Minima Cardiniana 308/1

Domenica 3 gennaio 2021, VIII di San Giovanni Evangelista

UN REGALO PER L’EPIFANIA

LA KENOSIS
Chi è stato a messa oggi ha ascoltato l’
Incipit del Vangelo di Giovanni, una delle più belle pagine di poesia e di filosofia che mai siano state scritte al mondo. In quell’In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Dinanzi alla Parola, le nostre parole sono niente.

E allora seguiamo la raccomandazione e l’esempio di questo nostro grande papa, davvero il dono più prezioso che Dio ha fatto al genere umano in questo momento: svuotiamoci delle nostre vanità, della nostra inutilità, del nostro Nulla che ci sembra tanto, e disponiamoci a diventar sul serio Poveri affinché sia l’Amore a riempirci. Questo mondo rigurgita d’inutilità e di vanagloria al quale siamo attaccati: e siamo così egoisti dal negare anche il necessario a chi ha bisogno. Ma chi ha bisogno è povero: e siamo poverissimi anche noi, perché la società dei consumi e dei profitti che abbiamo creato è in realtà una fabbrica di bisogni illusori che ci schiavizzano. Usciamo dallo stato di povertà cronica e diventiamo Veri Poveri: quelli che rifiutano la tirannia del bisogno, quelli che scelgono la Verità.
In linguaggio mistico, questo atto si chiama
kénosis: letteralmente, “svuotamento”, ch’è non sinonimo bensì contrario di “annichilimento” in quanto consente l’ingresso dell’Amore di Dio in noi al posto del Nulla della nostra psiche.
Una volta all’anno, vale la pena di pensare ai Princìpi Primi. In queste ore, aspettando la Stella dei Magi, è opportuno riflettere su ciò: è il centro di tutto. Facciamoci accompagnare in questa meditazione da quanto scrive Massimo Cacciari:

“In un testo che non posso immaginare ignorato da Dante, il Sacrum commercium sancti Francisci dum domina Paupertate[1], la Povertà inizia proprio dal paradiso terrestre a narrare la sua avventura, nell’attesa del cavaliere senza macchia che la ricollocherà sul suo trono. Ma questo motivo a me non pare affatto fondamentale. Né in Francesco, né in Dante, né nella potenza figurativa di Giotto, l’idea di Paradiso si configura come nostalgia delle origini. Per tutti loro, la beatitudo futura si rappresenta in termini di radicale novità rispetto allo stato edenico.
Centrale, nella mistica francescana, è piuttosto l’idea che collega povertà a kenosis[2]. In questo senso procede anche il Sacrum commercium. Per amore di Povertà il Signore ha lasciato tutti gli ordini celesti ed è sceso nella feccia e nel fango, nelle tenebre e nell’ombra della morte. E Povertà ricambia questo folle, gratuito amore non abbandonandolo mai, seguendolo fin sulla croce. Amare povertà assume perciò il significato di ripercorrere con tenace perseveranza, vincendo la ripugnanza che desta al primo incontro lo spregevole aspetto della nostra Dama, la via dell’incarnazione del Logos, fino a giungere alla contemplazione delle “verità eterne” che di questa via custodiscono il mistero…
Ma svuotarsi da che? Da un mantello? Da qualche bene? In che cosa ci si imbatte tra il gesto quasi immediato della spogliazione di fronte alle potenze terrene, tra la liberazione dal fardello che impedisce di ‘correre’ sulla traccia di Gesù, e questa suprema imitazione: essere poveri sul modello della kenosi divina? Il prò-blema più arduo: lo svuotamento del Sé. Il monte eccelso della povertà non è conquistato prima di questo passaggio. Il bene che Gesù dice di abbandonare è il nostro ‘possesso’ più geloso, quello che più ostinatamente contro tutto e tutti difendiamo – la nostra psyché. È questa che pensiamo come la nostra sostanza irrinunciabile. Essa sta per noi al centro di ogni altro bene o valore. A tutto possiamo rinunciare per lei. Ma rinunciare a lei, ciò appare sovrumano. E proprio questo, invece, nella radicalità del suo voler ritornare alle origini del Verbum evangelico, esige (senza volerlo a nessuno imporre) Francesco. Come Dio si è svuotato del Sé divino, così ora tu devi far-esodo, fino a odiare ogni philopsychia (Luca, 14, 26), liberandoti dal tuo proprio, il tuo possesso più assicurato. ‘Qui vere pauper est spiritu, se ipsum odit et eos diligit qui eum percutiunt in maxilla’ (Admonitiones, XIV).
Ma il vero povero, il vero nudo, non fa vuoto, in sé, del soltanto per poter accogliere perfettamente, imitandolo, il Signore. La dinamica kenotica è accoglienza dell’altro, in tutti i volti con cui ci viene contra. Lo svuotarsi di tutti gli impedimenti esteriori, fino alla spogliazione del , vale soltanto se avviene per amore. Non si odiano i beni terreni per la loro vanità, per la loro fugacità e inconsistenza. Questo sarebbe ancora l’atteggiamento del sapiente. Né si rinunzia loro per la pace della contemplazione. Farsi poveri significa liberarsi per poter perfettamente amare. Esistere solo nella relazione all’altro, nell’esodo all’altro. Da nulla trattenuti in sé. Povertà diviene, allora, ricchezza d’esperienza, curiositas anche – l’opposto di ogni contemptus mundi –, la condizione indispensabile per poter accogliere in noi ogni volto, ogni incontro, ogni ente sub specie aeternitatis. Attraverso la strada, l’esperienza appunto, della povertà, che sembrava soltanto abbandono, sacrificio, rinuncia, rinasce, ma come nuovo evento, lo stesso sé, ricco di un nuovo sguardo sul reale – uno sguardo che concepisce qualsiasi filo di esistenza come un prossimo sempre tale, e perciò impossedibile.
La povertà è kenosi nel senso radicalmente opposto ad ogni volontà di annichilimento. Essa è segno di uno spossessarsi di tutto per risorgere con e per ogni ente. La mistica francescana è amore ri-creante, non de-creatio. E allora si capirà anche il fondamento del ruolo immenso che essa gioca nel rinnovo dei linguaggi artistici. Per veramente ‘avere’, e poter rappresentare il ‘nostro’ mondo, occorre de-habere, spossessarsi di tutto ciò che non ‘abbiamo’ per grazia del puro amore. Non si ‘ha’ ciò che si ama – ma ciò che si ama non sarà mai possesso, reificabile in cosa posseduta. Non si ‘ha’ veramente che nell’esperienza vissuta della povertà. Celsitudo paupertatis non si raggiunge, dunque, né con la semplice rinuncia, né nella semplice figura del peregrinus.
Paupertas è energia agente: la forza che va all’amato, che scopre il volto nuovo dell’ente come dell’impossedibile e indistruttibile. Povertà è energia che nulla invidia, che nulla vuole ‘a disposizione’. Povero non è il bisognoso, colui che manca, ma colui che tutto ‘ha’ come fratello e sorella, e cioè senza avere, che di tutto gode, nel senso del frui Deo. Perché è degno di essere amato soltanto ciò che manifesti il proprio essere come incarnazione dell’essere divino”[3].
(Massimo Cacciari, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e in Giotto, Milano, Adelphi, 2012, pp. 64-68).

CHE I MAGI, PERFETTI VASSALLI DEL GRAN RE, VEGLINO SEMPRE SU TUTTI VOI.

[1]Cacciari nota che fu U. Cosmo, Con madonna Povertà. Studi francescani, Bari 1940 (“in un saggio peraltro molto bello”, aggiunge con assoluta ragione) ad affermare che Dante non conoscesse quello scritto anonimo duecentesco, peraltro celebre. In realtà, il tono, il contenuto e le immagini di tutta la Divina Commedia in quanto viaggio e queste, e soprattutto il canto XI del Paradiso, forniscono se non prove certe quanto meno forti indizi che le cose stiano come ritiene Cacciari: cfr. per questo N. R. Havely, From “Commercium” to “Commedia”, “Dante Studies”, 114, 1996, pp. 229-43.

[2]Termine greco indicante il fondamentale concetto mistico di “svuotamento”.

[3]Cacciari, Doppio ritratto, pp. 64-68.