Domenica 28 marzo 2021, Domenica degli Olivi
(o, nella tradizione meridionale e orientale, delle Palme)
LIBRI LIBRI LIBRI
TURCICA
Per quanto il Covid sembri aver fatto passare in second’ordine molti problemi politici e anche di altro àmbito, la Turchia del presidente Erdoğan resta al centro dell’attenzione internazionale, specie in un momento come questo, durante il quale – com’è confermato dalle manovra navali NATO di questi giorni nel quadrante sudorientale del Mediterraneo – la stabilità dell’area viene confermata a rinnovato alto rischio. E molti osservatori attenti si chiedono se il rilancio d’una politica di prestigio e di fierezza nazionale promossa dal presidente, significativamente soprannominato “il sultano”, possa preludere a un allontanamento dal carattere “occidentalistico” della vita quotidiana turca – quel carattere ch’era fin dagli Anni venti del secolo scorso la politica inaugurata da Mustafa Kemal – il che non appare tuttavia probabile, oppure a una generale rivalutazione storica del periodo sultaniale ottomano come diretto predecessore dell’attuale governo, il che sembra evidente data la sempre maggior frequenza delle occasioni di pubblica memoria e di pubblico omaggio al passato imperiale che si moltiplicano in tutto il territorio della repubblica.
Anche i corsi universitari di storia patria nelle università del paese e un rinnovato slancio nell’àmbito della produzione editoriale sembrano confermare questo trend. Ciò ha corrisposto a qualcosa di analogo anche altrove.
Nella più qualificata letteratura storiografica italiana, ad esempio, si è notato negli ultimi anni un progressivo e deciso distanziarsi degli interessi e delle valutazioni nel complesso positive dei rapporti politici, economici, commerciali e culturali tra impero ottomano ed Europa in genere, penisola italica in particolare, rispetto a una produzione divulgativa rimasta ancorata ai vecchi schemi di opposizione e di “eterno conflitto”. Forse, al riguardo, si dovrebbe parlare di un “conflitto cronico ed endemico” tra croce e mezzaluna, con non troppe fasi acute e con la possibilità di momenti e periodi caratterizzati da distensione e da cordialità.
Quando non addirittura da “amicizie” e “alleanze” incrociate. Fra Cinque e settecento quello che si chiamava di solito “il Gran Turco” o “il Gran Signore”, cioè il padishah (titolo ufficiale del sultano, d’origine persiana, significante “gran re” e derivante dal latino Caesar) aveva i suoi diretti nemici cristiani soprattutto nella potenza asburgica austrotedesca e spagnola, ma poteva contare sull’ambiguità della repubblica di Venezia – pronta alla guerra ma disposta sempre agli accordi – e sull’alleanza sul piano pratico (che ufficialmente non si poteva dichiarare) con i re di Francia, degli Asburgo costanti avversari. Peraltro all’impium foedus tra Parigi e Istanbul, sistematicamente denunziato dalla propaganda filoasburgica, corrispondeva il sistematico scambio di accuse tra la Santa sede e i paesi protestanti, che reciprocamente si accusavano di essere “amici del Turco” e “peggiori del Turco”. E infine lo stesso re di Francia, che si fregiava del titolo di Re Cristianissimo, ritorceva l’accusa di essere amico degli ottomani contro i suoi nemici, gli Asburgo, accusandoli di trescare con lo shah di Persia: ed era vero nella misura in cui quest’ultimo, nemico accanito degli ottomani, sarebbe stato felicissimo di vederli spazzati via da una bella crociata cristiana: e gli archivi romani della Società geografica conservano le carte del viaggio diplomatico di un curioso aristocratico dell’Urbe, Pietro della Valle, che ai primi del Seicento aveva raggiunto la reggia di Isfahan, sede dello shah safavide Abbas, per architettare con lui un vasto e complesso piano di “crociata” pontificio-persiana contro il sultano.
È evidente che se queste considerazioni, ben note agli studiosi, fossero in grado di raggiungere il grande pubblico, modificherebbero sostanzialmente la sua visione della storia del Mediterraneo e dei rapporti fra Europa ed Asia nella prima età moderna.
E gli strumenti critici per questa specie di “rivoluzione copernicana” sono già disponibili. Ci limitiamo a citare, fra i molti disponibili, tre casi.
Anzitutto un ampio saggio uscito già un decennio fa, ma non ancor noto come dovrebbe data la sede in cui fu pubblicato. Alludiamo a Il Magnifico e il Turco, uscito nel giugno 2010 nella “Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa mediterranea” edita dal Consiglio nazionale delle Ricerche, dove s’illustra i densi rapporti amichevoli sul piano politico, diplomatico ed economico tra Lorenzo de’Medici e il sultano Mehmet II, che giunse anche a far catturare e consegnare al magnifico uno dei suoi attentatori dell’aprile del 1476, la famosa “congiura dei Pazzi”.
Molte sorprese, per chi sia affezionato ai vecchi schemi oppositivi, provengono poi dal grosso volume di Alan Mikhail, L’ombra di Dio (Einaudi, 2021, trad. it. di L. Fusari e S. Prencipe, pp. 482, euri 35), dove si presenta al pubblico occidentale la figura di un sultano ch’esso è abituato a considerate “minore”, Selim I (1470-2520), stretto com’è tra due giganti, suo nonno Mehmet II che nel 1452 aveva conquistato Costantinopoli e il suo unico figlio maschio Suleiman, che noi conosciamo come “Solimano il Magnifico” e che tra 1520 e 1566 avrebbe governato lo sterminato impero ottomano.
Sterminato, appunto, grazie proprio a quel Selim che noi quasi ignoriamo. E che invece nel 1514 aveva battuto duramente l’armata persiana dello shah Isma’il nella battaglia di Cialdiran, ad est del lago Van, consolidando definitivamente a suo vantaggio una frontiera turco-persiana che restò sostanzialmente solida fino al 1918; e immediatamente aveva dopo attaccato il vicino sultanato mamelucco, che dominava sull’Egitto, la Siria-Palestina e la penisola arabica conquistando nel 1517 Gerusalemme e divenendo dall’anno successivo, almeno in teoria (ma largamente anche in pratica) il sovrano d’un impero immenso, esteso dal Marocco all’Iran e dalla Turchia allo Yemen attuali.
La diffusione in Europa di una nuova bevanda destinata a mutare profondamente le nostre abitudini, il caffè, è il simbolo di questa “preminenza ottomana” tra Cinque e Seicento. Tutti sanno quanto ciò condizionò la stessa politica veneziana. Si cita di solito la vittoria ispano-pontificio-veneziana sui turchi a Lepanto nel 1571, ma si dimentica di valutare appieno il fatto che Lepanto fu una battaglia vinta all’interno di una guerra perduta, quella del 1570-72, che consentì agli ottomani d’impadronirsi di Cipro ch’era stata veneziana sino dalla fine del Quattrocento; e che tra Quattro e fine Seicento il sultanato ottomano controllò praticamente l’intera area balcanica spingendo il suo potere fin quasi alle porte di Vienna, che assediò due volte.
Interessante al riguardo la breve biografia che Mirella Mafrici, studiosa modernista e mediterraneista, dedica a Uccialì. Dalla Croce alla Mezzaluna. Un grande ammiraglio ottomano nel Mediterraneo del Cinquecento (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2021, pp. 148, euri 14). Proprio lui: il leggendario avventuriero calabrese Giovan Dionigi Galeni, “rinnegato” – cioè convertito all’Islam – e noto come Uluç Ali “il Tignoso”, ma anche come “Occhialì” nella bislacca italianizzazione del suo nome o meglio Kiliç Alì Kapudan Pasha, colui che incaricò il celebre architetto Sinan di costruire per lui quella piccola moschea non lontana dal ponte di Galata ch’è una delle più belle di tutta Istanbul e che fu l’unico tra i capi della flotta ottomana ad uscire onorevolmente dallo scontro di Lepanto nel 1571.
Rapporti frequenti di guerra, dunque: senz’alcun dubbio. Ma anche pacifici e proficui. Un bel libro di Cesare Santus, Il “turco” a Livorno, Milano, Officina Libraria, 2019, pp. 219, s.i.p.), ci mostra come “il porto franco” toscano fosse nel Seicento non solo uno scalo internazionale di grande prestigio, non solo la sede d’una colta e fiorente colonia ebraica, ma rigurgitasse di turchi e di “mori”: poveri prigionieri e schiavi delle galee da guerra granducali medicee, senza dubbio, ma anche mercanti e ospiti perfino residenti. E c’erano anche, ovviamente, molti casi di figli nati da coppie miste, legittime o no che fossero. Insomma, una grande familiarità e una profonda vivezza di rapporti sociali. Ma cristiani e musulmani non dovrebbero essere sempre stati “eterni nemici”, come tanti politici e tanti pubblicisti c’insegnano?
E infine, un libro che molti da tempo aspettavano. Lo ha scritto Francesco Zannini, arabista ed islamologo emerito, ed è garantito dalla prestigiosa firma di Paolo Branca, arabista della cattolica di Milano, che ha redatto la Prefazione. Si tratta di Muhammad Fethullah Gülen (Lucca, La Vela, 2021, pp. 321, euri 20). Molti continuano a chiedersi se l’Islam potrà mai “aprirsi alla modernità”, “democratizzarsi” eccetera, e molti altri a credere incrollabilmente – pur senza essersi mai posti seriamente il problema: anzi, forse proprio per quello – che se ciò accadesse esso perderebbe identità e coscienza, si sfalderebbe eccetera. Per tutti loro, questo libro sarà una liberazione: e una rivelazione.
Muhammad Fetullah Gülen è un pensatore musulmano profondamente devoto e al tempo stesso libero da schemi e da condizionamenti, ispirato da un senso morale capace di superare i vari legalismi e formalismi nel nome di una moralità profonda e di un autentico amore per la scienza e per la ricerca della verità. Il suo movimento Hizmet “Servizio”) è stato fondamentale sia nella lotta contro il fanatismo laicista proprio del kemalismo estremistico e al tempo stesso nell’opposizione alla “deriva” personalistica e fondamentalista del regime di Erdoğan. Per questo motivo il movimento Hizmet ha contribuito a rinnovare profondamente le Turchia finché l’ambiguo quanto violento golpe del 2016 non ha fornito al sultano-presidente l’occasione di disfarsi di un movimento sinceramente religioso e al tempo stesso equilibrato e aperto al dialogo. Però, privo dell’azione moderatrice di Hizmet, l’onnipotente leader turco sembra esser caduto preda di un avventurismo privo di coerenza in politica sia interna, sia estera.
Il movimento però continua. Ha sedi, scuole, centri in tutto il mondo e persegue una preziosa azione di educazione al dialogo che oggi appare sempre più necessaria. È una vera speranza per il futuro.