Domenica 28 febbraio 2021, II Domenica di Quaresima
MA L’ITALIA NON È DEL TUTTO IN CRISI…
Il morbo infuria, il pan ci manca, l’epidemia non accenna a placarsi, il lavoro è in crisi, il cèspite strategico del turismo è in ginocchio, molti esercizi chiudono, il paese s’impoverisce. Ma il Redentore inviatoci dall’alto dei cieli della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale può stare tranquillo: c’è un settore nel quale il nostro paese vola…
MANLIO DINUCCI
NON C’È CRISI PER L’ITALIA MILITARE NELLA NATO
Mentre l’Italia è paralizzata dalla “crisi economica che la pandemia ha scatenato” (come la definisce Draghi nel discorso programmatico), c’è un settore che non ne risente ma anzi è in pieno sviluppo: quello militare nella Nato.
Il 17-18 febbraio, nel momento in cui Senato e Camera votavano la fiducia al Governo Draghi, il riconfermato ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd) già partecipava al Consiglio Nord Atlantico, il primo con la presenza della nuova amministrazione Biden.
All’ordine del giorno l’ulteriore aumento della spesa militare. Il 2021, ha sottolineato il segretario generale della Nato Stoltenberg, sarà il settimo anno consecutivo di aumento della spesa militare da parte degli Alleati europei, che l’hanno accresciuta di 190 miliardi di dollari rispetto al 2014. Usa e Nato chiedono però molto di più.
Il ministro Guerini ha confermato l’impegno dell’Italia ad aumentare la spesa militare (in termini reali) da 26 a 36 miliardi di euro annui, aggiungendo agli stanziamenti della Difesa quelli destinati a fini militari dal Ministero dello sviluppo economico: 30 miliardi più 25 richiesti dal Recovery Fund. Il tutto, ovviamente, con denaro pubblico.
L’Italia si è impegnata, nella Nato, a destinare almeno il 20% della spesa militare all’acquisto di nuovi armamenti. Per questo, appena entrato in carica, il ministro Guerini ha firmato il 19 febbraio un nuovo accordo di 13 paesi Nato più la Finlandia, definito Air Battle Decisive Munition, per l’acquisto congiunto di “missili, razzi e bombe che hanno un effetto decisivo nella battaglia aerea”. Con tale formula, simile a quella di un gruppo di acquisto solidale (non però di ortaggi ma di missili), si realizzano risparmi che la Nato afferma essere del 15-20% senza però dire a quanto ammonti la spesa.
I missili e le bombe di nuova generazione, che l’Italia sta acquistando, serviranno ad armare anche i caccia F-35B della Lockheed Martin, imbarcati sulla portaerei Cavour, arrivata il 13 febbraio nella base Usa di Norvolk (Virginia): qui resterà fino ad aprile acquisendo la certificazione per operare con questi aerei. L’Italia, ha annunciato orgogliosamente il ministro Guerini, sarà uno dei pochi paesi al mondo – insieme a Stati uniti, Gran Bretagna e Giappone – ad avere una portaerei con caccia di quinta generazione.
In tal modo l’Italia – come sottolinea il premier Mario Draghi – rafforzerà il suo ruolo di “protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori”, accrescendo in particolare “la nostra proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa”.
Nel “Mediterraneo allargato” – che nella geografia Nato si estende dall’Atlantico al Mar Nero e a sud fino al Golfo Persico e all’Oceano Indiano – opera da Sigonella, con droni AGS RQ-4D forniti dagli Usa, la Forza Nato di “sorveglianza terrestre”. È divenuta operativa il 15 febbraio: lo ha annunciato il generale Usa Told Walters, Comandante Supremo Alleato in Europa (carica che spetta sempre a un generale statunitense). I droni Nato, che da Sigonella “sorvegliano” (ossia spiano) quest’area per preparare azioni militari, sono agli ordini di un altro generale Usa, Houston Cantwell.
Il premier Draghi, che considera la nuova Amministrazione Usa “più cooperativa nei confronti degli alleati”, si dichiara “fiducioso che i nostri rapporti e la nostra collaborazione non potranno che intensificarsi”. C’è da esserne sicuri. Il 17 febbraio, si è svolto in videoconferenza il primo meeting, patrocinato dal Pentagono, in cui 40 industrie militari e centri di ricerca universitari italiani offrono i propri prodotti e servizi alle forze armate Usa.
Titolo dell’incontro “Innovate to Win” (Innovare per vincere). L’innovazione – spiega il Ministero della Difesa – è “la chiave di volta non solo per ottenere un vantaggio competitivo su potenziali avversari – attuali e futuri – sul piano militare, ma per il recovery del tessuto industriale nazionale al termine del periodo di crisi dovuto alla pandemia Covid-19”.
(il manifesto, 23 febbraio 2021)
Insomma, fuor di metafora, una nuova mossa nella direzione dell’“esportazione della democrazia” è già “felicemente” avviata: il cattolico presidente Biden ha acceso la miccia in Siria (l’alibi è sempre pronto: una qualunque “rappresaglia” contro attacchi veri o supposti o simulati di “forze filoiraniane” in Iraq). È così che il cattolico Biden sta preparando la visita del Santo padre in Iraq. Difatti…
LORENZO VITA
PRIMO RAID DELL’ERA BIDEN: COLPITE MILIZIE IN SIRIA
L’era di Joe Biden alla Casa Bianca inizia a livello internazionale con il primo raid in Siria. Come confermato dal Pentagono, il presidente degli Stati Uniti ha ordinato un bombardamento contro siti che secondo l’intelligence Usa sono utilizzati da miliziani filo-iraniani nella parte orientale del Paese. “Questi raid sono stati autorizzati in risposta ai recenti attacchi contro personale americano e della coalizione in Iraq e alle minacce continue a questo personale”, ha detto il portavoce della Difesa, John Kirby, il quale ha specificato che l’attacco è avvenuto espressamente “su ordine del presidente”, colpendo siti “usati da vari gruppi militanti sostenuti dall’Iran, compresi Kaitaib Hezbollah e Kaitaib Sayyid al-Shuhada”. Per Kirby, il raid “invia un messaggio inequivocabile: il presidente Biden agirà per proteggere il personale della coalizione americana. Allo stesso tempo abbiamo agito in modo deliberato puntando a calmare la situazione sia nella Siria orientale e sia in Iraq”.
La mossa di Biden arriva in un momento molto delicato degli equilibri del Medio Oriente. Il 15 febbraio è iniziata un’escalation contro le forze Usa in Iraq che ha portato a diversi attacchi nei confronti delle truppe americane. Il mirino è puntato contro le forze filo-iraniane presenti in Iraq, da sempre un vero tallone d’Achille della strategia Usa in Medio Oriente. Il Paese che era stato invaso dagli americani nel 2003 è diventato infatti in questi anni uno dei maggiori partner dell’avversario strategico di Washington, Teheran. E non va dimenticato che è stato proprio in Iraq che il predecessore di Biden, Donald Trump, ha ordinato il raid per uccidere il generale iraniano Qasem Soleimani. Una mossa che Baghdad aveva ovviamente condannato, posto che il territorio sotto l’autorità irachena è diventato un terreno di scontro tra due potenze esterne.
Questa volta a essere colpita è stata la Siria. E già questo è indice di una strategia precisa della Casa Bianca. Colpire la Siria, in questo momento, equivale per il Pentagono a colpire un territorio con un’autorità che non riconoscono e che hanno provato a rovesciare. Situazione ben diversa rispetto all’Iraq, dove gli Stati Uniti vogliono invece evitare che il Paese si rivolti contro le forze lì presenti e dove c’è un governo che l’America riconosce come interlocutore. Il fatto che il raid sia arrivato in Siria ma in risposta agli attacchi in Iraq, segnala che non si vogliono creare problemi al governo iracheno.
L’attacco conferma anche un ulteriore problema per l’amministrazione americana. La presenza delle milizie filo-iraniane in Siria e in Iraq è un nodo che è stato tutt’altro che sciolto. Da tempo i generali Usa avevano chiesto alla Casa Bianca sotto Trump di evitare il ritiro delle truppe dalla Siria proprio per escludere la possibilità che le forze legate a Teheran riprendessero piede nella regione. Trump, recalcitrante, ha comunque accettato le richieste del Pentagono (e di Israele) evitando un ritiro rapido delle forze americane. Per la Difesa Usa c’era anche il rischio di un rafforzamento della presenza russa (Mosca ha criticato l’attacco parlando “un’azione illegittima che va condannata categoricamente”). Quel ritiro non si è mai concretizzato, tramutandosi in un fantasma che per molti mesi si è aggirato per i corridoi di Pentagono e Casa Bianca e negando alla radice una delle promesse del presidente repubblicano: la fine delle “endless wars”.
Il raid americano di questa notte non indica in ogni caso un ritorno in forza dell’America in Siria. Il bombardamento è stato molto circoscritto e in un’area che è da tempo nel mirino delle forze Usa in Medio Oriente. Ma non va dimenticato anche il fattore “negoziale”. Gli Stati Uniti stanno trattando con l’Iran per rientrare nell’accordo sul programma nucleare: ma per farlo devono mostrare i muscoli. Come riporta il Corriere della Sera, Barack Obama era solito dire che “si negozia con il fucile dietro la porta”. Trump lo ha fatto uscendo dall’accordo, uccidendo Soleimani e inviando bombardieri strategici e navi nel Golfo Persico. Biden ha cambiato le carte in tavola: ha optato per un freno agli accordi con le monarchie arabe per far capire di non essere allineato alla politica di Trump, congelando gli F-35 agli Emirati e le armi ai sauditi in Yemen. Ma nello stesso tempo ha voluto lanciare un segnale direttamente all’Iran colpendo le milizie al confine tra Iraq e Siria. Tattiche diverse, strategia diversa, ma con un obiettivo comune: l’Iran.
(InsideOver, 26 febbraio 2021)