Minima Cardiniana 308/4

Domenica 3 gennaio 2021, VIII di San Giovanni Evangelista

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VIAGGI E VIAGGIATORI NEL MEDIOEVO
Il viaggiatore del medioevo apparteneva a due categorie fondamentali: il mercante e il pellegrino. In fondo, si trattava di tipi non del tutto divergenti. Antropologicamente, tra il mercante e il pellegrino non c’era, poi, quella differenza che a prima vista si potrebbe immaginare. Con i proventi dei suoi viaggi, il mercante spesso finanziava, anche a sconto dei suoi peccati, belle chiese, grandi affreschi, splendide vetrate. Mentre i pellegrini, da parte loro, molto spesso mercificavano gli esiti del loro pellegrinaggio, magari con un traffico di reliquie, o semplicemente con il giro di affari che intorno alla loro peregrinatio si poteva creare.
I regni sorti sulle rovine del mondo romano in Occidente mantennero a lungo una relativamente intensa attività di scambi e di commerci. I greco-siriani, in grado di occupare vaste porzioni urbane nella grande area portuale mediterranea, restarono a lungo gli operatori commerciali delle numerose città della Gallia meridionale e della Spagna visigotica, zone in cui dovettero mantenersi le fiere (nundinae) ed i mercati che la legislazione tardoantica testimonia. Le città portuali nelle quali più a lungo si mantenne la legislazione romana, con le sue precise prescrizioni circa le dogane ed i magazzini, conservano ancora per il VII secolo le tracce dell’esistenza di thelonarii (mercanti locali), a riprova della continuità di una prassi che aveva visto cooperare nell’attività mercantile individui sia stranieri sia indigeni, i quali poi distribuivano le merci nell’interno. I quartieri commerciali che avevano caratterizzato i principali centri mercantili del mondo romano-bizantino, sopravvissero forse più a lungo di quanto non si sia abituati a pensare, e Gregorio di Tours ci informa dell’esistenza di una simile area specializzata anche nella Parigi merovingia. È del resto in questo stesso contesto che si incontrano non solo le prime fiere, ma anche la nuova funzione cui esse assolsero nel quadro economico del tempo. La grande fiera di Saint Denis istituita da Dagoberto I ebbe come scopo quello di costituire un importante cespite di entrate per l’abbazia omonima, che usufruiva per concessione regia di tutte le gabelle e le entrate che in quei giorni si raccoglievano. Nell’VIII secolo Childeberto III ricordava il rilievo internazionale assunto dalla fiera, verso la quale confluivano mercanti sassoni e di altre nazioni.
Questo tipo di protezione regia accordato a grandi abbazie prossime ai centri commerciali nel giorno in cui ricorreva la festa del loro santo eponimo o la commemorazione liturgica della fondazione, pur se più evidente nelle epoche successive, testimonia degli adeguamenti strutturali dell’attività commerciale ai nuovi centri di aggregazione del potere territoriale, confermando l’esistenza di una molteplicità di livelli: da quelli prettamente locali – legati allo smercio delle eccedenze di una proprietà signorile o di un villaggio – fino a quelli stimolati dalla domanda di centri urbani maggiori, capaci di catalizzare un’offerta mercantile più vasta. Occasionale o periodica, come nel caso delle fiere, la mobilità mercantile sopravvisse fino alla stagione della rinascenza urbana dell’XI secolo.
A partire dall’XI-XII secolo, per favorire gli scambi, si crearono in tutta Europa mercati periodici o stagionali che si tenevano in varie città di solito nei giorni consacrati alla festa dei santi patroni locali (e per questo, da feria, “festa”, prendevano il nome di fiere). Le più famose avevano luogo in sei città della regione franco-orientale della Champagne, dove ogni centro ospitava il mercato per la durata di sei mesi. in questo modo, si aveva almeno una grande fiera aperta ogni giorno dell’anno.
Il viaggiatore medievale per eccellenza, però, era il pellegrino. Il mondo cristiano ha espresso nella concezione dell’homo viator, del viaggiatore, il simbolo della ricerca spirituale che – per il fatto di essere intima e spirituale – nondimeno si esprime talvolta anche nei termini d’un reale ed effettivo spostamento da un luogo all’altro. Il termine “pellegrino” poi, deriva dal verbo latino peragere che è quanto mai ricco di significati: da quello di “muoversi con inquietudine, senza tregua” a quello di “condurre a termine” (e quindi “perfezionare”, ma anche “morire”). Il peregrinus non è semplicemente l’hospes, lo “straniero”. La parola peregrinus esprime l’estraneità e al tempo stesso l’estraniamento e lo spaesamento. Il pellegrino è tale in quanto straniero nella terra nella quale giunge; ma al tempo stesso l’espressione che lo qualifica è ambigua al punto tale da poter significare il contrario: in realtà egli potrebb’essere straniero nella sua terra d’origine, e la sua vera patria essere appunto la sua mèta. Il cristiano è cittadino del cielo, la sua vita è un pellegrinaggio perché egli parte dall’esilio e desidera tornare in patrie. Ma il viaggio, più che spostamento da un luogo all’altro della terra, può significare un mutamento di stato e di qualità: un passaggio dal mondo consueto a una dimensione “altra”, differente, vale a dire “sacra” – il Sacro si può intendere come il “totalmente altro” rispetto alla quotidianità umana – oppure comunque “santa”, in contatto cioè col divino e relativo ad esso.
Le grandi mète del pellegrinaggio medievale erano Santiago de Compostela in Galizia (Spagna), Roma, Gerusalemme; esse erano alternate a mète secondarie, a pellegrinaggi meno importanti o “minori”, soprattutto legati alla devozione dell’arcangelo Michele (Mont-Saint-Michel in Normandia, la Sacra di San Michele in Val di Susa, Monte Gargano in Puglia) o a quella per la Madonna (Le Puy, Chartres, Rocamadour). I pellegrini erano protetti dalla Chiesa, che colpiva con la scomunica chi li avesse offesi; erano sovente dei penitenti, riconoscibili per la sacca e il bastone da viaggio; e come segno della loro penitenza e della santità della loro mèta portavano indosso – sugli abiti e sui copricapi – dei distintivi speciali.
I pellegrini – fra i quali vi erano anche vecchi, bambini, donne – si affiancavano a girovaghi, mercanti ambulanti, contadini in cerca di nuove terre che fra X e XI secolo si muovevano con maggiore frequenza. Inoltre, nel corso dell’XI secolo la grande Abbazia di Cluny si era fatta promotrice dei pellegrinaggi a Santiago de Compostela in Galizia, all’estremità di nord-ovest della penisola iberica. Esso sarebbe servito infatti, si pensava, a propagandare le guerre cristiane di riconquista contro i musulmani di Spagna. Infine v’era Gerusalemme: controllata dagli abbasidi, ma visitata da un crescente numero di pellegrini occidentali.
Nell’ambito propriamente ecclesiale, una certa diffidenza nei confronti dei pellegrinaggi rimase costantemente: anche perché l’organizzazione ecclesiastica era rigorosamente territoriale, e gli ordini regolari erano organizzati, dal canto loro, sulla base della stabilitas loci, che impediva al monaco di mutare monastero rispetto a quello nel quale era entrato nell’ordine. Tuttavia si finì con l’ammettere l’esperienza del pellegrinaggio come fatto centrale nella vita della Ecclesia, sebbene ordinato dalla Chiesa, sancito da un apposito voto e corredato dalle relative indulgenze spirituali. In questo modo la Chiesa provvide a inserirsi, disciplinandolo, nel vasto movimento che animava le strade dell’XI secolo.

NOTIZIE DALL’ALDILÀ
Se ci sia qualcosa dopo la morte fisica individuale, non lo sappiamo e ci si può scommettere che non lo sapremo mai: se per “sapere” s’intende possedere una consapevolezza certa e comprovata di qualcosa. Non pare che – a parte Lui: che però è notoriamente un’eccezione – dall’Aldilà non sia mai tornato nessuno a darci informazioni. Certo, leggende ce ne sono tante: poi ci sono i miti, da Gilgamesh a Orfeo ad Ulisse a Enea, ma nemmeno quelli hanno mai funzionato granché; e i sogni, gli incubi, le visioni – magari indotte da qualcosa che si è bevuto o fumato – finiscono sempre e solo per accrescere lo scetticismo di fondo.
Eppure, il Mondo dell’Altra Parte continua ad affascinarci: dai miti antichi alle saghe nordiche alle storie musulmane. Anzi, queste ultime, che poggiando a loro volta su un substrato biblico sono abbastanza vicine alle nostre, sono state per noi una fonte d’ispirazione forse capitale. Come quel libretto che racconta l’ascensione al cielo del Profeta Muhammad, affidata al testo mistico araboispanico medievale Kitab al-Miraj, “Libro della Scala”. Il maestro di Dante, ser Brunetto Latini, dopo la batosta subìta nel 1260 dal suo partito, i guelfi toscani, sul campo di battaglia di Montaperti, abbandonò la sua Firenze ormai dominata dai ghibellini e andò in esilio a chiedere asilo politico al buon re Alfonso X di Castiglia, eccellente statista ma anche grande studioso e in particolare astronomo e astrologo (detto perciò el Sabio, “il Mago”). Quando tornò nella sua Firenze, verso il 1267, aveva nella sua bisaccia una copia della traduzione latina di quel libro musulmano che parlava dell’assetto dell’Aldilà, il Liber de Scala. E sembra proprio che il suo miglior allievo, Durante degli Alighieri detto Dante, ci desse qualcosa di più di un’occhiate e ci traesse molto di più di una generica ispirazione. Se non è vera, è ben congegnata: parola di Miguel Asin Palacios, filologo e arabista, che quel testo lo ha studiato splendidamente.
Ma Bart D. Ehrman, professore di studi religiosi a Chapel Hill, North Carolina, di cose musulmane non si occupa. Le sue strade per arrivare all’altro mondo prendono altre direzioni. Magari qualcuno obietterà che l’impianto di questo libro, per le nostre curiosità e le nostre inquietudini di occidentali moderni, è troppo limitato: come si fa a scrivere un libro dall’ambizioso titolo di Inferno e Paradiso. Storia dell’aldilà (Roma, Carocci, 2020, pp. 290, euri 23) prendendo magari sul serio le idee sull’aldilà che emergono dalle rabbiose polemiche dei cristiani evangelici conservatori e viceversa (consultare l’Indice analitico per credere), non citare nemmeno una volta Gauthama Siddharta Sakiamuni detto il Buddha, mai Lao Tze, mai Confucio, una sola volta lo zoroastrismo, una Maometto?
Certo, Ehrman lavora su di noi, occidentali moderni, e prende come base di partenza le nostre idées reçues per disincarnarle impietosamente. Prendiamo l’eternità dell’anima, l’Inferno, il Paradiso, l’Aldilà in generale, ma anche il Giudizio Universale e via discorrendo: che ci si creda, che ci si creda poco, che si finga di crederci o non ci si creda affatto, se ci fermiamo a esaminare i fondamenti biblici e/o evangelici delle nostre vere o supposte oppure ostentate credenze si scoprirà che essi sono fin troppo esili, o sbagliati, o addirittura inesistenti. Molto di quanto diciamo o crediamo non ha un fondamento né biblico, né evangelico; e molte cose che noi crediamo trovarsi nell’una o nell’altro, viceversa non ci si trovano. Il primo elemento salutare di questo libro è che funziona come una grande macchina disincantante: serve a mostrarci l’ampiezza e la profondità della nostra ignoranza.
Che cosa “credevano” i cristiani dei primi secoli? Ehrman traccia la loro “carta d’identità”. La Bibbia, discretamente conosciuta dal popolo che nella sua stragrande maggioranza non aveva preso sul serio la notizia che Gesù di Nazareth fosse il Messia, era stata accettata da gente che non sapeva l’ebraico e letta poco e male in traduzioni inadeguate. La maggior parte dei cristiani proveniva dalla Siria, dall’Armenia, dall’Egitto, dall’Etiopia, dalla Grecia, conosceva male il patrimonio mitico-religioso dei suoi luoghi d’origine e veniva ammaestrata da missionari che conoscevano poco i suoi idiomi. Gesù, sulla croce, promise qualcosa al crocifisso sulla sua destra, che gli aveva rivolto una parola di conforto. Nessuno ci dice che quegli fosse ebreo né che parlasse aramaico: magari sapeva solo qualcosa di greco, ch’era il basic English dell’epoca. E il Messia gli si rivolge parlandogli di un luogo mitico dell’Aldilà mazdaico dei persiani, che i greci dopo Alessandro Magno erano abituati a immaginare come una specie di Campi Elisi; quanto agli ebrei, a che cosa potevano pensare a loro volta? A un Eden ricreato chissaddove? All’oasi di Engaddi descritto da Salomone nel Cantico dei Cantici? E il Regno dei Cieli sarebbe stato simile a quello?
Oggi si parla tanto d’identità e del bisogno di conservarla; di tradizione e della necessità di tutelarla. Ma da quale mai patchwork di confuse, sovrapposte e maldigerite forme di acculturazione passate attraverso Israele, l’Egitto, l’Etiopia, la Siria e la Grecia vengono fuori il nostro Paradiso, il nostro Inferno, la nostra Eternità? E non parliamo del Purgatorio perché ne ha già parlato Jacques Le Goff.
Ehrman c’invita a ricominciare daccapo e a riordinare le nostre idee. Quanto a me, povero cristiano, continuo a benedire la mia maldestra e confusa tradizione che mi ha insegnato a pensare che una volta trascorsa la breve stagione di residenza in questo mondo, se non sono stato troppo malvagio, mi ritroverò in un posto che mi piace immaginare un po’ come l’Alhambra di Granada o come i giardini di rose d’Isfahan; magari con al centro una bella chiesa, tipo il duomo di Colonia, in cui riunirsi spesso per ascoltare molto Bach e molto Mozart; e un bel posto dove andare ogni tanto a cena, come il Cafè Puskhin di Mosca. Ma spero che non sia un Paradiso con l’apartheid, e a tale scopo mi sono già accordato con un mio vecchio amico, collega e coetaneo musulmano (è un filologo egiziano accademico della Crusca, Mahmoud Salem Elsheikh, vecchio allievo di Gianfranco Contini nella Firenze di sessant’anni fa). Ogni venerdì mi aspetterà con una scaletta d’alluminio appoggiata la muro di cinta che divide il nostro Paradiso cristiano dal Giardino di Allah: passerò dall’altra parte e, una volta alla settimana, avrò per qualche ora la compagnia di una Urì sua amica. Mi pare si chiami Aisha, o Fathma, o forse Leila.