Minima Cardiniana 307/3

Domenica 27 dicembre 2020
Sacra Famiglia, San Giovanni Evangelista

LA GLORIA DELL’OCCIDENTE…

Finisce il secondo decennio del XXI secolo. Finisce con un’angoscia che ci ha congelati più o meno tutti nelle nostre case, che ci ha isolati, che in fondo c’impedisce di pensare liberamente e serenamente. Abbiamo messo da parte la nostra vita normale: e anche quelli che hanno reagito tuffandosi in un lavoro maniacalmente intenso (il lavoro domestico, specie per chi fa mestieri simili a quello che faccio io, può essere una droga), in realtà si sentono staccati da se stessi, come in una campana di vetro sott’acqua.
Passerà, ci ripetiamo. In fondo, se non è un falso allarme, alla fine un vaccino lo hanno trovato. Anche qui, aspettiamo a formular giudizi: può succedere di tutto: dal bluff alla “falsa partenza”.
Intanto ci aspetta il 2021, Anno Dantesco. Ma sarà quest’anno migliore di quello che ci lascia? “Di più molto di più, lustrissimo”, come diceva il Venditore d’Almanacchi al Passeggere.
Io sono molto meno pessimista del contino Giacomo Leopardi: ma qualche dubbio ce l’ho. Allora ho provato a buttar giù due paginette di consuntivo/preventivo. A dir la verità le avevo scritte mesi fa e dimenticate: ma un’amica me le ha ricordate e riproposte, sostenendone la validità.
Non saprei. Le ho riviste e ritoccate. Ve le propongo così come sono. Se pensate ne valga la pena, ci torneremo.

…OVVERO I PIEDI D’ARGILLA DEI SIGNORI DEL MONDO
Siamo stati di nuovo attraversati da una Grande Paura. Magari è un falso allarme, magari un bluff. Ma comunque, com’è che noialtri, cosi fieri nelle Magnifiche Sorti E Progressive e nei Domani Che Cantano, così consapevoli della nostra superiorità (democratica, naturalmente…) rispetto alle altre culture, al momento di certe prove ci riveliamo così tremebondi? Che cos’abbiamo perduto? Che cosa ci manca? Di che cos’abbiamo paura? Non è forse il nostro il Migliore dei Mondi Possibile?
Parliamone: senza superbia e senza ironia. Quella del nostro Occidente è una storia magnifica. Siamo dei viaggiatori, degli scopritori, degli esploratori, degli inventori, dei conquistatori, degli imprenditori, dei vincenti. Pico della Mirandola ha chiamato l’uomo “divino camaleonte”, capace di assumere qualunque forma. Il fatto è però che partiva da un malinteso: pur ritenendo di pensare all’umanità in generale (lui all’Homo Universalis ci credeva) in realtà alludeva agli unici uomini (e donne: non dimentichiamo il politically correct) a noi, agli homines (et mulieres) occidentales, che – messer Pico non lo sapeva: noi però sì – siamo non già la regola storico-antropologica, bensì l’eccezione.
In che cosa consiste quella che potremmo definire “l’Eccezione Occidentale”? Essenzialmente in questo. Le altre culture, nessuna esclusa, si sono sempre fondate su un’Arché: un passato da venerare e al quale conformarsi. Noi occidentali moderni, viceversa, dal XVI secolo in poi – pur fingendo di costantemente ispirarci a un venerabile passato, quello grecoromano – lo abbiamo riscritto di continuo per adeguarlo a un futuro che abbiamo preteso di plasmare giorno per giorno con le nostre forze. Unusquisque faber fortunae suae. I nostri eroi sono Prometeo, Odisseo, il dottor Faust. Siamo nati per scalare l’Olimpo, per sfidare gli dèi. Perfino l’Onnipotente Dio di Abramo, se ha voluto conquistarci, ha dovuto assumere veste umana: e alla fine, sia pur con affetto e rispetto, abbiamo in pratica congedato anche lui (“secolarizzazione”, si chiama educatamente questo processo).
Per noi, qualunque limite è una frontiera da abbattere: è la “cultura del limite” in quanto tale che abbiamo rifiutato. Questa è la vera forza, questa la sostanza di quell’Occidente moderno che ormai è diventato la koinè diàlektos del mondo. Siamo noi soli la misura di noi stessi e di tutte le cose. Chi accetta questo principio, diventa occidentale anche lui. Notoriamente non siamo razzisti, salvo qualche lunatico. Ma siamo assimilazionisti rigorosi. Chi non ci sta, è condannato.
Senonché il trono glorioso sul quale siamo assisi ha un costo stratosferico. Ciascuno di noi è in concorrenza con tutti i suoi simili. Ciascuno di noi – e noi tutti, homines (et mulieres) occidentales – siamo soli nella nostra grandezza. Abbiamo decapitato gli dèi e i re. E adesso sopra di noi c’è solo un cielo vuoto; davanti a ciascuno di noi c’è il Nulla. Abbiamo rinunziato fino dal Cinquecento a dare un senso al mondo, del quale ci siamo impadroniti, e alla vita che non è più finalizzata se non a se stessa; con la fine delle “ideologie” classiche, abbiamo perfino rinunziato a dare un senso alla storia; ed era tutto quello che ci rimaneva.
E ora, davanti al mistero del destino che ci aspetta, ci troviamo soli e tremanti. Agli europei, che da settantacinque anni non provano più il tallone di ferro della guerra (salvo, negli ultimi tempi, l’eco lontana di quelle ch’essi hanno contribuito a provocare), è bastato l’arrivo di una malattia della quale ancora non conosciamo la gravità per metterli in ginocchio.
Ma che cosa c’è al fondo di questa paura probabilmente eccessiva e irragionevole? La disperazione. Preferiremmo le pene eterne del vecchio Inferno alla prospettiva della fine di tutto insieme con la conclusione della vita fisica: alla prospettiva della scomparsa irreversibile nel Nulla. Ed è solo il Nulla il futuro che nel nostro pervicace ottuso materialismo individualistico sentiamo nostro. E ci fa paura, e non osiamo confessarlo ad alta voce.
Ecco perché negli ultimi decenni abbiamo fatto sparire dai nostri rituali sociali la morte che un tempo giganteggiava signora e padrona. I nostri riti servivano a esprimere il nostro timore, ma anche la nostra certezza – che allora avevamo – ch’essa non era la fine di tutto. Anche Le Danze Macabre e i Trionfi della Morte, la paurosa arte sacra dei tempi di peste, ci riconducevano a una ritualizzazione che equivaleva ad addomesticare la Signora del Mondo, a ricordarle che non era lei la Padrona né del Cosmo, né dell’Eternità. I nostri riti erano potenti mezzi usati per tenerci al sicuro dalla paura. Come dice la Danza Macabra di Branduardi? “Un passo di danza – e poi un altro ancora – e tu del mondo non sei più Signora”. Il gioco dei Riti di Passaggio l’addomesticava, la rendeva una presenza quasi amica. E così la Regina del Mondo diventava semplicemente la nostra austera compagna nel viaggio della vita, in attesa della Resurrezione.
Oggi non è più così. La paura della morte è silenziosa, non espressa, negata: ma incombente. Con la secolarizzazione e l’immanentizzazione della vita, essa è tornata selvaggia e feroce. Lo è nei nostri sogni, nel nostro inconscio. La psicanalisi ce lo insegna. E basta a tenerla a bada la stessa fede religiosa, per chi ancora la conserva? Abbiamo per secoli costruito la nostra libertà, che non doveva essere comunitaria bensì rigorosamente individualistica. E ora la possediamo: è la libertà del marinaio che, in un mare calmo e infinito ma in una notte senza stelle, si aggrappa a un relitto e non sa dove dirigere le sue bracciate perché ignora se e dove sia la terraferma.
Le altre culture non sono così: e, per occidentalizzate che siano, mantengono la loro diversità. Se riuscite a parlare sul serio con un montanaro afghano, con un contadino del Kerala, con un monaco buddhista, con un Native American non ancora abbrutito dall’alcool di cattiva qualità, ve ne rendete conto. A noi che ne abbiamo fatto la nostra nuova trinità sembra che la gente di altre culture non disponga di nulla: né di Tecnica, né di Potere, né di Ricchezza. Quel che avevano glielo abbiamo strappato pretendendo in cambio d’insegnar loro a vivere e magari perfino a pensare come noi. Eppure essi posseggono, sia pur ormai appannata e adulterata, una consapevolezza spirituale che male si esprime col nostro vocabolario occidentale, e che ci sfugge, e che ormai magari non è più chiara neanche a loro.
Ma è una forza che somiglia molto a quella che i nostri teologi chiamavano Speranza. Ricordate Dante, del quale ricorre nel 2021 il centenario (o pensate forse che sia uno scoop messo in giro da Alessandro Barbero?): “Fede è sustanza di cose sperate – ed argomento delle non parventi”. Noi, che la Speranza l’abbiamo perduta insieme con la Fede e con la Carità (della quale l’umanitarismo è solo un ridicolo succedaneo), abbiamo smarrito la chiave del senso profondo di questi due versi.
E allora, come al solito da almeno un secolo e mezzo, ci restano solo due vie: o il Cristo, o Nietzsche. O vi convertite tornando sinceramente all’umiltà della Fede (che però non è nulla senza le opere: e le opere sono la carità), e allora la vita torna ad avere un senso, ma tale senso (lo diceva già il catechismo di san Pio X) è il servizio. Oppure vi specchiate con lucido e indifferente orgoglio nella vostra Disperazione affrontandola ad occhi spalancati. A meno che non riscopriate Epicuro e sappiate sombrer nel Nulla con serena consapevolezza. Ma in entrambi questi due casi, la vita vale la pena di essere vissuta solo se e nella misura in cui è Potere e/o Piacere.