio in relazione a Brizzi stesso, che nel 2015 ci ha regalato quel bel saggio 70 d.C. La conquista di Gerusalemme, che appena uscì mi obbligò a pormi una domanda che mi perseguita ancora e alla quale non riesco a dare una risposta: perché la Yourcenar abbia steso un velo di silenzio sulla distruzione, da parte di Adriano, di Gerusalemme o di quel che ne restava, circa sessant’anni dopo quella di Tito. Del capolavoro della Yourcenar, una cosa però mi ha sempre colpito: l’amore ossessivo di Adriano per la caccia, un tratto che per la mia moderna sensibilità stonava con la sua filosofica mitezza. Le cacce di Adriano…
Quelle immagini sono riaffiorate attraverso una coincidenza che, lo confesso, mi ha provocato un brivido nelle ossa. Appena ricevuto il libro di Brizzi ho fatto quel che faccio sempre con i libri da recensire (è una sorta di “rituale ossessivo”): lo apro a una pagina a caso, come facevano gli antichi cristiani per le Sortes Apostolorum. L’ho fatto anche con questo: e la mano, e gli occhi, sono implacabilmente caduti sulla fine della pagina 9 la lettura della quale mi ha obbligato ad arrivare alla successiva. La scena truce, commovente, bellissima, del leone crocifisso dai contadini: della sua regale ferocia, della sua fiera nobiltà dinanzi alla morte. Lì, in compendio, nell’ammirazione e nella pietà per quella belva superba, il giovanissimo Annibale sembra riuscir quasi a specchiare se stesso e il suo futuro: nella generosità come nella crudeltà, nel valore come nella sconfitta.
Un libro, sul modello della Yourcenar, sostenuto completamente, da cima a fondo, sul registro della prima persona. Con un’immedesimazione senza dubbio sul filo del rischio continuo di appannare il giudizio critico e di cedere al gioco quasi necromantico dell’evocazione. Libri come questo, fosse anche l’unico che Giovanni Brizzi fosse riuscito a scrivere, riempiono una vita.

Angelantonio SPAGNOLETTI, Filippo II, Roma, Salerno Editore, 2018, pp. 377, euri 24.
A vederlo così, chiuso nella sua armatura niellata d’oro come ce lo ritrae Anthonis Mor van Dashorst (“Antonio Moro”) nel celeberrimo ritratto del Prado, gli occhi severi e malinconici e la piega amara della bocca, la mano sinistra sul pomo della sua bella spada toledana, appare il ritratto dell’austerità e della tristezza. Ed è la sintesi paradossale, perfetta, tra la nobile bruttezza del padre Carlo V e l’abbagliante bellezza della madre Isabella di Portogallo. Lui, Filippo II d’Asburgo, el Rey Prudente: settantun anni di vita tra 1527 e 1598 e quarantadue di regno formalmente pieno, dal 1556 (ma in realtà aveva collezionato titoli ed uffici già da prima, almeno dal ‘51 quando era stato riconosciuto “signore naturale” del regno di Navarra). Una vita trascorsa tutta nel potere, nella fede cristiana fervida e incrollabile, nel lavoro instancabile, nei molti dolori.
Su Filippo II continua a aleggiare, complici disinformazione e pigrizia intellettuale, una pervicace leyenda negra alimentata dalla sua fama di sovrano assoluto che avrebbe regnato facendo spregiudicato uso dell’inquisizione, di persecutore degli eretici e dei moriscos, di assassino del proprio figlio don Carlos per torbidi e tortuosi motivi di gelosia (Giuseppe Verdi ha danneggiato la sua fama più di una legione di storici e di eruditi maldisposti) e forse di non estraneo nemmeno alla morte del suo affascinante e intraprendente fratellastro don Juan de Austria, l’eroe trionfatore di Lepanto. Ma l’intera, imponente biblioteca di opere storiografiche scritte su di lui finisce, nonostante tutto, di fornire al suo riguardo un quadro ben diversamente articolato.
Angelantonio Spagnoletti, modernista emerito dell’Università di Bari e studioso davvero “di lungo corso” della Spagna asburgica, dell’Italia meridionale e dei loro rapporti tra Rinascimento ed età barocca, ci fornisce adesso con il suo Filippo II un ritratto del secondo re asburgico di Spagna che, se non è del tutto nuovo, non lo è proprio in quanto sono stati gli studi di Spagnoletti stesso a modificarne l’immagine stereotipa imprimendole una versione originale e spregiudicata, serenamente limpida eppure animata da un fuoco interiore che riesce ad affascinarci.
Avvertiamo subito che, nonostante questo libro sia il n. 76 della celebre collana “Profili” fondata dal grande Luigi Firpo e poi a lungo magistralmente diretta dall’indimenticabile Giuseppe Galasso (al quale sono succeduti, ora, Andrea Giardina e Gherardo Ortalli), con esso non siamo per nulla dinanzi a una biografia “classica”. Gli elementi tanto critici quanto eruditi d’un genere storiografico spesso criticato e talora bistrattato, ma che pur resta principe (specie nei favori di un pubblico magari di non specialisti, comunque attento ed esigente), intendiamoci, ci sono tutti. Eppure, piuttosto che una biografia, questa si prospetta come una vera e propria monografia nella quale – al di là dello stile, che si presenta a tratti avvincente come un romanzo – gli elementi critico-esegetici prevalgono nettamente sul più rassicurante (ma spesso più noioso) “modulo narrativo”.
Il che, tuttavia, richiede pur qualche precauzione da parte del lettore. Siamo davanti a un libro che va affrontato non prima di essersi “rinfrescati” il quadro di riferimento generale. L’aiuto di qualche buona voce di enciclopedia e magari d’un piccolo dizionario storico (basta una “garzantina”) è consigliabile per mettere a punto le idee a proposito della sequenza cronologica degli avvenimenti e del contesto europeo, mediterraneo e mondiale. Spagnoletti, difatti, propone una scansione del suo racconto in otto blocchi – pari ad altrettanti capitoli – dei quali a ben guardare solo i primi due seguono gli eventi in ordine cronologico, mentre l’ultimo (dedicato alla triste e straziante agonìa, all’elaborazione del lutto dopo la morte e alla memoria lasciata) costituisce da solo una sorta di epilogo. Gli altri cinque, strutturati con rigore tematico-sintetico ma che mettono talvolta a severa prova la memoria del lettore, riguardano rispettivamente le istituzioni e il funzionamento della “Monarchia di Spagna”, la famiglia reale (e il segretario Antonio Pérez, un personaggio-chiave), la religiosità e i rapporti con la Chiesa cattolica, la complessa politica estera, gli immensi territori di Ultramar di un impero esteso dal Nuovo Mondo all’Estremo Oriente e sul quale notoriamente nell’arco del giorno il sole non tramontava mai (donde nunca se acuesta el sol).
Ecco, e non è consueto, un libro letteralmente dal quale giunti all’ultima pagina ci si distacca con rammarico. E, se non si fa molta attenzione, se ne esce con un’immagine che nonostante gli errori e anche qualche orrore dei quali il protagonista si rese responsabile, quasi rovescia l’immagine derivata dalla leyenda negra e dalla calunniosa ombra lasciata dal “capolavoro” (?) verdiano. Il che forse non sarebbe in fondo nemmeno granché giusto. Ma il drastico ridimensionamento di quell’infame macchinazione ideologica inglese e protestante che fu la leyenda è sacrosanto.
Un sovrano severamente ma tutt’altro che fanaticamente cattolico, che al suo rapporto con la Chiesa di Roma, non sempre idilliaco, guardò certo con l’occhio strategico e utilitario dell’instrumentum regni ma anche con la coscienza profonda dei doveri del monarca in quanto “primo servo di Dio”; uno statista accorto e infaticabile, che dal fondo della sua vera capitale (non tanto Madrid, che pure egli volle come sua sede e che fu una sua creatura, quanto il mirabile e terribile monastero-palazzo-corte-archivio-sepolcreto del complesso di San Vincenzo dell’Escorial, in piena Sierra Guadarrama) e continuamente immerso nelle sue carte, senza darsi riposo e senza quasi mai uscire dal suo gabinetto di lavoro, controllava minuziosamente tutto l’impero. Spagnoletti dedica pagine fondamentali e indimenticabili, fra l’altro, al suo tormentato rapporto con Elisabetta d’Inghilterra dal mancato matrimonio, che avrebbe forse cambiato le sorti del mondo, fino alla rotta dell’Invencible Armada del 1588; alle sue davvero oceaniche attenzioni e ambizioni riguardo all’immenso impero che abbracciava due oceani; al funzionamento a modo suo inappuntabile e implacabile della Santa Inquisizione; alla rivolta dei moriscos nel 1568 e al loro triste, commovente destino; infine alla sua tormentata ma implacabile (e, c’è da crederlo, inevitabile) risoluzione che condusse alla morte il suo inquietante e insopportabile primogenito don Carlos. Danno i brividi, a rileggerle tenendo presente il destino che un decennio più tardi avrebbe atteso lo sciagurato principe ed erede, le parole dal re pronunziate durante l’auto de fe – celebre e spettacolare – dei condannati per sospetto luteranesimo a Valladolid il 21 maggio del 1559. Tra loro c’era il nobile Carlo de Sesso, già collaboratore di Carlo V, il quale si rivolse al nuovo sovrano poco più che trentenne rinfacciandogli la sua infamante condanna al rogo che non gli sarebbe spettata dato il suo alto rango. “Porterei personalmente io stesso le fascine di legna per bruciare mio figlio – gli rispose il re – se fosse malvagio come voi”. Presentimento? Contrappasso? Atroce ironia della storia?
Anche la fine di Filippo fu, a modo suo, esemplare. Era vissuto circondandosi di costante riserbo, curando in modo quasi maniacale – almeno per quei tempi – l’igiene personale, facendo estrema attenzione a mantenere alta e veramente regale anche la dignità del suo aspetto fisico: morì nel lento disfacimento del corpo, nella più rivoltante e penosa delle agonìe, nel fetore dell’infezione purulenta e delle feci. La sua agonìa coincise con l’inizio lento ma irreversibile di quella del suo impero. Era il fatale 1598, quarant’anni dopo la morte del padre, dieci dopo la sconfitta dell’Armada, pieno zeppo di sinistri segni celesti – le eclissi – e di disastri, mentre le finanze regie e la vita civile dell’impero cominciava a subìre il crudele contraccolpo dell’inflazione e della bancarotta e le rivolte serpeggiavano. Il re moriva, la Monarchia di Spagna estesa sull’orbe terraqueo cominciava a morire con lui. La sua agonìa sarebbe durata tre secoli per chiudersi sull’infausto 1898, l’anno della fine della guerra di Cuba, sotto i colpi degli Stati Uniti d’America: millantati e falsi liberatori, come al solito.