Minima Cardiniana 313/8

Domenica 7 febbraio 2021
Domenica di Sessuagesima, San Teodoro

LIBRI LIBRI LIBRI
DANTE. LA SFIDA DEL CENTENARIO
Ormai il diluvio è cominciato. Esce di tutto. Non so se ne vedremo delle belle o delle brutte. O magari delle bruttissime. Certo è che il 2021, settimo centenario della morte dell’Altissimo Poeta, si annunzia denso di celebrazioni.
Ed ecco puntualmente Alessandro Barbero, con un denso volume dal titolo eloquente e perentorio, Dante (Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 361, euri 20). Bisogna dire che ce lo aspettavamo. Ma bisogna anche subito dopo aggiungere che lo storico torinese, ch’è ormai anche una star della TV – né ci stupirebbe se prima o poi si affacciasse perfino sul grande schermo – non manca mai di stupirci. Una quantità impressionante di libri pubblicati – e spesso, da Lepanto a Costantino a Waterloo, “grandi” libri (grandi in tutti i sensi) – affiancati da una serrata attività anche di romanziere, e di successo: il suo Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo (1996) gli valse lo Strega quando aveva poco più di trent’anni. Non proprio enfant prodige come Mozart, ma poco ci manca. E, per gli standards delle carriere dei romanzieri e soprattutto degli accademici di questi tempi, una precocità impressionante.
Il fatto che come studioso egli possa trascorrere tranquillamente dall’antichità romana fino alla battaglia di Caporetto e all’impresa fiumana del D’Annunzio non deve trarre in inganno. Barbero, che crede profondamente nella buona volgarizzazione anche come servizio civico e ne ha fornito prove molteplici, è un analista attento e un cultore erudito delle ricerche di prima mano: lo ha dimostrato in massicce ricerche, come quella su Il ducato di Savoia. Questo suo Dante però, al pari di Carlo Magno. Un padre dell’Europa, è solo la seconda volta nella quale egli si cimenta in un “genere” storiografico quale la biografia. E “biografia”, peraltro, pensata e redatta secondo un’ottica speciale e alla luce di un rigoroso impegno metodologico. Non solo e non tanto “storia di un uomo”, sia pure di un protagonista; e tanto meno histoire d’un’âme, bensì storia delle vicende di un protagonista nel prisma e nel contesto del suo tempo: storia di un’epoca della quale tutti gli aspetti, dall’istituzionale all’economico al quotidiano all’intimo, vengono attraversati.
E questo, bisogna dirlo – e il dirlo fa piacere –, è un bel libro: scritto con impegno ma anche con ben visibile divertimento su un argomento tanto più difficile quanto più la vita del poeta fiorentino è stata arata per ogni dove e sul suo conto sono state redatte biblioteche intere. Un libro che riesce a non intimidire il lettore magari poco uso ai grossi temi scritti da accademici: perché è concepito in stile accattivante, evita le note (ma è dotato di una robusta bibliografia), adotta un tipo di discorso semplice e diretto.
Eppure, il Dante-enigma sussiste: qualcosa che, nella sua insondabile grandezza, ci sfugge. E ardua è la materia del suo capolavoro. Di un grande santo dell’XI secolo, che gli italiani chiamano “d’Aosta”, i francesi “di Bec” e gli inglesi “di Canterbury” un agiografo racconta che da bambino fosse convinto che, arrampicandosi sulle cime delle sue Alpi natìe, si potesse da lì accedere alla dimora di Dio; e che una volta, bambino, sognò di essere arrivato fino ai Suoi piedi, e aver mangiato il Suo pane. La Divina Commedia, si sa, è presentata nel I canto dell’inferno come qualcosa che avrebbe potuto essere un sogno o una visione.
Ma, accanto alla struttura del sogno – rigorosamente formalizzato secondo i cànoni della teologia scolastica – il poema presenta quella del viaggio, ch’è metafora della vita, e al tempo stesso dell’aventure cavalleresca come ricerca del senso dell’esistere. E le vicende della massima fra le molte opere di questo poeta e studioso dalla profondissima mente filosofica sono a loro volta sorprendenti: famosissima al suo tempo – al punto che sembra egli la sentisse cantare, rabberciata e storpiata, dalla gente di strada del suo tempo: e non ne fosse per nulla felice –, quindi perduta e cercata e ritrovata, poi fatta oggetto d’un lungo silenzio e infine posta al tempo stesso alla base d’un’identità nazionale e al culmine d’un esemplare modello. “Commedia”, certo, nel senso medievale di un’opera che ha triste e cupo inizio e sfolgorante fine; ma “divina” nel suo equilibrio, nella sua forza, nel suo senso di fondo che a molti e per molte ragioni è apparso come profetico.
Barbero è un narratore nato, e ama raccontare: in un lavoro che pure ha aspetti di straordinaria forza sintetica, egli riesce a intrattenere talora il lettore su aspetti particolari, talvolta su eleganti minuzie da miniatura gotica: il sangue e il sudore della battaglia di Campaldino, sui quali si apre – magistralmente – il racconto; e quindi le sue giovanili frustrazioni di aspirante a una vita aristocratica alla quale la sua nascita familiare lo avrebbe destinato ma le vicende tempestose degli avi allontanato; e le storie degli avi e dei collaterali, qualcuna non commendevole; e l’innamoramento, e l’amore; la passione politica, le “compagnie malvage e scempie”, il pane altrui che sa di sale, la condanna (forse) ingiusta e le pene dell’esilio, e l’amore, e la speranza di gloria, e la Beatifica Visione.
Qualcuno ha detto che si fa presto a immaginar l’Inferno: basta guardarsi dentro. Basterebbe replicare che, per farlo, bisogna averne il coraggio: e non ce l’ha quasi nessuno. Qualcun altro ha osservato che è incredibile come Dante riesca, lui uomo del Due-Trecento, a gettare sull’immensità dei cieli uno sguardo che sembra partire dall’oblò di un’astronave: un’esperienza che egli avrebbe potuto avere solo durante una visione, magari mistica.
E allora, chi era davvero Dante Alighieri? Barbero ce lo mostra, ce lo presenta, ce lo racconta. Riesce davvero anche a spiegarcelo? Egli sceglie di sistematicamente adottare il principio dell’“opera aperta”: pone con chiarezza i problemi e gli interrogativi del caso, fornisce gli elementi per possibili soluzioni, ma lascia al lettore l’onere della risposta. Come nella vexata quaestio dell’autenticità della lettera a Cangrande, croce e delizia della critica dei nostri giorni. Lo storico-narratore, che non dimentica mai di essere anche un romanziere, risponde facendo di continuo implicitamente notare che un bel libro, un libro riuscito, non è quello che risponde o pretende di rispondere a tutti i problemi posti, non è quello che fornisce soluzioni: bensì quello che apre nuovi problemi, che dischiude orizzonti magari prima impensati.

LA CONTEMPORANEITÀ DEL PASSATO
UN MEDIOEVO CONIUGATO AL TEMPO PRESENTE
Qualcuno diffida dei libri illustrati. È vero, quando sono belli costano: anche se sono brutti. Però, a volte, sono una vera gioia per gli occhi. È impossibile non pensar proprio così, davanti a un libro come questo di Chiara Frugoni, Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo (Bologna, il Mulino, 2020, pp. 395). La vera gioia, certo, arriva dopo: dinanzi a queste pagine di grande respiro e di profonda intensità, che ci fanno dimenticare come la storia sia di per sé, e per sua natura, una disciplina problematica e permettono al lettore che sa e che vuole farlo di affrontare ardue tematiche ma consentono a quello un po’ più pigro o ingenuo – o magari semplicemente che vuol godersi un bel racconto senza problemi – di abbandonarsi al racconto, come se stesse leggendo un romanzo o magari una fiaba. Un po’ paurosa, qua e là.
Chiara Frugoni è nata al mondo degli studi anzitutto perché nutrita delle midolla del leone: figlia di un padre, purtroppo immaturamente comparso, ch’era davvero uno dei più grandi studiosi del secolo scorso; e da questo libro ci si rende conto come la familiarità con le fonti medievali sia derivata a Chiara non solo dal suo indiscutibilmente serissimo impegno, bensì anche dal contatto paterno e dalla fruizione della ricca biblioteca di famiglia. Ma la sua originaria formazione è stata quella della storica dell’arte e dell’iconologa: e questo “saper leggere le immagini” è uno degli insegnamenti più fascinosi e preziosi ch’ella ci abbia saputo donare. Se andate al capitolo La paura della fame e della miseria e considerate le scene della “distribuzione del pane” nel “pellegrinaio” dell’Ospedale di Santa Maria della Scala in Siena, affrescate da Domenico di Bartolo verso la metà del Quattrocento, la spiegazione offerta dal commento di Chiara – sei sole pagine, dalla 134 alla 140 – vi spalanca davanti in pochi rapidi tratti accompagnati da una manciata di nitide immagini tutte le sfumature della vita, delle gioie e delle durezze del medioevo. E così lungo tutto il libro il pane offerto con generosità (così, senz’ombra di companatico: prezioso nella sua essenzialità) e accettato con avidità e con gratitudine, le vesti di chi dona e di chi offre, le insegne di pellegrinaggio sugli abiti dei pellegrini, la carne nuda e magari tormentata dal freddo o dal calore dei poveri bambini malvestiti che sbocconcellano quella grazia di Dio. La povertà e la solidarietà, le ingiustizie del mondo e la mai saziate fame e sete di giustizia, la dignità di una veste magari modesta ma pulita e dai bottoni in ordine e l’orrore degli stracci fetidi e infetti dagli strappi dei quali occhieggiano i minacciosi bubboni; e ancora gli orrori della guerra ch’è “giovane e fresca” solo per chi non l’ha mai fatta (bellum dulce inexpertis) e quelli della fame che spinge fino a divorare brandelli di corpo umano, come almeno in certi momenti del nostro medioevo – e prima, e dopo… – non è poi stato così eccezionale come si crederebbe.
Un libro sulle paure medievali: quelle del diavolo e dell’inferno, senza dubbio, ma anche quelle più realisticamente concrete delle epidemie, delle carestie, delle malattie. A peste, fame et bello – libera nos, Domine, come recitava l’antica giaculatoria. In fondo, e non a caso, appunto i cavalieri dell’Apocalisse, gli araldi di una “fine dei tempi” che più volte nell’età di mezzo e oltre è stata annunziata e della quale si è creduto di assistere ai prodromi.
In cinque nitidi capitoli, densi di esempi, di fatti e di citazioni, si delineano le Grandi paure medievali. Quella della fine del mondo anzitutto, col suo annesso della paura della morte e del senso del macabro che proprio il padre di Chiara, Arsenio Frugoni, studiò in tempi nei quali esso non era ancora giunto alla fama che avrebbe più tardi conseguito mettendo in luce l’importanza degli affreschi della “cappella dei disciplini” del paese di Clusone, vicino alla sua Brescia. Quindi quella della fame e della miseria, compagne abituali specie del mondo contadino. Poi quella del “diverso”, accompagnata dal pregiudizio nei confronti dell’Altro (specie dell’ebreo e del saraceno). E infine quella delle malattie: prima la lebbra, infine la peste.
Storia significa dinamica, mutamento. Non si viveva e non si moriva, non si aveva paura e non si odiava sempre nello stesso modo, nel “lungo medioevo”. La paura del Diverso ha uno spartiacque nell’età delle crociate, quando mutò di aspetto e di contesto. La paura della malattia contagiosa irruppe fra Tre e Quattrocento, quando la morte – in fondo non troppo temuta nei secoli precedenti, quando “sorella morte” poteva sembrare un riposo e un ristoro – si presentò con i tratti dell’epidemia crudele e inattesa, che uccide persone che ormai cominciavano ad assuefarsi a una vita da qualche tempo divenuta più ricca e agiata. Chi ha condotto una buona esistenza sopporta male l’idea del distacco: era quel che insegnavano i poeti come François Villon, qualche decennio fa ripreso da Fabrizio de André. E forse, una delle chiavi di lettura della nevrosi dilagante in questi nostri giorni di Covid 19 è appunto questa. Siamo dinanzi a un “nuovo medioevo”? Qualcuno lo ha proclamato.