Minima Cardiniana 319/3

Domenica 21 marzo 2021, V Domenica di Quaresima
San Benedetto, Equinozio di Primavera

ANCORA SUL VIAGGIO DI PAPA FRANCESCO IN IRAQ
Intervista rilasciata il 18 marzo da Franco Cardini a Daniela Mariotti per “L’Altrapagina”.

Qual è la situazione che papa Francesco ha trovato in Iraq?
La situazione è molto complicata e ha i suoi presupposti nel secolo scorso, a cui bisogna tornare per poter capire l’oggi. Tutto è iniziato con la prima guerra mondiale: la disgregazione dell’impero ottomano e gli accordi rovinosi della pace di Versailles furono l’inizio della cattiva e tendenziosa sistemazione del Medio Oriente, che determinò una serie di guai, compresa la questione palestinese. Churchill si vantava improvvidamente di aver “inventato” con un righello in una sola notte i confini degli Stati di questa parte del mondo. E così fu. Siria e Libano passarono sotto la Francia, la Palestina fu affidata al governo mandatario dell’Inghilterra (che già occupava l’Egitto e in tal modo poteva controllare tutto il mar Rosso). Quella che oggi si chiama Arabia Saudita venne ceduta al capo di una tribù caratterizzata da un Islam “atipico” (il wahhabismo, nato nel XVIII secolo, modernista e fondamentalista) che era in buoni rapporti con gli inglesi. Intanto si affermava il sionismo, il ritorno dei coloni ebrei in Palestina, per quanto alla lunga gli inglesi avrebbero voluto “liberarsi” di quegli “scomodi” nuovi venuti. Si proseguì pertanto con la politica di tipo colonialista, nonostante le “liberazioni”. Sappiamo come si arrivò a questa situazione, ovvero in seguito al tradimento di francesi e inglesi, che avevano ingannato gli arabi, promettendo all’emiro Al Husayn, il guardiano dei luoghi sacri della Mecca e di Medina, la corona di re del nuovo regno degli arabi uniti. La promessa non fu mantenuta e il Medio Oriente cadde sotto i “mandati” delle nazioni europee. Un figlio dell’emiro Husayn, Abdullah, divenne re della Transgiordania, l’altro, Feisal, del regno dell’Iraq. Ma il regno di tutta l’Arabia unita, che francesi e inglesi avevano promesso a Husayn se si fosse ribellato ai turchi, non venne mai fondato. Questo è il primo grande inganno, che gli arabi non hanno mai perdonato agli occidentali.

E oggi…?
Come abbiamo già detto oggi l’Iraq è un groviglio di conflittualità difficile da districare. C’è la questione dei curdi. I curdi che non sono arabi, ma iraniani e però sunniti, sono una popolazione coesa, insediata in una zona montana molto precisa: il Kurdistan. Dopo la guerra 1914-18 questi vennero puniti dalle potenze vincitrici perché erano stati fedeli al sultano e pertanto furono divisi in quattro nuovi stati: Iraq, Iran, Siria, Turchia. I Turchi non vogliono che i curdi si riuniscano, per ovvie ragioni di geopolitica. Ma tutta questa area è rimasta fortemente instabile.
Inoltre dopo che il regime socialista di Saddam Hussein è stato decapitato sono riemerse fortissime le contrapposizioni storiche fra sunniti e sciiti, che Saddam (appartenente alla componente musulmana sunnita) teneva in qualche modo a bada. Saddam Hussein era un dittatore, ma il suo regime aveva alcuni aspetti positivi: un sistema di welfare (c’è ancora nella Siria di Assad), un forte sostegno alla scuola e ai servizi pubblici, un minimo di garanzie sociali. Era anche un sistema laico: la nazionalità era più importante della religione e le minoranze venivano in qualche modo rispettate. Ovviamente verso gli sciiti il suo governo si mostrò meno benevolo.
La guerra del 2003, che ha visto la fine di Saddam Hussein e che ha portato a un governo imposto con le armi dagli americani, è paradossalmente filo-iraniano, cioè “nemico” degli stati Uniti. È un non senso, su cui i nostri media non hanno mai riflettuto abbastanza e che comunque non aiuta di certo la stabilità della regione.
La dolorosa esperienza dello stato dell’Isis (2014-2019), nato dalle ceneri di Al Qaeda, ha contrapposto ancor più fortemente i sunniti agli sciiti. Nonostante il grande pericolo, le feroci violenze effettuate dallo stato califfale, la guerra proclamata più volte dalle potenze occidentali e dai loro alleati arabi, non c’è stata. A fare la guerra e a sconfiggere l’Isis è scesa in campo una coalizione composta da quel che resta dello stato della Siria di Assad, dai volontari curdi e sciiti iraniani. Questo dato mette in luce i rapporti di vicinanza fra le stesse potenze occidentali, in particolare Stati Uniti e Israele (ma a ruota anche i paesi europei), con lo zoccolo duro del fondamentalismo sunnita, di cui non tutti hanno piena coscienza.

Perché papa Francesco ha deciso di andare in questo Stato, nonostante i rischi di ogni genere che avrebbe potuto correre?
La linea di pace di papa Francesco è coerente con quella dei papi precedenti. Durante la prima guerra del golfo Giovanni Paolo II rimase solo e inascoltato a scongiurare l’aggressione perpetrata dal presidente statunitense George W. Bush jr e dal premier britannico Tony Blair. Ce ne siamo dimenticati perché il problema iracheno pesa sulla coscienza occidentale e su quelli che muovono politica, affari e finanza. Il papa è naturalmente a conoscenza di tutta la storia di questa terra martoriata e delle rivalità fra sciiti e sunniti presenti fin dal VII secolo, che segnano con il sangue questi popoli, e sta lavorando per un dialogo di pace fra le religioni e per la pace nel mondo su più fronti. In Egitto, per esempio, fra cristiani e musulmani è stata stipulata una pace, che però non ha vincoli. Con L’Iran sciita sta facendo altri passi. Già Giovanni Paolo II insieme all’imam Khomeyni firmarono un documento di solidarietà.

Papa Francesco tenta di riallacciare i rapporti tra sunniti e sciiti divisi da una lacerazione secolare. Lei pensa che il Papa tenti una riconciliazione tra due tradizioni dell’islam?
Il papa non vuole assumersi un ruolo di intermediazione fra le due tradizioni. Non è questo il suo compito. Lui si limita a cercare una vicinanza fra le tre confessioni – Cristianesimo, Islam e ebraismo – perché queste, fedeli al Dio unico, hanno in comune i valori della carità, della fratellanza e di una certa giustizia sociale. Va in Iraq per sostenere che l’Islam è vicino al cristianesimo e che un dialogo e un accordo fra sciiti e sunniti sarebbe il bene dell’Iraq e dell’intero Medio-Oriente, innanzitutto in termini di pace. Ma con gli uni e con gli altri il papa ha avuto incontri separati. L’incontro con il grande ayatollah Ali al-Sistani nella città santa di Naiaf è stato uno dei momenti più significativi di questo viaggio. Non dimentichiamo che la comunità sciita, durante le violenze e le grandi sofferenze che hanno patito anche i cristiani irakeni, perseguitati dai militanti dell’Isis e costretti a lasciare le loro case, ha levato la sua voce in difesa di costoro.

Nella piana di Ninive si sono intrecciate diverse tradizioni religiose, dall’ebraismo, al cristianesimo, allo yazidismo, ai curdi. Queste minoranze sono schiacciate dall’Isis. Il Papa ha voluto esprimere loro solidarietà. Con quale obiettivo?
Il vero problema per papa Francesco è la povertà della stragrande maggioranza dell’umanità, mentre la ricchezza si sta concentrando in poche mani. Tutti sappiamo che la forbice della disuguaglianza si allarga. Il 15% circa della popolazione mondiale detiene il 90% delle risorse. La povertà di tanti insieme alla ricchezza smoderata di pochi è diventato il primo problema del mondo. Un mondo che di fatto è fondato sull’ingiustizia e sull’indifferenza verso gli ultimi è inaccettabile per il papa. È inaccettabile rispetto al messaggio evangelico di amore e di solidarietà, che abbiamo portato nel mondo proprio insieme al colonialismo… Il Santo Padre ha a cuore le sorti dei più deboli, dei 5-6 miliardi di esclusi da quel livello minimo di sussistenza dignitosa. Egli viene accusato spesso di mettere in atto una politica anti-occidentale, proprio perché mette in discussione queste disuguaglianze, su cui si è strutturata la ricchezza di Europa, Stati Uniti, Canada e Australia, ma in verità a lui non interessa la politica in sé: le sue azioni, le sue parole, i suoi scritti sono mossi da ragioni e sentimenti strettamente religiosi.

Dal punto di vista politico l’Iraq vive una situazione inquietante, in preda alla corruzione e alla disgregazione sociale. È ancora possibile una ricomposizione nazionale? Con quali forze e quali metodi?
Il giorno in cui gli Stati Uniti accettassero la scommessa di favorire una libera composizione della situazione irakena, con elezioni veramente libere, quello che hanno sempre detto a parole, e comunque con una supervisione dell’Onu perché la situazione è incandescente, si potrebbe ottenere una vita politica libera. Ma questo appare al momento impossibile: gli Stati Uniti e Israele non rinuncerebbero mai al loro controllo militare e politico del paese. Il rischio per l’Iraq di un possibile avvicinamento all’Iran, il nemico degli Stati Uniti, di una amicizia fra le due nazioni (anche perché la maggioranza degli irakeni, il 60%, è sciita come gli iraniani), non consente l’allentamento della presa da parte del fronte occidentale, di cui fa parte anche l’Italia con un contingente militare (926 uomini) per “il mantenimento della pace”. Di fatto sul piano della “vera pace” è una situazione irrisolvibile. Anche Barak Obama aveva dichiarato un allontanamento dall’Iraq, ma non l’ha realizzato. Ugualmente lo stesso ex-presidente degli Stati Uniti non ha smantellato il campo di prigionia di Guantanamo, dove sono ancora reclusi in condizioni di violazione dei fondamentali diritti umani un numero non precisato di prigionieri politici, per lo più musulmani.

Sono molti gli osservatori che stanno segnalando una ripresa dell’Isis che ha proprio in Iraq le sue propaggini più significative. Con questo viaggio quindi il Papa manda un messaggio preciso anche ai terroristi?
Il papa manda sempre messaggi di pace a tutti e quindi anche ai terroristi, ma è consapevole che a costoro la pace non interessa per nulla. I terroristi di oggi in Iraq fanno capo a scuole teologiche salafite (dal termine arabo salaf al-ṣaliḥīn “i pii antenati”, che hanno condiviso con Maometto l’esistenza terrena), molto vicini al movimento estremista wahhabita, fondato in Arabia centrale, alla metà del XVIII secolo da Muhammad ibn ̔Abd al-Wahhab (1703-1792), con l’appoggio dell’emiro tuttora regnante in Arabia Saudita. Essi combattono l’ala sciita dell’Islam e perseguono un jihad universale: il loro intento è dunque che tutto il mondo diventi musulmano. È chiaro che si discostano clamorosamente dal vero Islam. C’è una sura del Corano molto famosa (5,48), in cui si legge “A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, che a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia”. È il riferimento che molti musulmani citano per giustificare una pluralità religiosa dell’Islam.

Si ha la sensazione che in tutto l’Occidente il viaggio del papa in Iraq non abbia destato molta attenzione. Ritiene che ciò sia dovuto alla pandemia imperante o vi siano altre ragioni?
Il fatto è che per gli occidentali non esiste un vero problema vicino-orientale: ci sono stati che collaborano con l’Occidente (Italia, Europa, Stati Uniti e Israele), l’Arabia Saudita in primis, ovvero quello che è considerato un “Islam buono”, e genericamente gli altri, gli estremisti, soprattutto l’Iran, che rappresentano un “Islam cattivo”. È un errore clamoroso: l’Arabia Saudita è uno dei paesi più intransigenti e integralisti: qui si applica il taglio della mano, l’obbligo del burqa per le donne, la lapidazione… e da qui partono i finanziamenti per i gruppi terroristi fondamentalisti.
L’errore non viene chiarito perché, con l’Arabia Saudita, l’Occidente ha interessi economici e commerciali significativi, che non vuole mettere in discussione. Del resto l’alleanza politica statunitense-saudita è appoggiata anche da Israele, che è storicamente nemico dell’Iran.
Inoltre il papa non riceve attenzione e plauso da tempo, perché si pone in una posizione di severo giudizio verso la politica dell’Occidente, in particolare verso il neoliberismo, con tutto quello che ne consegue in termini di diseguaglianze sociali e di gravissimi danni al pianeta. È noto, inoltre, come il Santo Padre sia fortemente osteggiato da tempo all’interno delle stesse gerarchie ecclesiastiche, nonché da una parte dell’informazione e dell’intellighenzia più conservatrice.