Minima Cardiniana 321/1

Domenica 4 aprile 2021, Pasqua di Resurrezione

AGNUS DEI, QUI TOLLIS PECCATA MUNDI
In apertura del numero della settimana scorsa, Vi avevo presentato alcune considerazioni sul mistero pasquale. Si trattava della sintesi, in forma di breve articolo, di un’intervista da me rilasciata alla giornalista de Linkiesta Daniela Guaiti. Dal momento che la Signora Guaiti acconsente gentilmente alla ripubblicazione integrale di essa, Ve la ripropongo nella forma originaria.

UN’INTERVISTA DI DANIELA GUAITI A FRANCO CARDINI
Come ogni anno alla vigilia di Pasqua tornano le polemiche sulla “strage degli agnelli”…
È il classico tormentone dell’ecologismo malinteso, dell’animalismo indiscriminato. E si piange sull’ecatombe dei poveri agnelli innocenti sacrificati a una tradizione barbarica.

Sia chiaro. Io non pretendo di definirmi “animalista”, anche perché gli “ismi” mi infastidiscono. Però anche a me gli agnelli fanno pena: e solo una volta, dal momento che, ospite in una società e in un mondo splendidamente arcaico, in quanto straniero più anziano avevo io il “privilegio” di scegliere dal gregge l’agnello da sacrificare, mi sono sentito in dovere di assistere anche alla cerimonia della sua uccisione. Toscano, e di antiche radici contadine, grazie a Dio ho sempre evitato il rito dell’uccisione invernale del porco. E mi sono comunque sentito in colpa, perché quelle carni alle quali non ho il coraggio di vedere strappare la vita poi le consumo. Sarei intimamente lieto se la mia Chiesa ordinasse di abolire da ora in poi il pasto pasquale di carne e ci prescrivesse di consumare al suo posto formaggio e uova. Ma siamo figli di Abramo: e la Tradizione va rispettata. Nessuno però si agita nello stesso modo per l’uccisione dei vitelli o dei polli che ogni giorno finiscono sulle nostre tavole. L’intemerato coro di chi piange la soppressione pasquale degli agnellini non trova poi riscontro quando si tratta di altri animali. Siete mai stati in un mattatoio? Io sì, purtroppo, un paio di volte: e non è affatto vero – sappiatelo – che gli animali “non sanno,”, “non capiscono” e soprattutto non soffrono. Ho visto il terrore e la disperazione negli occhi dei tori e degli agnelli; ho constatato di persona che quella dell’eutanasia è una favola ipocrita.

E allora, perché ogni giorno tolleriamo la barbarie seriale e consumistica salvo indignarci una volta all’anno per Pasqua?
Perché abbiamo imparato non già a odiare la violenza e il sangue, ma a odiare il rito: perché è “barbaro” e perché è “inutile”. L’agnello, la vittima innocente: dalle Bucoliche di Virgilio alla Bibbia, al teatro Greco, i riferimenti letterari al candore del sacrificio più gradito alla divinità testimoniano il profondo valore di un rito diffuso in tutte le civiltà antiche. Figura del Redentore, nella cultura cristiana l’agnello diventa simbolo di Resurrezione, centro della Pasqua nelle celebrazioni liturgiche come nelle tradizioni popolari. E in nome di questa tradizione, in Italia la festività pasquale vede da secoli l’agnello protagonista sulle tavole, in decine di preparazioni regionali diverse. Un menu che si scontra con la nuova sensibilità ecologista e animalista: la levata di scudi contro la “strage degli innocenti” non coinvolge solo i vegetariani, ma anche chi consuma comunemente carne durante l’anno. Perché? Perché sembra irrazionale uccidere un animale in nome di un’esigenza rituale, di un credo religioso; ci si indigna di fronte a un’uccisione che “non è funzionale a nulla” e non si riesce a concepire il fine ultimo di un momento rituale.

Insomma, è una questione di tempi e di circostanze. L’uccisione quotidiana a puri fini alimentari è tollerata, ma ci si erge contro le uccisioni rituali…
È un po’ come per il toro nella corrida: che soffre sì, ma dopo quattro anni di vita libera, di sole e di erba fresca, mentre un povero vitello d’allevamento passa la vita legato a una mangiatoia seriale prima di venir abbattuto con un macabro automatico procedimento che non è nemmeno detto sia meno doloroso. Gli uomini di oggi non sono più in grado di capire la necessità di ritrovarsi in comunità a celebrare un rito, che è di per sé uno spreco – e così dev’essere, antropologicamente e ritualmente parlando – e non offre alcun concreto riscontro immediato, alcun vantaggio materiale. Manca ormai la consapevolezza di una identità culturale legata al passato, così come si è perso completamente il valore simbolico della vittima. L’agnello pasquale non rimanda ormai più a nulla: non si conosce più l’arte che lo raffigura, né la musica che lo celebra; si presta attenzione solo al povero animale che soffre in nome di qualcosa che non si può toccare con mano. E lo si vede soffrire perché è sotto i riflettori. Paradossalmente s’ignora la sofferenza di tanti bambini, cuccioli umani, che patiscono fame e malattie, ma non si vedono: poiché in quei casi possiamo voltare la testa da un’altra parte. È il valore immediato dell’apparire quel che domina nella società attuale: possiamo comprare costosi capi di vestiario, spendendo cifre sufficienti a sfamare un intero villaggio africano per settimane: in ciò non rileviamo alcuno scandalo. Ma il sacrificio di un montone in pubblico, come viene ancora oggi richiesto nelle festività tradizionali dell’Islam, quello fa scandalo. Il simbolo come punto di riferimento per l’essere umano si è perso: abbiamo sradicato Dio dal centro della vita, e ci abbiamo messo l’uomo. Ma a patto che questo uomo non attribuisca un valore al cosmo, concepito come una grande macchina che gira senza senso: siamo liberi, dobbiamo essere liberi, ma la nostra libertà è quella dei marinai che, aggrappati a un relitto, vagano nel mare buio sotto un cielo senza stelle a guidarli. Oggi non solo non c’è più posto per il rito, ma neppure per la metafisica. Tutto deve essere centrato sull’uomo nel momento in cui vive, su quella che Nietzsche chiamava “volontà di potenza”: una potenza che non è più quella militare, ampiamente condannata, ma quella del denaro. Tutto viene riassorbito dal sistema economico: basti pensare a che cosa è diventato il Natale, la festa dei consumi assolutamente slegata dal Dio fatto uomo che dovrebbe esserne il centro. Ma il Natale è una porta lasciata socchiusa sull’aldilà. Si continua ad aver paura della morte e a sperare che dopo ci sia qualcosa: e arriva prima o poi il momento in cui, davanti alla morte propria o di una persona cara, si ritorna al pensiero arcaico.

Ma l’agnello è simbolo di resurrezione…
In realtà la Pasqua è oggi una Pasqua senza resurrezione, e senza vittima: si prepara la colomba di farina, acqua e lievito, non si mangia più l’agnello di carne perché a scandalizzare è il sacrificio, la sofferenza in nome di qualcosa di “inutile”. I gesti rituali, spogliati di ogni valore, sembrano fatti in gloria del nulla; rimane solo la crudeltà. Ma nelle società contadine l’animale veniva ucciso con rispetto. Il sacrificio non dà piacere a chi lo compie, anzi, va celebrato con gesti e attitudine carichi di rispetto. Chi compra asetticamente la carne in un supermercato non entrerebbe mai in un mattatoio, ma offre la sua complicità al macello con noncuranza: in una società tradizionale può esserci crudeltà, mai indifferenza. Nelle società tradizionali, al contrario, i sacrificatori vengono addestrati affinché abbiano consapevolezza del loro mandato. In esse non solo il sacrificante, ma tutta la comunità è chiamata a partecipare alle celebrazioni. La collettività si fa parte attiva e, una volta di più, consapevole, della solennità. È questo un altro aspetto che viene a mancare nel nostro modo di vivere. Del resto tutta la società occidentale si regge su un rovesciamento di gesti e di ruoli: un tempo si lavorava da soli o in piccoli gruppi, per poi partecipare alle festività tutti insieme. Oggi Dio è morto: non c’è più necessità di ritrovarsi per glorificarlo, mentre solo il lavoro è diventato occasione di socialità. Si lavora insieme – ma tuttavia la massificazione non è comunità – e si festeggia da soli, o al massimo con il proprio nucleo familiare. La festa è stata abolita e sostituita con il tempo libero: cambia la qualità; il tempo della festa era dedicato a qualcosa di altro da sé, alla comunità o alla divinità; era un tempo diverso da quello della quotidianità, in cui ci si vestiva con cura, si compivano ritualità precise, si mangiavano cibi speciali. Una liturgia non solo religiosa, ma fatta di abitudini secolari codificate. Oggi al contrario la festa non c’è più, c’è il “tempo libero” in cui ciascuno può fare quello che vuole, libero dai doveri del lavoro. Abbiamo rinunciato a scandire la nostra vita con momenti di spiritualità collettiva. Ma in una società dominata dall’indifferenza, l’agnello continua comunque a far discutere e a far emergere le contraddizioni presenti nel nostro mondo. E per chi non rinuncia a cucinarlo, come per chi non tollera che venga ucciso, continua in fine dei conti a essere un simbolo: così come lo è stato finché la civiltà occidentale non si è trasformata in Modernità, vale a dire in trionfo dell’individualismo e del primato dell’economia.