Minima Cardiniana 311/1

Domenica 24 gennaio 2021, Sacra Famiglia

IN MEMORIAM
STEFANO MALATESTA
(Roma, 5 aprile 1940 – Roma, 14 agosto 2020)
Me lo avevano detto, e ci credevo anche. Ma non avrei mai immaginato che fosse così. Quando te ne vai, non è che te ne vai tu punto e basta. Questa sarebbe ordinaria amministrazione. È che a un tratto, quasi di punto in bianco, è il tuo mondo che comincia a franare.
Non deve sembrarvi disumano o ridicolo, vi assicuro che non lo è, se metto insieme nomi tanto diversi, e nel mezzo ci piazzo anche un gatto. Ma il mio mondo è cominciato a franare presto, quando nel 1966 se ne andò il mio Maestro spirituale Attilio Mordini; poi più tardi scomparve, nel 1986, il mio Maestro scientifico Ernesto Sestan; e ancora precocemente, nel 1980, il mio vero primo e grande Maestro, mio Padre, nobilissimo artigiano fiorentino; quindi nel giro di cinque o sei anni, fra la fine del Novecento e l’inizio di questo secolo, se ne sono andati uno dopo l’altro tre fra i più grandi amici che avevo: prima il gatto Cagliostro, che avevo trovato smagrito e orfanello in un cespuglio della Valdelsa – sporco, spaurito, due occhioni d’oro in un muso nero da diavoletto feroce – e che mi è stato compagno fedele e affettuoso fra 1983 e 1998, in uno dei momenti più difficili della mia vita; se n’è andato da solo, nell’inverno del ’98, e io non ero là a fargli compagnia; eppure quando mi appare in sogno è come se mi avesse perdonato. Poi Marco Tangheroni, amico e fratello di una vita, sei anni più giovane di me e crudelmente ammalato da quando aveva vent’anni, e che nonostante ciò aveva avuto la forza di diventare uno dei migliori storici medievisti d’Europa. Infine Michele Piccirillo, francescano, archeologo, una forza della natura, un coraggio da leone, uno spirito d’acciaio: Gerusalemme non è più la stessa da quando se n’è andato. E un’infinità di altri amici, uomini e donne, celebri e anonimi, e mio nipote Enrico che aveva vent’anni ed è rimasto ucciso in un incidente d’auto. E poi, ebbene sì, gli amici di una vita, quelli celebri, i “fiori all’occhiello”, quelli che per anni avevo ammirato al cinema e in TV e che poi, grazie a un lungo stage televisivo e cinematografico fra 1994 e 2002, avevo fatto in tempo a conoscere sul serio, ed eravamo diventati amici: Gillo Pontecorvo, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Gigi Proietti… E i grandi Maestri, che amavano finger di credermi un collega: Indro Montanelli, Umberto Eco, Fosco Maraini, Tiziano Terzani, Giulietto Chiesa. Certo, sono stato fortunato ad averli conosciuti, ad essere stato loro amico: eppure adesso tutto ciò non fa che aumentare la mia solitudine.
Stefano Malatesta l’avevo conosciuto nel 1981, quando s’interessò al Premio Viareggio Saggistica, che mi era stato scippato all’ultimo istante per biechi motivi politici. Aveva ricostruito la faccenda, aveva smascherato i responsabili, aveva scoperto le nostre infinite affinità elettive. Era un uomo libero e coraggioso, nemico dei conformismi, degli schemi, delle vigliaccherie: lui, a modo suo di iper-super-estremissima sinistra, che proclamava “Sono figlio di un Moschettiere del Duce e me ne vanto”.
Dopo essersi laureato in Scienze politiche si era dedicato al giornalismo come cronista di nera, documentarista e inviato di guerra, seguendo tra l’altro il golpe di Pinochet in Cile per la rivista “Panorama”, le vicende in Nicaragua e la guerra Iran-Iraq per la “Repubblica”. Autore di numerosi libri di viaggi in luoghi difficili e periferici quali l’Asia Centrale, il Sahara, la Terra del Fuoco, popolati da personaggi marginali, seppe fornire di molti di loro una personalissima testimonianza, animata da uno sguardo sensibile e attento che scava oltre la superficie. Ne sapeva qualcosa la principessa Vittoria Alliata, “Vicky”, traduttrice di Tolkien e che aveva osato sfidare la mafia di Bagheria, e della quale lui diceva: “Vicky è l’uomo che avrei sempre voluto essere”. Tra le sue opere principali occorre citare Il cammello battriano (2002), Il napoletano che domò gli afghani (2002), Il grande mare di sabbia (2006), Quel treno per Baghdad (2013), L’uomo dalla voce tonante (2014), Quando Roma era un paradiso (2015) e La vanità della cavalleria e altre storie di guerra (2017). Direttore artistico del Festival della letteratura di viaggio e della collana di letteratura di viaggio “Il cammello battriano” per la casa editrice Neri Pozza, vincitore di numerosi premi di giornalismo (tra gli altri i premi Comisso, Barzini, Chatwin e Kapuscinki), Malatesta affiancava felicemente a quella letteraria l’attività di pittore, esponendo le sue opere in varie mostre personali (Femmine e paesaggi, Galleria Nova di Roma, 2007; I collage, Centro Culturale Cappella Orsini di Roma, 2015). L’ultima volta che l’ho visto, anni fa, era già in carrozzella: lucidissimo, riusciva a parlare con difficoltà ma volle farsi un giro per Firenze, pretese di cenare in una celebre trattoria per il rito di una monumentale bistecca della quale ebbe eroicamente ragione, insisté per fiondarsi in una nota gelateria presso il Ponte a Santa Trinita dove si sbrodolò uno splendido completo di seta candida con un gelato fragola e pistacchio e fece un’audace corte a tre o quattro studentesse americane che bevevano ammirate il suo splendido inglese deformato dalla malattia: riuscì visibilmente a sedurle senza nemmeno toccarle con un dito.
Questo era Stefano Malatesta. Avrei dovuto andarlo a trovare in Sicilia, all’inizio dell’estate: poi, in una tregua del Covid-19, fui costretto a tornare a Parigi per un paio di discussioni di tesi di laurea. Se n’è andato il 14 agosto scorso: come ho fatto per Cagliostro, così l’ho lasciato partire da solo e non me lo perdonerò mai. Ora mi aspetta, con il gatto Cagliostro acciambellato sulle ginocchia: e senza dubbio dicono male di me.