Minima Cardiniana 309/1

Domenica 10 gennaio 2021, Battesimo del Signore

EDITORIALE

FRANCO CARDINI
SE ATENE PIANGE…
Ridere fa bene. Ridere con garbo delle cose serie è segno d’intelligenza. Saper ridere anche delle cose tragiche può addirittura, se fatto con misura, costituire una buona difesa apotropaica. Per questo è stato divertente vedere, fra i tanti messaggi circolanti on line in questi giorni, una bella foto generale dell’assedio al Capitol Hill di Washington accompagnata dal commento scritto: “Siccome a causa del Covid 19 gli americani non possono più andare dove vogliono, i golpes sono costretti a farseli a casa propria”. L’allusione riguarda ovviamente la Georgia, l’Ucraina, la Bielorussia, tanto per limitarsi ai casi più recenti. Poi ci sarebbero le bravate degli alleati europei degli USA, come il celebre duplice exploit franco-inglese del 2011, riuscito in Libia (con le note conseguenze…) e fallito in Siria.
Ora si parla di possibile impeachment del tristo mister Trump, ad evitare che questi ultimi dieci giorni del suo potere possano portare a qualche decisione che si rivelerebbe tragica: e da lui si sarebbe da aspettarselo. Frattanto, il Grande Circo Informatico ci propone di tutto: perfino una serie d’interpretazioni a dir poco ridicole sul fatto che alcuni agenti di polizia dell’edificio parlamentare abbiano favorito l’ingresso dei facinorosi, il che – premesso che le responsabilità sono ancora tutte da appurare e forse non lo saranno mai – è facilissimamente spiegabile dato che il colpo di mano voluto da Chiomarancio un minimo di preparazione l’aveva; qualcuno suppone però che si sia stato anche un controcolpo di mano di poliziotti passati a Biden, ed è possibile anche questo. La situazione è grave, ma non seria.
Ma insomma, che cosa sta accadendo? E il dramma si sta concludendo oppure è appena iniziato?
“Se Atene piange…”: è la prima parte di una celebre pericope, suscettibile – come tutte le pericopi del mondo – d’infiniti sviluppi esegetici. Vediamone alcuni.
“Se Atene piange, Sparta ride”; “Se Atene piange, Sparta non ride”; “Se Atene piange, Sparta ride?”; “Se Atene piange, Sparta ha poco da ridere”; e così via di questo passo.
E, vi assicuro, non è un gioco. Avessimo tempo e spazio, potremmo allineare una ventina almeno di varianti di questa breve frase e dotare ciascuna di esse di un lungo commento.
Tranquilli, non lo faremo. Ma qualche interrogativo bisogna pur porcelo.
Lo hanno detto in tanti, in queste ultime ore, che Atene sta piangendo a calde lacrime. E l’Atene dei nostri tempi, naturalmente, sono gli Stati Uniti d’America. Basta guardare il panorama di Washington per convincercene. E se qualcuno obietta che l’Atene dell’antichità probabilmente era più bella, pazienza…come diciamo a Napoli (e lasciatelo dire anche a un non-napoletano ma vecchio allievo dell’Accademia aeronautica di Pozzuoli e vecchio docente del Suor Orsola), si’ o’ mellone è scito jianco, e tu co’cchì t’a vuo’ pijà?
Gli Stati Uniti sono forse ancora l’Atene dei giorni nostri: o almeno molti ritengono che tali siano. Se penso ad Harvard, a Princeton, a Yale, alle università della “Ivy League”, ho anch’io l’impressione che – se gli Stati Uniti non sono Atene – quanto meno l’Atene del Novecento si sia trovata negli States, in quelle privilegiate isole accademiche: come l’Atene del Quattrocento riposava tra i colli fiorentini e quella sette-ottocentesca tra le solenni architetture neoclassiche berlinesi e il commovente neogotico dei colleges di Cambridge.
Per la verità, i vecchi neocon e theocon d’un ventennio fa – ve le ricordate, le Teste d’Uovo della “Banda Bush”, i Cheney, i Rumsfeld, i Kagan? – pensavano piuttosto che gli USA fossero la nuova corazzata e muscolosa Roma, e l’Atene semmai l’intellettuale, decadente Europa. Ma l’avversaria tanto di Roma quanto di Atene – insomma, la novella Persia – con chi o che cosa doveva e magari ancora deve identificarsi?
Prima di rispondere a ciò, chiediamoci però comunque in che cosa consistesse (e consista) l’“atenicità” degli USA di oggi. Si parla di Atene, quindi per definizione di una potenza colta e pacifica (anche se l’Atene del V secolo a.C., ad esempio, non era affatto pacifica). Par di sentirla, quasi unanime, la risposta: nel fatto che gli USA, al pari dell’Atene del V secolo a.C., è o è stata a lungo il luogo ideale della “perfetta democrazia”, raggiungendo e magari superando il “modello britannico”.
Facile sarebbe replicare a ciò che l’antica Atene era una “perfetta democrazia” però con gli schiavi, e che esercitava un’egemonia durissima sui centri urbani minori ad essa collegati: e del resto l’Inghilterra è stata per secoli una “perfetta democrazia” che a lungo ha sostenuto e tutelato lo schiavismo e che poi si è sostenuta sulla base dei privilegi dei Lords prima, dello sfruttamento coloniale poi. Perché le vere e perfette democrazie, intese come equilibrio fra la libertà di ciascuno e il rispetto del parere di maggioranze correttamente espresse a governare e di minoranze tutelate nel suo diritto di correttamente controllare non esistono se non nel Regno di Utopia: e non c’è Platone, non c’è Machiavelli, non c’è Tocqueville che tengano.
Gli Stati Uniti d’America sono nati all’ombra di legittime istanze di libertà e d’indipendenza garantite da una saggia Carta Costituzionale ispirata ad Atene, alle antiche – e mitiche – Anglo-Saxon freedoms, alla Magna Charta Libertatum, allo Spirit of Mayflower e alla Glorious Revolution e passata attraverso una Guerra d’Indipendenza molto più fratricida di quanto non si usi e si ami dire, una Guerra di Secessione ch’è stata un macello e che si è tirata dietro una secolare scia di odio e di vendetta, una pervicace oligarchia di duri piantatori trasformatisi in ancor più duri imprenditori e speculatori, una realtà costituzionale Sacra e Inviolabile ma di continuo inadeguata e quindi emendabile all’infinito (i leggendari “emendamenti”), lo sfruttamento cinico e indiscriminato delle disgrazie europee trasformate in ondate emigratorie di sottoproletari, l’inflessibile egemonia sul Meridione del continente americano (leggi “Dichiarazione Monroe”), il genocidio quasi totale dei Native Americans, le ipocrisie e le contraddizioni che hanno per lungo tempo impedito la soluzione del “problema afroamericano” dando luogo a innumerevoli forme di razzismo (anche teorizzato e insegnato nelle università) e di apartheid, la politica di brutale egemonia sul Pacifico fino al 1945 e sullo stesso Atlantico da allora in poi. Certo che ci sono stati, e tanti, i Martin Luther King e perfino i Malcolm X, pace all’anima loro e gloria alla loro memoria: Ma non sono bastati.
E c’è dell’altro. Gli Stati Uniti d’America restano il paese nel quale le “differenze sociali”, che i libertarians proclamano fieri “naturali e sacrosante”, sono in realtà bieche, feroci ingiustizie; il paese tormentato da sacche di miseria e d’ignoranza uniche al mondo (visitatela, la deep America delle stars and stripes che sventolano sulle baracche); il paese dove il welfare state è rimasto globalmente a livelli dei quali si vergognerebbero l’Iraq e la Romania; il paese dell’impero anomico delle corporations delle vertiginose ricchezze e delle innominabili povertà benedette da miriadi di sètte gestite da fanatici American christians; il paese dov’è più facile al mondo tenere in casa un ben efficiente arsenale da guerra (da scaricare magari sui vicini, o nella scuola o nella sinagoga o nella moschea più prossime) e dove basta una vera o supposta infrazione stradale o una multa non pagata per perdere il diritto di voto – o perfino per venir ammazzato sul posto – se la tua pelle è un po’ troppo pigmentata. Gli Stati Uniti sono, ancora, un paese il parlamento del quale è strapieno di arcimiliardari, a cominciare da colui che si spera ancora per pochi giorni sta continuando a infestare la Casa Bianca. Ma un paese con un governo di nababbi e milioni di diseredati non è per caso molto simile a quella cosa che un politico di più o meno un secolo fa che divenne anche leader in Italia ed ebbe modo di combinare alcuni pasticci, ma che a volte colpiva anche lui nel segno, ebbe a definire – con espressione divenuta proverbiale – “plutocrazie”?
Chi possono essere dunque i nemici di questo paese, che si gioveranno della sua crisi? Chi le Sparte o le Persie di quest’Atene, se l’Atene è questa? Anzitutto, quelle potenze in ascesa che debbono il loro attuale successo – totale o parziale che sia – al loro impegno e alla loro energia, come la Cina e la Russia; quindi, i paesi che fino ad oggi sono rimasti vittime di un’egemonia mondiale che l’America dell’unilateralismo ha vessato dalla fine della “guerra fredda” ad oggi: come l’Iran, molti paesi del Medio e del Vicino Oriente, molti paesi dell’America latina e qualcuno del sudest asiatico; infine la stessa Europa, che ha tutto l’interesse a sperare nella piena istaurazione di un multilateralismo effettivo sul piano mondiale, che ponga fine all’egemonia del governo statunitense sull’Organizzazione delle Nazioni Unite e al semicolonialismo politico-militare ch’esso esercita sull’Europa e sul Mediterraneo con l’alibi della NATO. La pesantezza con cui Trump intendeva imporre ai suoi “alleati” la sua politica fatta di embargos e che è finita in un grottesco bluff (che si spera non resterà comunque impunito: anche perché è costato alcune vite umane) è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: ma anche la cartina di tornasole.
E vogliamo sperare che questa ridicola, tragicomica performance sia almeno l’avvio di un cambio di direzione, che consenta finalmente all’America di Biden di riprendere con maggior sicurezza il cammino già intrapreso (quanto meno nelle intenzioni) dalla presidenza Obama sulla via di una ridefinizione multilateralista dell’equilibrio internazionale: che non sarà affatto un’umiliazione e un ridimensionamento degli States, bensì al contrario l’apertura della speranza che essi possano tornare a collocarsi nel quadro di un processo di civilizzazione generale che possa correggere quelli che finora sono stati i guasti delle cosiddetta globalizzazione.
L’America buona, l’America seria e operosa e pensosa della pace e della giustizia, esiste. Auguriamoci solo che all’imperialismo superbo e inesorabile del “sistema industriale-militare” già denunciato dal presidente Eisenhower nel 1960 alla fine del suo mandato, a quello isterico dei Bush e dei “cattivi profeti” del “Nuovo Secolo Americano” e a quello demenziale e selvaggio di Trump, entrambi di segno repubblicano, non torni a riemergere e a prevalere l’imperialismo “umanitario” democratico, quello fallimentare dei Wilson, dei Roosevelt, dei Kennedy e delle infauste Mistress Clinton e Albright che conosciamo già. Purtroppo abbiamo viceversa l’impressione che la stella nascente dell’universo politico femminile statunitense, la signora Kamala Harris vicepresidente di Biden, sia dell’identica stoffa delle altre due Dame: e che messe insieme le tre signore ricordino un po’ sinistramente le Moire. Ci avete fatto caso – come avrebbe detto il buon Aldo Fabrizi – che l’ingresso degli USA nelle due guerre mondiali si sia per due volte verificato in tempi di governo democratico, e che la terza guerra mondiale l’abbiamo rischiata sul serio con il democratico e charming JFK?
Mesi fa, da questa stessa sede, risposi a chi mi chiedeva chi avrebbe vinto le elezioni formulando una facile profezia: avrebbe vinto il peggiore. Nel senso che ciascuna delle due probabilità aveva in sé, potenzialmente, una strada che portava alla rovina: restava solo da capire quale avremmo dovuto affrontare. Ora lo sappiamo. E i paesi aderenti alla NATO se ne accorgeranno presto.