Domenica 24 gennaio 2021, Sacra Famiglia
UN GRANDE CENTENARIO, UN NOBILISSIMO PAZZO DIMENTICATO
LUIGI COPERTINO
IL CENTENARIO DEL PCI E LA STORIA DI UN GENEROSO GUASTAFESTE
Siamo in piena festa per le celebrazioni del centenario della nascita del PCd’I da una costola del PSI nella scissione di Livorno del 21 gennaio 1921. Dal momento che di solito le celebrazioni ufficiali sono soltanto un’orgia di conformismo e di strumentalizzazione della storia ad usum delphini, ossia per consolidare il potere, chiamiamo in causa, nell’occasione, un grande dimenticato, un vero e proprio guastafeste.
Si tratta di Nicolino Bombacci che lo scrivente ritiene uno dei pochi comunisti mossi da un ideale, quanto volete utopico ma sinceramente vissuto, e non da interessi di potere o da visioni materialiste, ed alla fine nichiliste, del socialismo (consentitemi di annoverare in questa eletta ma perdente e nobile schiera anche mio nonno materno che era minatore e ci credeva sul serio, idealisticamente).
In quel 1921, cento anni fa, Nicolino Bombacci è stato cofondatore, insieme ad Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga, del PCd’I. Nicolino, tuttavia, inseguiva un suo comunismo tutto ascetismo, giustizia ed eroismo, molto diverso da quello dei compagni marxisti. In fondo si potrebbe anche dubitare che fosse marxista, o perlomeno si potrebbe dire che del marxismo egli aveva una lettura piuttosto idealista (non fu il solo, anche Giovanni Gentile, Che Guevara e Fidel Castro interpetrarono a modo loro Marx cercando di depurarlo dalla dialettica materialista).
Come è noto, Bombacci finì per riavvicinarsi al suo vecchio amico di lotte e, prima del 1914, leader della corrente massimalista del Psi, Benito Mussolini, fino a seguirlo a Salò – quando lo raggiunse Nicolino, per giustificare la sua scelta, disse a Benito “ora che ti sei liberato dai condizionamenti della borghesia, possiamo finalmente costruire il socialismo” – per morire fucilato insieme a lui. Le sue ultime parole, rivolte al plotone di esecuzione, furono “Viva il socialismo!”.
Poco prima della marcia su Roma circolava una canzonaccia degli squadristi che recitava sull’aria de La Cucaracha: “Con la barba di Bombacci ci farem gli spazzolini – per pulire gli stivali a Benito Mussolini”. Quest’ultimo invece, durante il ventennio, protesse ed aiutò Bombacci (d’altro canto Mussolini aiutò molti altri suoi vecchi compagni, come ad esempio Pietro Nenni al quale salvò la vita nel 1944) senza mai chiedergli di abiure il socialismo che Mussolini, del resto, sapeva essere ancora anche suo. Mussolini, infatti, era questo: un grande cinico, un abile e machiavellico stratega, un opportunista politico di gran fiuto ma anche un uomo capace di grandi ideali e soprattutto di grandi atti di generosità che lasciavano trasparire un cuore non insensibile all’amore per il prossimo, eredità dall’insegnamento religioso di sua madre, Rosa Maltoni, fervente cattolica, mai del tutto spentosi in lui (la questione sulla effettiva conversione in extremis del duce è da anni dibattuta dagli storici).
Quando se lo trovò di fronte a Salò, probabilmente Mussolini non fu sorpreso dalla scelta del suo amico Bombacci. In una delle interviste a Yvon De Begnac, rilasciate durante gli anni dal 1934 al 1943 (ora in Taccuini mussoliniani, il Mulino), egli non a caso fece rilevare al suo interlocutore che: “i comunisti sono politicamente miei figli”. Oggi un tale giudizio è stato confermato dalla critica storiografica. Emilio Gentile, il continuatore dell’opera di indagine storica di Renzo De Felice sul fascismo, ritiene, a ragione, che a trasformare il Psi da organizzazione di dottrinari e socialisti della cattedra, ossia riformisti, in un partito rivoluzionario e massimalista fu proprio Benito Mussolini. Nel 1921 il Psi, pur sostanzialmente accettando la prospettiva rivoluzionaria leninista, trionfante a Mosca, non aveva aderito all’Internazionale comunista solo perché si rifiutò di espellere, secondo il sopraggiunto ordine moscovita, i riformisti di Filippo Turati (il Psi del primo dopoguerra era guidato da Giacinto Menotti Serrati, capo della frazione dei “comunisti unitari”, il quale nel 1924 avrebbe preso la tessera del Partito comunista). Da quel Psi massimalista si staccò la frazione comunista quasi solo per questioni di forma piuttosto che di sostanza. Sicché quando Mussolini chiamava “figli” i comunisti scissionisti diceva la verità.
Nicolino Bombacci nel secondo dopoguerra fu dimenticato da tutti. Su di lui fu pronunciata la damnatio memoriae. I comunisti, poi, lo consideravano un traditore. Invece egli era un puro, un idealista. La storiografia lo ha di recente riscoperto modificando il giudizio negativo calato su di lui. Ciononostante l’altra sera, 21 gennaio 2021, nel talk show televisivo di Bruno Vespa, presenti Paolo Mieli e Massimo D’Alema, hanno trasmesso un servizio sulla scissione di Livorno nel quale erano tutti citati, da Gramsci a Bordiga, da Menotti Serrati a Turati, ma naturalmente neanche una parola sul povero Bombacci. Troppo scomoda la sua figura che ricorda, con la sua stessa vicenda, i legami culturalmente profondi tra socialismo, comunismo e fascismo. Bombacci con la sua stessa vita ha testimoniato che sotto ogni autentica camicia nera batteva un cuore profondamente rosso. Un vero e proprio guastafeste.
E siccome anche a me piace guastare la festa, in corso, dell’ipocrisia conformistica, vengo a proporvi, qui di seguito, prima lo stralcio di un mio articolo, nel quale, ho dedicato un apposito paragrafo a Nicolino Bombacci, e poi un ben fatto e breve documentario audio, accessibile dal link postato, per la voce del noto cantante “dannunziano” Enrico Ruggeri, su questo, a suo modo, asceta dello Spirito.
NICOLINO BOMBACCI
Alla stesura del Manifesto di Verona cooperò con entusiasmo anche Nicolino Bombacci, “comunista in camicia nera”, il quale già co-fondatore, con Antonio Gramsci ed Amadeo Bordiga, del Partito Comunista Italiano, dopo aver conosciuto direttamente in Russia l’esperimento sovietico, comprese che il socialismo, quale istanza etica di giustizia al quale da sempre idealisticamente aspirava, non era affatto quello, totalitario ed antiumano, che l’Urss per tale propagandava.
Rimasto pertanto in Italia, nonostante l’instaurarsi della dittatura fascista, e trovatosi in gravi difficoltà economiche, con in più un figlio gravemente malato, fu aiutato, segretamente, da Mussolini (e non fu il suo l’unico caso di antifascisti aiutati o salvati dal duce), che gli trovò un impiego presso un ente cinematografico, e da altri gerarchi della sinistra fascista come Leandro Arpinati, Dino Grandi ed Edmondo Rossoni. Bombacci, che sin da subito aveva intuito l’inespressa potenzialità di socialità anticapitalista del fascismo, si avvicinò al regime fino ad aderirvi intellettualmente – mai prese anche per opposizione interna la tessera del partito fascista – soprattutto nella speranza di uno sviluppo socialmente più avanzato del corporativismo: una speranza, questa, che molti, in Italia ed all’estero, coltivavano.
Sicché, quando nel 1943, ci fu la rottura tra le forze conservatrici e monarchiche ed il fascismo, che tornò alle sue origini repubblicane, socialiste e sindacaliste, Bombacci si presentò a Mussolini con l’intenzione di contribuire, finalmente, alla “realizzazione del socialismo”: così egli disse al duce mantenendo fede alla sua promessa tanto è vero che, morendo fucilato, il 28 aprile 1945, insieme agli altri gerarchi catturati a Dongo, invece di gridare “viva il fascismo” o “viva Mussolini” o “viva l’Italia”, urlò, un attimo prima di essere ucciso dalla scarica di fucileria, il suo “viva il socialismo”.
Ai lavoratori, negli anni della Rsi, si rivolgeva in termini da lui sinceramente sentiti e condivisi come questi: “il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito. Ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario” (cfr. Rinascita, 28 aprile 2014).
Alle camice nere, invece, il 15 marzo 1945, si rivolgeva così, chiamandole “compagni” e non “camerati”: “Compagni! Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre. Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell’inganno”.
Nicolino Bombacci spese la sua vita dando tutto per la causa dei lavoratori e facendosi “francescanamente” umile tra gli umili, orgoglioso della dignità delle sue povere origini. Il 21 dicembre 1944, in una riunione per spiegare agli operai le nuove norme sulla socializzazione delle imprese così li ammoniva: “Socializzazione è altruismo, è dignità di lavoro, è benessere, è dirittura politica e morale del lavoratore, purché questi sia onestamente attivo, sollecito nel dovere verso la collettività, doveri consorziati al diritto acquisito, scevro da scorie borghesi di egoismi individuali … Se sarete egoisti… sarete peggio dei vostri padroni”.
C’è qualcosa di cristianamente eroico e generoso in queste sue convinzioni, che ci rendono cara la figura di questo galantuomo e che mostrano non un approccio materialistico ma, appunto, spirituale ed etico al problema della giustizia sociale, la quale sembra in lui diventare quasi un riflesso dell’amore agapico e comunitario: “Se sarete egoisti sarete peggio dei padroni!”. Ma il buon Nicolino Bombacci – questo è l’errore di tutti i socialisti etici, cristiani o meno – non teneva in debito conto proprio quanto pur ammoniva ai suoi operai: il povero, l’operaio, il lavoratore possono essere ben peggiori dei loro padroni perché non sono, per mera virtù sociologica o per mera appartenenza di classe, di per sé “altruisti” e disposti al sacrifico comunitario.
Anche il povero, l’operaio, il lavoratore è soggetto alla ferita ontologica che dai tempi primordiali ha segnato la natura umana deviandola dall’Amore Infinito, al Quale essa era aperta per originaria vocazione creaturale, verso l’egoismo autoreferenziale e solipsista. Ed anche se tale ferita non ha del tutto corrotto l’uomo – si tratta appunto di “ferita” e non di “corruzione” assoluta, come invece hanno ritenuto, erroneamente, Lutero ed Hobbes – tuttavia essa continua ad avere il suo peso ed a produrre i suoi effetti anche nell’ambito politico e sociale, nelle relazioni tra gli uomini.
Il paolino “uomo nuovo” che deve sostituire l’”uomo vecchio” può nascere solo dalla Grazia che trasforma in interiore homine il cuore umano. Le ideologie hanno creduto di poter trasformare la natura umana senza alcun intervento soprannaturale e sono naufragate nell’eterogenesi dei fini, spesso in modo tragico. Per questo, poi, molti utopisti e rivoluzionari hanno finito per rovesciare le proprie posizioni in un disincantato conservatorismo dai tratti sovente machiavellici. Tuttavia se avessero guardato alla storia della santità – un capitolo della storia trascurato dagli stessi storici o, se pur da essi trattato, preso in considerazione con approcci esclusivamente sociologici che impediscono, se assolutizzati, la comprensione dell’oggetto di studio – avrebbero potuto intuire che, sì!, esiste la possibilità per una trasformazione dell’uomo ma che tale possibilità è legata al suo abbandono fiducioso alla Trascendenza kenotica, che non resta lontana dall’uomo, chiusa nella Sua Maestosità, ma si piega, senza perdere la Sua Maestà Divina, sulle sue debolezze e miserie per innalzarlo nell’Amore.
Il buon Nicolino Bombacci scontava, come tutti i socialisti etici, una troppo ingenua e pelagiana sottovalutazione del peccato originale. La mattina del 29 aprile 1945 il suo corpo fu appeso per i piedi al distributore di benzina di Piazzale Loreto, a Milano, insieme al suo amico Benito Mussolini.
Eventi e uomini di un altro tempo ma che testimoniano quanto dicevamo: il “socialismo” – noi preferiremmo il termine “comunitarismo” – non ha a che fare con il materialismo prometeico marxista ma esprime una istanza Etica di Giustizia antica quanto l’umanità.
Infatti, benché in forme variamente declinate e – cosa assolutamente da non sottovalutare da un punto di vista cattolico – filosoficamente fondate su prospettive non avvicinabili a quelle cristiane, è tuttavia innegabile una comune convergenza, sul piano della concezione sociale tra il Cattolicesimo, con la sua dimensione sociale e comunitaria, ed un certo tipo di “socialismo non marxista” alla Proudhon, alla Sorel, alla Panunzio. Resta però, come detto, il punto non seriamente eludibile, che segna uno spartiacque insormontabile senza abbandono da parte non cattolica dell’immanentismo, del diverso fondamento teologico e filosofico posto a presupposto della politica sociale e sul quale nessun cattolico può cedere.
(tratto da Luigi Copertino Per una teologia politica su Cattolicesimo, socialismo ed ordoliberismo, in www.maurizioblondet.it 25.07.2015)
NICOLA BOMBACCI
Romagnolo e socialista come l’amico Benito Mussolini, fervente leninista e fondatore del Partito Comunista d’Italia, poi mussoliniano durante la Repubblica di Salò, rivoluzionario fino all’ultimo istante della sua vita, Nicola Bombacci è una delle figure politiche e umane più controverse della storia d’Italia del primo Novecento, da alcuni considerato un traditore degli ideali comunisti, da altri un convertito al fascismo per comodo, da pochissimi quello che in realtà probabilmente era, un uomo libero e privo di preconcetti. Capace di compiere un itinerario unico, dal Comunismo al Fascismo, sempre al motto di “Viva il Socialismo!”, è stato un dissidente privo di qualsiasi gabbia mentale o pregiudizio, la cui strada politica parte con l’amico di gioventù, il futuro Duce, per poi dividersi da lui durante i primi anni della salita al potere del Fascismo ed infine ricongiungersi con lui durante i diciannove mesi della Repubblica Sociale Italiana, fino ad essere al suo fianco nell’atto finale, il più duro, il più cruento, una delle pagine più sanguinose della nostra vicenda storico-politica: l’uccisione di Mussolini e dei suoi più fidi sostenitori. Il suo cadavere, appeso a Piazzale Loreto a testa in giù il 29 aprile del 1945 assieme al Duce e a Claretta Petacci, a Pavolini e Starace è la testimonianza di una scelta di vita fuori dagli schemi, portata avanti nonostante tutto, fino alle più estreme conseguenze.
Concordo molto spesso con l’amico Luigi Copertino, anche se non sempre del tutto. In questo caso, debbo solo eccepire – e potrei qui portare il peso della mia testimonianza personale e familiare – che a credere sinceramente e in buonafede nel comunismo non furono in pochi: né al tempo di Bombacci, né dopo. La realizzazione politica del comunismo, tentata fra 1917 e 1990, è costata lacrime e sangue: ciò non toglie che si trattò di un nobilissimo ideale e che se ci furono dei profittatori e degli opportunisti nelle sue file essi sono da ricercarsi soprattutto, ohimè, fra gli intellettuali. Chi scrive, nato e cresciuto in una famiglia artigiana e operaia del rosso quartiere di San Frediano della rossa città di Firenze tra Anni Quaranta e Anni Cinquanta, di comunisti – lui, che tredicenne aveva scelto, “pecora nera” del quartiere, la militanza nel Movimento Sociale Italiano – ne ha conosciuti tanti: ed erano per la stragrande maggioranza uomini, donne, ragazzi e ragazze buoni e onesti. Con un solo punto oscuro, che molti di loro lamentavano senza essere riusciti mai a capirlo fino in fondo: perché il comunismo doveva essere nemico della Chiesa, e la Chiesa del comunismo. Io, che a differenza di loro studiavo, provavo a spiegarlo: senza riuscire mai a convincere né loro, né me stesso. So come ciò è avvenuto, sotto il profilo storico: continuo a ritenerlo un non-senso fatalmente inevitabile, anche per colpa di molti.
Verso il 1950 doña Eva Duarte de Perón, che non sapeva ancora che di lì a poco una feroce malattia l’avrebbe rapita poco più che trentenne, fece un viaggio in Europa che avrebbe dovuto essere trionfale e che in parte lo fu: venne anche in Italia dove un imperturbabile Pio XII, insensibile al polverone di piazza suscitato dalle sinistre contro “quella puttana fascista moglie di un tiranno”, la ricevette con inappuntabile e paterna cortesia; ed ebbe una serie di memorabili bagni di folla nella Spagna franchista, grata all’Argentina che leniva con il suo grano e la sua carne il disagio del blocco economico che gli americani (i quali dal canto loro trattavano segretamente con Franco per l’installazione nella penisola iberica della basi NATO) imponevano all’Europa per far sottostare il paese iberico. Durante quella visita, doña Eva venne invitata naturalmente dalla radio di stato franchista a far sentire spesso al sua voce; e in particolare accettò di prender parte a un’emissione della Sección Feminina della Falange, ancora partito unico in Spagna, ch’era diretta con energia e abilità da una straordinaria figura di pasionaria e femminista à sa manière, doña Pilar Primo de Rivera, sorella di José Antonio fondatore di Falange Española e fucilato nel novembre del 1936 nel carcere di Alicante soprattutto per volontà del Partito Comunista Spagnolo nonostante fosse noto che non aveva partecipato all’alzamiento nazionalista e che non lo approvava del tutto. Doña Pilar detestava Franco, che accusava di non aver mosso un dito (e pare proprio che avrebbe potuto…) per salvare suo fratello dal plotone di esecuzione, e il Caudillo avrebbe tanto voluto metterla in condizioni di non nuocere: ma essa era una specie d’intoccabile mostro sacro di quel che ancora rimaneva – non poco, ai primi Anni Cinquanta – del Movimento Falangista e bisognava sopportarla. Ebbene, Eva Perón, che tutta la Spagna idolatrava per la sua bellezza e per le tonnellate di grano e di carne che portava in dono, si espresse alla radio falangista con la massima libertà: e disse fra l’altro a proposito del comunismo, dopo aver premesso di detestarne i crimini: “Se non fossi cattolica, sarei comunista”. Non era la sola, a pensarla così: e il cosiddetto cattocomunismo non c’entrava per niente.