Domenica 7 febbraio 2021
Domenica di Sessuagesima, San Teodoro
GOLPE IN BIRMANIA. UNA VOCE FUORI DAL CORO
LUIGI G. DE ANNA
COLPI DI STATO E COLPI DI MANO
Il Myanmar, già Burma, già Birmania, è di nuovo sulla prima pagina dei media occidentali. I militari hanno messo agli arresti domiciliari la leader della National League for Democracy, il partito che ha avuto la maggioranza assoluta alle elezioni del novembre scorso, il contestato premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Il potere passa nelle mani del comandante in capo del Tatamadaw, il generale Min Aung Hlaing, carica che detiene dal 2011, accusato oggi di ambizioni presidenziali. Gli Stati Uniti del neo-presidente Biden minacciano sanzioni, a testimonianza di come ben poco cambierà la politica estera americana. Più prudentemente il governo della Thailandia, nato da elezioni (libere e democratiche) vinte dal partito dei generali, ha dichiarato che si tratta di un fatto interno burmese, e la stessa opinione è condivisa dagli altri Paesi del Sud-est asiatico, con l’eccezione di Singapore, che però non ha una tradizione di interventi militari.
Una prima considerazione: che senso ha la parola “democrazia” in questa parte dell’Asia? Certamente non lo stesso che ha da noi: la Thailandia, tornata alla democrazia parlamentare dopo alcuni anni di giunta militare, ha sì un sistema partitico, ma lo scollamento tra i dirigenti e i cittadini è notevole. Nelle campagne, che rappresentano ancora il tessuto connettivo del Paese, i voti sono raccolti e gestiti da quei personaggi che localmente amministrano da sempre il potere. Una dimensione della politica che si adatta a quella della società rurale, dove il rispetto e l’autorità dei maggiorenti o dei familiari più anziani sono sempre stati alla base del vivere civile, sia tra la popolazione thai che tra quelle di altre etnie, presso le quali il sistema è ancora più radicato. La democrazia parlamentare in senso occidentale non esiste praticamente nel Sud-est asiatico, estranea non solo storicamente, ma anche ideologicamente. Una parte consistente della penisola indocinese è infatti ufficialmente ancora sotto il comunismo, che governa in Vietnam e in Laos e che ha in Cambogia un regime autoritario basato sulla persona di Hun Sen, un ex Khmer rouge. In Thailandia il movimento comunista non è più radicato dalla fine degli anni Settanta (rimandiamo qui per brevità a Chris Baker-Pasuk Phongpaichit, A History of Thailand, Cambridge University Press 2015). Le Filippine sono governate dalla salda mano di Rodrigo Duerte, che gode del favore dei militari. In Indonesia, la forte componente religiose islamica tiene lontana la tentazione comunista. In sostanza: nel Sud-est asiatico abbiamo due elementi politico-ideologici fondamentali: il comunismo nella versione “moderata” (cioè non più quello della lotta armata per l’indipendenza) e l’autoritarismo militare. Apparentemente si tratta di due tendenze contrapposte, secondo gli schemi occidentali tradizionali, ma in realtà non è così. Ambedue, comunisti e militari, tendono, all’interno, a sviluppare un certo benessere economico, conciliando statalismo e liberismo (con ottimi risultati fino all’arrivo della pandemia) e all’esterno a mantenere l’indipendenza dalle superpotenze, la Cina e gli Stati Uniti. La Cina ha attuato enormi investimenti, non sempre nel rispetto dell’ambiente, come succede con le dighe sul Mekong, e rappresenta con i suoi milioni di turisti un cespite fondamentale per l’economia indocinese e thailandese (ma anche qui non senza danni, causati dalla proliferazione dei casinò e della prostituzione). I problemi legati ai contrasti che si verificano nel Mar della Cina tra Vietnam, Filippine, Thailandia e Cina sono ben noti. E qui entrano in gioco gli Stati Uniti. Sarebbe naïf chiedersi che cosa ci faccia la flotta USA da quelle parti, ma da sempre i presidenti americani, dopo aver messo piede in Giappone, nelle Filippine e in Corea, guardano sempre più ad ovest e più a sud. Una volta l’intervento americano si basava sulla teoria del “domino”, che secondo Kennedy avrebbe causato la diffusione del comunismo in quella parte dell’Asia, di conseguenza iniziò l’intervento armato in Indocina, con il risultato che conosciamo. Non ci fu alcun “domino”, e il comunismo si affermò in Vietnam, Laos e Cambogia senza estendersi a tutta l’area ed in ogni caso, dopo la caduta dei Khmer rossi, si trasformò in un sistema molto simile a quello “moderato” della Cina. Tradizionalmente, soprattutto Vietnam e Thailandia si sono preoccupati di non far estendere troppo l’influenza cinese (avevano le loro buone giustificazioni storiche per farlo), ma non desiderano neppure dare troppo spazio all’influenza americana. Perfino la Thailandia dei generali, che aveva collaborato con gli Stati Uniti durante gli anni sessanta e che oggi tiene esercitazioni ricorrenti con l’esercito USA (ma compra i nuovi sottomarini dalla Cina), si è preoccupata di limitare la presenza invasiva degli americani. Questa non si manifesta solo in campo economico, soprattutto in quanto il baht è legato al dollaro, ma anche in quello politico. E qui torniamo al problema della democrazia in versione asiatica. I movimenti di protesta che agitano Hong Kong, Bangkok e forse Yangoon domani, sono il cavallo di Troia utilizzato dagli Stati Uniti per entrare nel sistema politico asiatico. Non a caso a Hong Kong gli studenti scesi nelle strade sventolavano bandiere a stelle e strisce o l’Union Jack (politicamente identiche) e non a caso gli studenti thailandesi e birmani della protesta si nutrono dei social media così profondamente americanizzati. Insomma, la democrazia conclamata in questi Paesi diventa il modo più semplice ed efficace per gli Stati Uniti di penetrarvi. Lo scopo è sempre il medesimo: la strategia del dominio mondiale e la necessità conseguente di non cedere terreno in questa parte del mondo alla Cina. Lo faceva Trump, continuerà a farlo Biden.
Abito per lunghi periodi in Thailandia, la frequentavo all’epoca della giunta militare. Non ho mai percepito di vivere sotto una dittatura. Lo stesso si avverte negli altri paesi, dal Myanmar al Vietnam, al Laos e alla Cambogia. La classe dirigente, militare o comunista o para-comunista, nutre un profondo rispetto per le tradizioni della propria cultura. L’occidentalismo porta disvalori ad essa opposti. Lo disse già nel 1934 George Orwell in Burmese days. E il pericolo americano lo denunciò Graham Greene in The Quiet American nel 1955. Ed avevano proprio ragione.