Minima Cardiniana 316/7

Domenica 28 febbraio 2021, II Domenica di Quaresima

UNA VOCE OSTILE A PAPA BERGOGLIO
Come si ricorderà, alcune settimane fa avevo espresso un parere pesantemente negativo nei confronti del vaticanista Aldo Maria Valli. Lo avevo fatto incautamente, avendo accettato come buona una notizia che gettava un’ombra sulla sua correttezza. Un estimatore di Valli me lo rimproverò con acredine: non raccolsi il tono offensivo delle sue parole, mirai alla sostanza, verificai la cosa e scoprii che le cose non stavano esattamente né come le avevo esposte io né come le aveva presentate quella persona che ostilmente mi aveva scritto. Mi assunsi la mia parte di responsabilità e mi scusai pubblicamente con Valli. Ora, un’altra persona che desidera mantenere l’anonimato m’invita a riprendere un contributo di Valli da “Radio Roma Libera”. Confesso di essere contrario all’anonimato ma resto fedele al mio principio ispirato a un agire e a un pensare limpidi. Ecco quindi un pensiero che non approvo ma che non vedo perché non dovrebb’essere liberamente esposto.

Come è possibile che un’ottima parte dei più autorevoli e stimati vaticanisti nel panorama giornalistico italiano, siano divenuti nel tempo, chi prima e chi dopo, fortemente critici (per usare un eufemismo) verso Francesco? Sandro Magister, Marco Tosatti, Antonio Socci, perfino il venerabile Vittorio Messori non ha risparmiato strali a Bergoglio.
L’ultima bordata arriva dal mite Aldo Maria Valli, già vaticanista del Tg3, fedele cronista dei viaggi di Giovanni Paolo II. Il suo tono sempre misurato ed elegante non gli evita, stavolta, di picchiare durissimo nei contenuti. Riportiamo integralmente il suo intervento pubblicato su Radio Roma Libera.

Roma è senza papa. La tesi che intendo sostenere si riassume in queste quattro parole. Quando dico Roma non mi riferisco solo alla città di cui il papa è vescovo. Dico Roma per dire mondo, per dire realtà attuale.
Il papa, pur essendoci fisicamente, in realtà non c’è perché non fa il papa. C’è, ma non svolge il suo compito di successore di Pietro e vicario di Cristo. C’è Jorge Mario Bergoglio, non c’è Pietro.
Chi è il papa? Le definizioni, a seconda che si voglia privilegiare l’aspetto storico, teologico o pastorale, possono essere diverse. Ma, essenzialmente, il papa è il successore di Pietro. E quali furono i compiti assegnati da Gesù all’apostolo Pietro? Da un lato, “pasci le mie pecorelle” (Gv 21:17); dall’altro, “tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16:19).
Ecco che cosa deve fare il papa. Ma oggi non c’è nessuno che svolga questo compito. “E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli nella fede” (Lc 22:32). Così dice Gesù a Pietro. Ma oggi Pietro non pasce le sue pecorelle e non le conferma nella fede. Perché? Qualcuno risponde: perché Bergoglio non parla di Dio, ma solo di migranti, ecologia, economia, questioni sociali. Non è così. In realtà Bergoglio parla anche di Dio, ma dall’insieme della sua predicazione esce un Dio che non è il Dio della Bibbia, ma un Dio adulterato, un Dio, direi, depotenziato o, meglio ancora, adattato. A che cosa? All’uomo e alla sua pretesa di essere giustificato nel vivere come se il peccato non esistesse.
Bergoglio ha certamente messo al centro del suo insegnamento i temi sociali e, tranne sporadiche eccezioni, appare in preda alle stesse ossessioni della cultura dominata dal politicamente corretto, ma ritengo che non sia questo il motivo profondo per cui Roma è senza papa. Anche volendo privilegiare i temi sociali, si può comunque avere una prospettiva autenticamente cristiana e cattolica. La questione, con Bergoglio, è un’altra, e cioè che la prospettiva teologica è deviata. E per un motivo ben preciso: perché il Dio di cui ci parla Bergoglio è orientato non a perdonare, ma a discolpare.
In Amoris laetitia si legge che la “Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili”. Mi spiace, ma non è così. La Chiesa deve convertire i peccatori.
Sempre in Amoris laetitia si legge che “la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio”. Mi spiace, ma sono parole ambigue. Nelle situazioni che non corrispondono al suo insegnamento ci saranno pure “elementi costruttivi” (ma, poi, in che senso?), tuttavia la Chiesa non ha il compito di valorizzare tali elementi, bensì di convertire all’amore divino al quale si aderisce osservando i comandamenti.
In Amoris laetitia leggiamo anche che la coscienza delle persone “può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo”. Di nuovo l’ambiguità. Primo: non c’è una “proposta generale” del Vangelo, alla quale si può aderire più o meno. C’è il Vangelo con i suoi contenuti ben precisi, ci sono i comandamenti con la loro cogenza. Secondo: Dio mai e poi mai può chiedere di vivere nel peccato. Terzo: nessuno può rivendicare di possedere “una certa sicurezza morale” circa ciò che Dio “sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti”. Queste espressioni fumose hanno un solo significato: legittimare il relativismo morale e prendersi gioco dei comandamenti divini.
Questo Dio impegnato più che altro a scagionare l’uomo, questo Dio alla ricerca di attenuanti, questo Dio che si astiene dal comandare e preferisce comprendere, questo Dio che “ci è vicino come una mamma che canta la ninna nanna”, questo Dio che non è giudice ma è “vicinanza”, questo Dio che parla di “fragilità” umane e non di peccato, questo Dio piegato alla logica dell’”accompagnamento pastorale” è una caricatura del Dio della Bibbia. Perché Dio, il Dio della Bibbia, è sì paziente, ma non lassista; è sì amorevole, ma non permissivo; è sì premuroso, ma non accomodante. In una parola, è padre nel senso più pieno e autentico del termine.
La prospettiva assunta da Bergoglio appare invece quella del mondo: che spesso non rifiuta del tutto l’idea di Dio, ma ne rifiuta i tratti meno in sintonia con il permissivismo dilagante. Il mondo non vuole un vero padre, amorevole nella misura in cui è anche giudicante, ma un amicone; anzi, meglio ancora, un compagno di strada che lascia fare e dice “chi sono io per giudicare?”.
Ho scritto altre volte che, con Bergoglio, trionfa una visione che ribalta quella reale: è la visione secondo cui Dio non ha diritti, ma solo doveri. Non ha il diritto di ricevere un culto degno, né di non essere irriso. Però ha il dovere di perdonare. Al contrario, secondo questa visione, l’uomo non ha doveri, ma solo diritti. Ha il diritto di essere perdonato, ma non il dovere di convertirsi. Come se potesse esistere un dovere di Dio a perdonare e un diritto dell’uomo a essere perdonato.
Ecco perché Bergoglio, dipinto come il papa della misericordia, mi sembra il papa meno misericordioso che si possa immaginare. Trascura infatti la prima e fondamentale forma di misericordia che compete proprio a lui e a lui solo: predicare la legge divina e, così facendo, indicare alle creature umane, dall’alto dell’autorità suprema, la strada per la salvezza e la vita eterna.
Se Bergoglio ha concepito un “dio” di questo genere – che volutamente indico con la minuscola, poiché non è il Dio Uno e Trino che adoriamo – è perché per Bergoglio non vi è alcuna colpa di cui l’uomo debba chiedere perdono, né personale né collettiva, né originale né attuale. Ma se non vi è colpa, non vi è nemmeno Redenzione; e senza necessità di Redenzione non ha senso l’Incarnazione, e tantomeno l’opera salvifica dell’unica Arca di salvezza che è la Santa Chiesa. Vien da chiedersi se quel “dio” non sia piuttosto la simia Dei, Satana, che ci spinge verso la dannazione proprio nel momento in cui egli nega che i peccati e i vizi con i quali ci tenta possano uccidere la nostra anima e condannarci all’eterna perdita del Sommo Bene.
Roma è dunque senza papa. Ma se nella distopia vaticana di Guido Morselli (il romanzo intitolato appunto Roma senza papa) lo era fisicamente, perché quel papa immaginario se n’era andato a vivere a Zagarolo, oggi Roma è senza papa in un modo ben più profondo e radicale.
Avverto già l’obiezione: ma come puoi dire che Roma è senza papa quando Francesco è ovunque? È in tv e nei giornali. È stato sulle copertine di Time, Newsweek, Rolling Stone, perfino di Forbes e Vanity Fair. È nei siti e in un’infinità di libri. È intervistato da tutti, addirittura dalla Gazzetta dello sport. Forse mai un papa è stato così presente e così popolare. Rispondo: tutto vero, ma è Bergoglio, non è Pietro.
Che il vicario di Cristo si occupi delle cose del mondo non è certo vietato, anzi. Quella cristiana è fede incarnata e il Dio dei cristiani è Dio che si fa uomo, che si fa storia, dunque il cristianesimo rifugge dagli eccessi di spiritualismo. Ma una cosa è essere nel mondo e un’altra è diventare come il mondo. Parlando come parla il mondo, e ragionando come ragiona il mondo, Bergoglio ha fatto svaporare Pietro e ha messo se stesso in primo piano.
Ripeto: il mondo, il nostro mondo nato dalla rivoluzione del Sessantotto, non vuole un vero padre. Il mondo preferisce il compagno. L’insegnamento del padre, se è vero padre, è faticoso, perché indica la strada della libertà nella responsabilità. Molto più comodo è avere accanto qualcuno che si limita a farti compagnia, senza indicare nulla. E Bergoglio fa proprio questo: mostra un Dio non padre, ma compagno. Non a caso alla “chiesa in uscita” di Bergoglio, come a tutto il modernismo, piace il verbo “accompagnare”. È una chiesa compagna di strada, che tutto giustifica (attraverso un concetto distorto di discernimento) e tutto, alla fine, relativizza.
La riprova sta nel successo che Bergoglio riscuote tra i lontani, i quali si sentono confermati nella loro lontananza, mentre i vicini, disorientati e perplessi, non si sentono affatto confermati nella fede.
Gesù in materia è piuttosto esplicito. “Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (Lc 6, 26). “Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo” (Lc 6, 22).
Ogni tanto torna alla ribalta una voce secondo cui anche Bergoglio, come Benedetto XVI, penserebbe di dimettersi. Io credo che non abbia in programma nulla di simile, ma il problema è ben altro. Il problema è che Bergoglio si è reso protagonista, di fatto, di un processo di dismissione dai compiti di Pietro.
Ho già scritto altrove che Bergoglio è ormai diventato il cappellano delle Nazioni Unite, e ritengo che questa scelta sia di una gravità inaudita. Tuttavia, ancora più grave della sua adesione all’agenda dell’Onu e al politicamente corretto è che abbia rinunciato a parlarci del Dio della Bibbia e che il Dio al centro della sua predicazione sia un Dio che discolpa, non che perdona.
La crisi della figura paterna e la crisi del papato vanno di pari passo. Così come il padre, rifiutato e smantellato, è stato trasformato in un generico accompagnatore privo di qualsiasi pretesa di indicare una strada, allo stesso modo il papa ha smesso di farsi portatore e interprete dell’oggettiva legge divina ed ha preferito diventare un semplice compagno.
Pietro, così, è svaporato proprio quando avevamo più bisogno che ci mostrasse Dio in quanto padre a tutto tondo: padre amorevole non perché neutrale, ma perché giudicante; misericordioso non perché permissivo, ma perché impegnato a mostrare la strada del vero bene; pietoso non perché relativista, ma perché desideroso di indicare la via della salvezza.
Osservo che il protagonismo nel quale indulge l’ego bergogliano non è una novità, ma risale in buona parte alla nuova impostazione conciliare, antropocentrica, a partire dalla quale papi, vescovi e chierici hanno anteposto se stessi al loro sacro ministero, la propria volontà a quella della Chiesa, le proprie opinioni all’ortodossia cattolica, le proprie stravaganze liturgiche alla sacralità del rito.
Questa personalizzazione del papato è diventata esplicita da quando il Vicario di Cristo, volendo presentarsi come “uno come noi”, ha rinunciato al plurale humilitatis con il quale dimostrava di parlare non a titolo personale, ma assieme a tutti i suoi predecessori e allo stesso Spirito Santo. Pensiamoci: quel Noi sacro, che faceva tremare Pio IX nel proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione e san Pio X nel condannare il modernismo, non avrebbe mai potuto essere usato per sostenere il culto idolatrico della pachamama, né per formulare le ambiguità di Amoris laetitia o l’indifferentismo di Fratelli tutti.
Circa il processo di personalizzazione del papato (al quale l’avvento e lo sviluppo dei mass media hanno dato un importante contributo), occorre ricordare che vi fu un tempo in cui, almeno fino a Pio XII incluso, ai fedeli non importava chi fosse il papa, perché comunque essi sapevano che, chiunque fosse, avrebbe sempre insegnato la stessa dottrina e condannato gli stessi errori. Nell’applaudire il papa essi applaudivano non tanto colui che in quel momento era sul santo soglio, ma il papato, la regalità sacra del Vicario di Cristo, la voce del Supremo Pastore, Gesù Cristo.
Bergoglio, che non gradisce presentarsi come successore del principe degli apostoli e, sull’Annuario pontificio, ha fatto mettere in secondo piano l’appellativo di vicario di Cristo, implicitamente si separa dall’autorità che Nostro Signore ha conferito a Pietro e ai suoi successori. E questa non è una mera questione canonica. È una realtà le cui conseguenze sono gravissime per il papato.
Quando tornerà Pietro? Quanto a lungo Roma resterà senza papa? Inutile interrogarci. I disegni di Dio sono misteriosi. Possiamo solo pregare il Padre celeste dicendo: “Sia fatta la tua volontà, non la nostra. Ed abbi pietà di noi peccatori”.
Aldo Maria Valli

Un commento ispirato all’arbitrio. A Roma il papa c’è: e fa il papa. Pasce le sue pecorelle (e molte si lamentano del fatto che talora giunga a castigarle). Quel che scioglie o lega è sciolto o legato anche in cielo dal momento che si tratta di un sacerdote ch’è stato eletto in conclave (per i cattolici, quindi, è garantito dal dogma dell’infallibilità che copre la scelta del conclave stesso) e non c’è alcuna ragione né teologica né giuridica di non ritenerlo papa.
Il papa, secondo la dottrina cattolica, può sbagliare: è infallibile solo se e quando parla
ex cathedra. Ma non può essere accusato di errori che vengono denunziati, ma riguardo ai quali non si fornisce prova alcuna.
Dire che Bergoglio non parla di Dio ma solo di “migranti, ecologia, economia, questioni sociali” eccetera equivarrebbe a dire che nel Vangelo Gesù parlava di pescatori, di seminatori, di figli che obbediscono o disobbediscono ai padri eccetera. C’è un comandamento che riassume tutti gli altri: “Amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima ed il prossimo tuo come te stesso”. In tempi nei quali la decristianizzazione è giunta ormai quasi agli estremi limiti, lo spazio si è ristretto: i cristiani non possono tergiversare. O dimostrano il loro amore per Dio attraverso l’amore illimitato per l’uomo, o non sono nulla. Bergoglio insegna questo, sempre questo, solo questo. Chi chiama tutto ciò “lassismo” o “buonismo” non ha capito nulla del cristianesimo. Chi sostiene che Bergoglio non parla mai di Dio o magari è un papa (perché no?) di sinistra, dimostra di non aver capito una cosa che avrebbe dovuto aver compreso fino dai primi gesti che egli fece appena eletto, il rifiuto degli arredi d’oro e dei capi di vestiario di porpora. Questo è un papa apocalittico, che giudica guardando agli
eschata.
La critica all’Amoris laetitia è fatta di parole, non di cose; di obiezioni pretestuose, non di ragioni effettive e obiettive. Leggiamo (sottolineo le parole del documento Valli):
In
Amoris laetitia si legge che la “Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili”. Mi spiace, ma non è così. La Chiesa deve convertire i peccatori. E fa di tutto per convertirli, infatti, cercando di correggerli e tenendo presente che sono i suoi figli più fragili. Chi trascura l’aiuto dovuto al fratello, chi stima l’apparenza dei riti più della sostanza della fede, chi fa di tutto per distorcere gli insegnamenti del papa per metterlo in cattiva luce e minare così l’unità della Chiesa è un “figlio più fragile”, da seguire con attenzione.
Sempre in
Amoris laetitia si legge che “la Chiesa non manca di valorizzare gli elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più al suo insegnamento sul matrimonio”. Mi spiace, ma sono parole ambigue. Nelle situazioni che non corrispondono al suo insegnamento ci saranno pure “elementi costruttivi” (ma, poi, in che senso?), tuttavia la Chiesa non ha il compito di valorizzare tali elementi, bensì di convertire all’amore divino al quale si aderisce osservando i comandamenti. All’amore divino si aderisce comprendendone la vastità e l’ampiezza: il che accade appunto quando si colgono gli elementi positivi anche di un agire o di un pensare errato; e osservare i comandamenti deve condurre chi non li ha compresi o li ha dimenticati agendo con metodi appropriati: uno di essi è la carità nei confronti di chi è bisognoso e soffre, la severità nei confronti di chi ha troppo e si rifiuta di donare. Educare alla generosità e alla giustizia significa osservare i comandamenti e chiedere che siano osservati. Specie quelli ultimi: “Ero povero e non mi hai soccorso eccetera”.
In
Amoris laetitia leggiamo anche che la coscienza delle persone “può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo”. Di nuovo l’ambiguità. Primo: non c’è una “proposta generale” del Vangelo, alla quale si può aderire più o meno. C’è il Vangelo con i suoi contenuti ben precisi, ci sono i comandamenti con la loro cogenza. Secondo: Dio mai e poi mai può chiedere di vivere nel peccato. Terzo: nessuno può rivendicare di possedere “una certa sicurezza morale” circa ciò che Dio “sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti”. Queste espressioni fumose hanno un solo significato: legittimare il relativismo morale e prendersi gioco dei comandamenti divini. Primo: una “proposta generale” nel Vangelo c’è eccome: ed è appunto il grande e onnicomprensivo comandamento circa l’amore nei confronti di Dio e del prossimo. Secondo: Dio non chiede di vivere nel peccato, si limita a non abbandonare il peccatore: uno dei più forti tra gli insegnamenti di papa Bergoglio è la raccomandazione a non cedere mai allo sconforto, alla disperazione. Terzo: la pratica pastorale insegna appunto che il peccatore possiede quasi sempre, appunto, una “certa sicurezza morale” sia della negatività delle sue azioni, sia della necessità di correggerle. Articolare il giudizio, evitare gli schemi rigidi, giudicare lasciando la porta aperta alla carità (e alla Grazia) non equivale né a “cedere al relativismo morale”, né a “prendersi gioco degli insegnamenti divini”. Equivale a ricordare che siamo tutti peccatori, ma che Dio può perdonare fino a settanta volte sette, cioè all’infinito. Se chi scrive all’indirizzo del papa certe cose si sente puro da ogni peccato, scagli pure la prima pietra: ma prima di lanciarla si chieda se non ha per caso ceduto alla superbia.
Questo Dio impegnato più che altro a scagionare l’uomo, questo Dio alla ricerca di attenuanti, questo Dio che si astiene dal comandare e preferisce comprendere, questo Dio che “ci è vicino come una mamma che canta la ninna nanna”, questo Dio che non è giudice ma è “vicinanza”, questo Dio che parla di “fragilità” umane e non di peccato, questo Dio piegato alla logica dell’“accompagnamento pastorale” è una caricatura del Dio della Bibbia. Perché Dio, il Dio della Bibbia, è sì paziente, ma non lassista; è sì amorevole, ma non permissivo; è sì premuroso, ma non accomodante. In una parola, è padre nel senso più pieno e autentico del termine.
Chapeau. Si vede chiaramente che chi ha scritto queste parole ha una buona conoscenza dei testi evangelici (e difatti, nel contesto di queste tirate, ha avuto cura di appellarsi sempre “alla Bibbia”, mai al Vangelo). Perché è al Dio biblico, non a Quello evangelico, che gli han fatto comodo riferirsi. Le parole qui sottolineate sono una perfetta perorazione farisaica. Chi le ha scritte non ha tenuto nel minimo conto né la lettera, né tantomeno lo spirito del Vangelo. Prega dritto e impettito davanti all’altare e ringrazia Dio di non averlo creato debole e miserabile come quei pubblicani là, che si battono il petto in un angolo ben consci della loro imperfezione. Lui paga le decime e reca puntuale le sue offerte all’altare. E nel Giorno del Giudizio sa che sarà alla destra del Padre, e Lo aiuterà a colpir duro sulle spalle dei peccatori. Ma se l’autore di questa tirata avesse letto bene, a non dir altro, la Laudato si’, con la sua implacabile requisitoria contro quelli che dall’Africa al Brasile fanno soldi a palate sulla fame e sulla salute degli Ultimi e contro i ben azzimati mercanti di morte che stanno riempiendo il mondo di ordigni nucleari (e che sono sovente dei bravi cattolici conservatori), non avrebbe scritto affatto che il Dio di Bergoglio è “impegnato più che altro a scagionare l’uomo”: al contrario, ne temerebbe l’ira.
Altri aspetti del documento riguardano in realtà poco il papa, malto in cambio la struttura eticopsichica dell’Autore dello scritto in questione. Il papa non ha mai sostenuto che Dio non ha diritti, ma solo doveri: il papa si limita a comprendere bene il significato profondo dell’espressione Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, che non è Agnello di Dio, che TOGLI i peccati dal mondo, come ci si ostina a ripetere anche nelle chiese, bensì Agnello di Dio, che PRENDI SU DI TE i peccati del mondo. Dio non ha alcun dovere di perdonare; è, semplicemente, falso affermare che Dio non ha il diritto di ricevere un culto degno, né di non essere irriso… Al contrario, secondo questa visione, l’uomo non ha doveri, ma solo diritti. Ha il diritto di essere perdonato, ma non il dovere di convertirsi. Come se potesse esistere un dovere di Dio a perdonare e un diritto dell’uomo a essere perdonato.
Queste parole sono vaneggiamenti che non hanno alcun riscontro nella realtà: non corrispondono ad alcun giudizio mai proferito da Bergoglio né ad alcun pensiero che si possa ritener sottinteso alla luce delle sue parole. Sono fraintendimenti dettati da una malevolenza sistematica: non ho diritto di affermare che essa sia in malafede, ma il diritto di ritenerla comunque calunniosa, sì.
E parlando di “permissivismo dilagante”, si dovrebbe aver il coraggio di mettere sotto accusa molti decenni di falsa libertà e di autentica licenza alla radice dei quali vi sono essenzialmente l’individualismo, questo male fondante della Modernità, il cattivo uso del benessere, l’abuso del pregiudizio “democratico” che indulge al “vietato vietare”: tutte cose delle quali non hanno colpa né la Chiesa, né Bergoglio che ha speso la vita soccorrendo gli Ultimi delle
Villas Miserias argentine, bensì l’Occidente contemporaneo e le sue classi dirigenti le quali non sono esattamente tropo tenere con lui.
Ma Bergoglio, dipinto come il papa della misericordia, mi sembra il papa meno misericordioso che si possa immaginare. Trascura infatti la prima e fondamentale forma di misericordia che compete proprio a lui e a lui solo: predicare la legge divina e, così facendo, indicare alle creature umane, dall’alto dell’autorità suprema, la strada per la salvezza e la vita eterna.
È vero esattamente il contrario di quanto qui si afferma: la legge divina per i cristiani è il supremo Comandamento dell’Amore, ed è Colui che ha asceso la croce a ricordarcelo. La strada per la salvezza e la vita eterna, Bergoglio la indicò chiaramente fino da quel discorso a Lampedusa nel luglio del 2013: ed è rimasta sempre e solo quella. Ed è una condanna irredimibile per chi lascia soffrire i fratelli con qualunque alibi (la famiglia, la patria, la sicurezza, il benessere, l’ordine la pulizia, la cultura eccetera). A nessuno si chiedono sacrifici eroici: solo che ciascuno faccia secondo le sue possibilità e riceva secondo i suoi bisogni. È quasi impossibile riuscirci, ma l’essenziale è impegnarsi a farlo. Qui c’è il Cristo: altrove ci sono belle parole, belle effigi, belle costruzioni teologiche, ma non c’è Dio. Egli è dove lo ha indicato il Testamentum di Francesco d’Assisi, una lettura che tutti i cristiani dovrebbero affrontare almeno una volta nella vita.
Se Bergoglio ha concepito un “dio” di questo genere – che volutamente indico con la minuscola, poiché non è il Dio Uno e Trino che adoriamo – è perché per Bergoglio non vi è alcuna colpa di cui l’uomo debba chiedere perdono, né personale né collettiva, né originale né attuale. Ma se non vi è colpa, non vi è nemmeno Redenzione; e senza necessità di Redenzione non ha senso l’Incarnazione, e tantomeno l’opera salvifica dell’unica Arca di salvezza che è la Santa Chiesa. Vien da chiedersi se quel “dio” non sia piuttosto la simia Dei, Satana, che ci spinge verso la dannazione proprio nel momento in cui egli nega che i peccati e i vizi con i quali ci tenta possano uccidere la nostra anima e condannarci all’eterna perdita del Sommo Bene.
Chapeau, ancora una volta. Se non avessi letto più che abbastanza di de Maistre e di Donoso Cortés rimarrei affascinato dall’originalità dell’assunto: purtroppo non posso farlo perché, ahinoi, agnosco stylum Romanae arcicatholicitatis. Conosco purtroppo lo stile e l’argomentare di Bussole e di Timoni, di Tempi e di Gruppi Lepanto, di pii sodalizi e di aristocratici salotti nei quali si distribuisce il verbo di quel Tal Filosofo Cattolico Brasiliano che dottamente discettava sulla “funzione sociale del latifondo”. Conosco lo stile dei figuri che hanno crocifisso don Andrea Gallo e ora stanno crocifiggendo Enzo Bianchi. Ho frequentato da ragazzo Villa Sant’Ignazio sulle belle pendici dei Colli Fiorentini, sono un vecchio allievo di Attilio Mordini: i nuovi Difensori della Tradizione a me, vecchio asburgico e carlista, non mi fregano. Conosco discretamente von Hayez, ho avuto purtroppo qualche contatto con i Legionari del Cristo, ho qualche dimestichezza con l’“American National Review”. Quanto ai toni da cercatori affannosi della Bestia il cui numero è 666, li lascio a chi ama parlare del Vaticano come se stesse descrivendo gli interni di Rosemary’s Baby. Lo volete incontrare davvero, il Cristo? Io mi sforzo di fare un po’ di bene, un po’ di volontariato, e poi conosco abbastanza il Vicino Oriente. L’ho visto, qualche volta. Somigliava dannatamente ai bambini morti di freddo ai confini con la Croazia, dove la buona polizia della cattolicissima e francescana Croazia li guardava morire.
Non c’è ambiguità, non c’è indifferentismo, tanto meno c’è vanità nel magistero di papa Francesco. Che poi egli si esprima di solito con il linguaggio di oggi, e che esso sia corrotto da quella che ben a ragione Luciano Canfora ha definito “l’impostura democratica”, è vero. Quella è un Covid morale cui non si sfugge. Ma è un altro discorso.