Minima Cardiniana 321/3

Domenica 4 aprile 2021, Pasqua di Resurrezione

A PROPOSITO DI “CARDINI VS. DE BENOIST”: UN CHIARIMENTO
Alla vigilia delle elezioni statunitensi, il noto studioso e giornalista Alain de Benoist aveva sostenuto, tra l’altro (e nel corso di una serie d’interessanti considerazioni) di preferire una vittoria di Trump a una di Biden, che avrebbe comportato disastrosi effetti specie sul piano della politica estera e del prepotere della vicepresidentessa in pectore, Kamala Harris. Commentando tale posizione, mi era capitato di affermare (come leggerete se avrete la pazienza di scorrere l’allegato dossier): “la sottintesa dichiarazione di de Benoist, che sarebbe disposto a votare Trump piuttosto che Biden, francamente mi ripugna”. Intendevo dire – e credevo, anzi speravo, che il tutto sarebbe stato chiaro – che, pur concordando con i motivi per i quali de Benoist paventava l’elezione di Biden al punto dal preferirle una conferma di Trump, personalmente non me la sentivo di avallarla per motivi non politici, non strategici, non tattici, non diplomatici, bensì di fondo e di principio: Biden è un pessimo politico e si sta rivelando uno statista disastroso, ma Trump appartiene al tipo di persona che in un paese civile non andrebbe mai preso in considerazione – per pure ragioni etiche, e magari anche culturali – per un pubblico incarico.

È accaduto che la mia affermazione sia stata estrapolata e tradotta in uno slogan tanto perentorio quanto sviante: Cardini versus De Benoist. Spiego nelle pagine che seguono, riproducendo cose da me scritte dopo l’articolo nel quale esprimevo ripugnanza (non per de Benoist, ovviamente, bensì per l’ipotesi da lui configurata), non solo che la mia ammirazione e la mia stima per lo scrittore francese – che è anche un caro amico – permangono intatte, ma che resto d’accordo con moltissime delle cose ch’egli dice e scrive. Dal momento che, all’indomani della malaugurata elezione di Biden, mi capitò di tornare sull’argomento de Benoist in termini che, anche se ce ne fosse stato bisogno, avrebbero ampiamente fugato ogni dubbio riguardo il mio pensiero nei suoi confronti, ho trovato bizzarro che di “Cardini versus De Benoist”, con allusione a una cosa scritta il 18 ottobre, si sia parlato dopo che il 24 gennaio era uscito sui “Minima Cardiniana” lo scritto che leggerete qui sotto.
Per vostra comodità, ripubblico anzi l’intero
dossier della questione che ha dato origine a quello slogan che, poco giustificato prima del 13.12.u.s., lo sarebbe stato già di meno dopo tale data e, soprattutto, all’indomani dell’Editoriale e delle “Re-tractationes” del 24.1. successivo, dei quali chi ha messo in giro il “Cardini versus De Benoist” avrebbe dovuto – eticamente e metodologicamente – tener conto. Dal canto mio, per onestà e correttezza, ho ripubblicato qui integralmente, nel corpo delle “Re-tractationes” del 24.1.2021, anche l’articolo del 18.10.2020 che era stato causa del “Cardini versus De Benoist”. Mi si fa notare che non è obbligatorio leggere i “Minima Cardiniana” e che è legittimo ignorarli. Giustissimo. Replico però che, se e quando liberamente si parla di qualcuno, e lo si fa in sedi che pur essendo pubblicistiche ambiscono a una qualche dignità, è sempre corretto essere informati e aggiornati. Chi non lo fa, se è e/o vuole presentarsi come uno studioso o un pubblicista serio, i casi sono due: o trascura intenzionalmente di farlo, e allora è un disonesto; o lo trascura involontariamente (qualcosa sfugge sempre e nessuno è infallibile), e allora va tutto bene ma, per onestà, deve pubblicamente scusarsi.

“Minima Cardiniana” 305, Domenica 13 dicembre 2020
ASPETTANDO IL 2021
PUÒ UN INCOMPETENTE PARLARE DI POLITICA?
Confiteor. Siccome sono un professore di liceo diventato docente universitario e addirittura cattedratico per puro caso, non mi sono ancora abituato all’idea: non sarò mai un accademico. E, come tale, non mi prendo e non mi prenderò mai sul serio. Difatti adoro le critiche intelligenti, anche se durissime, e non me la prendo di quelle in malafede: ma detesto gli elogi. Per questo sono molto grato a un mio caro amico – severo e sussiegoso “scienziato della politica”, lui – il quale bontà sua sostiene che sono un discreto storico (e qui si sbaglia), ma che non capisco nulla di politica. È verissimo: mica è facile capirci. E poi io sono per natura un impolitico-antipolitico. Però, dopo avergli chiesto scusa, debbo avvertirlo che qua e là continuerò a cercar di capirci qualcosa. Perché non è che sia un nostro diritto (io ai diritti ci credo poco), ma è purtroppo un nostro dovere di cittadini. E io sono un galantuomo, quindi cerco di essere un buon cittadino.
Così, mi tocca di occuparmi di politica contemporanea: anche perché per decenni ho lavorato sui rapporti tra Europa e Islam, e il mio amico politologo pensava che almeno su ciò qualcosa ci capissi (ma ha cambiato idea da quando si è reso conto che io i gommoni dei migranti non li colerei volentieri a picco, donne e bambini compresi). Inoltre ho una vecchia passionaccia per l’Europa unita, da vecchio europeista. Il che vuol dire cha almeno di politica estera bisogna che un pochino mi occupi: e prova una volta di più che sono fuoristrada, in quanto in Italia di politica estera non si occupa nessuno (e perché dovrebbero? Tanto ci pensano gli americani e la NATO).
Come politologo sballato, avevo fatto una profezia prima delle elezioni USA: vedrete che vincerà il peggiore. Ma chi, mi chiedevano: Biden o Trump? Vincerà il peggiore, appunto: e sarà il peggiore proprio perché vincerà, chiunque vinca.
Difatti, se avesse vinto Trump sarebbe stato un disastro. Ha vinto Biden, ed è un disastro. In una direzione opposta, magari: ma disastro comunque. Biden vuol dire Atlantico che si restringe; patti NATO che si rafforzano con nostro danno politico, ecologico, diplomatico e militare; Italia costretta ad assumere atteggiamenti contrari alla morale obiettiva e ai propri soggettivi interessi; assunzione di un ruolo forzatamente ostile nei confronti di paesi come Russia, Cina e Iran, con forti perdite commerciali nella migliore delle ipotesi.
Quanto alle nostre cose interne, una prova in più del fatto che la politica nel nostro paese è scesa di gran lunga sotto i livelli di guardia sta nel fatto che i due protagonisti della vita pubblica dei prossimi mesi saranno due personaggi entrambi dotati di scarsa esperienza parlamentare ma che (proprio per questo?) hanno dimostrato di saper tenere in scacco il parlamento. Conte appare da tempo in procinto di affondare e continua a comportarsi da inaffondabile. Renzi lo davano per spacciato e invece è riemerso alla grande. Ma la cosa più allarmante è che entrambi stanno concorrendo alla carica di Gauleiter del triste Biden e della sua terribile vice (soprattutto di quest’ultima): Conte è ben deciso a mantenere la barra fissa sulla rotta della portaerei USA – quindi gli esiti diplomatici della faccenda Regeni non si decidono né a Roma né al Cairo, ma a Washington –, Renzi brama addirittura di occupare la poltrona di comando della NATO, come gli è stato promesso. E gli altri? Dem e pentastellati allo sbaraglio, polverizzati, in cerca di nuove formazioni e di nuovi leaders; Salvini che sente in ribasso le riserve di voti alimentati dalla paura dei migranti e, non essendo affatto certo ch’esse possano riempirsi di nuovo, si guarda disorientato intorno; populismo e sovranismo fiaccole ormai languenti; Giorgia Meloni (una dei pochi esponenti politici di punta che faccia seriamente politica, per quanto il contesto dei suoi sostenitori non l’aiuti granché) che forse non si è ancora riavuta dallo scivolone che le fecero fare mesi fa mal consigliandola sulla questione Bannon ma alla quale è scappata di recente una parola magica: confederalismo. In effetti, sarebbe quella una strada realistica verso quell’unità politica dell’Europa tanto più necessaria quanto meno se ne parla. Ma per il momento l’idea lanciata è rimasta per aria e tutti hanno guardato altrove.

Minima Cardiniana” 311, Domenica 24 gennaio 2021
EDITORIALE
VE LO DICEVO IO…
Grande scienziato della politica, Marco Tarchi. Si dice proprio così, in termini accademici ufficiali: “scienziato della politica”; non storico della politica, né politologo, che sono altre cose. Lo so che “scienziato della politica” può sembrare retorico o ironico, ma non è così. Come la scienza delle finanze, la scienza della politica è una disciplina a carattere sistematico, non fenomenologico alla stregua della storia della politica né esegetico alla stregua della filologia.
Ed è alla luce della scienza della politica che Tarchi scrisse alcune settimane fa un saggio breve ma esemplare spiegando perché la prospettiva di una vittoria di Biden fosse peggiore di quella di una vittoria di Trump. Molti la presero per un’esagerazione, altri per una provocazione. Non era così. Tarchi non è un “ragazzaccio”, non ama scherzare sul lavoro (e poco anche fuori da esso) e ama i paradossi solo se apparenti.
Debbo dire – come molti di voi sanno, in quanto è non infrequente che i suoi e i miei interlocutori coincidano – che non sempre siamo dello stesso avviso o sulla medesima “lunghezza d’onda”. Debbo però aggiungere che, di generazioni differenti (ottantenne io, non ancora settantenne lui) abbiamo radici molto simili e condividiamo alquante cose.
In estrema sintesi, e in grossolano consuntivo, Tarchi faceva notare come il brutale e imprevedibile Trump fosse molto pericoloso (che detenesse la famosa “valigetta nucleare” era roba da mettere i brividi) ma anche asistematico, umorale, piuttosto isolato in sede tanto interna quanto internazionale: c’era da aver paura dai suoi colpi di testa, questo sì – che abbia definitivamente regalato a Netanyahu Gerusalemme e praticamente la Palestina non si può certo perdonarglielo –, ma in fondo era solo una variabile inaspettata della tendenza storica del Grand Old Party all’isolazionismo, quanto può essere isolazionista una superpotenza che sa di essere la prima mondo e vuole restar tale… e non illudiamoci con la mitologia “plurilateralista” del buon vecchio Obama, il quale sapeva per primo che gli USA hanno un primato che sarà duro da scalzare e da contrastare, quello militare. Biden è un’altra cosa, argomentava Tarchi: sbiadito finché volete, ma portavoce di un “sistema imperialistico” di segno appunto democratico, fondato sull’interventismo democratico e sulla ferma convinzione che Dio abbia assegnato all’America il ruolo del gendarme mondiale della Verità e della Giustizia e che l’interesse statunitense e l’interesse del genere umano coincidano. Non a caso, da Roosevelt a Kennedy allo stesso “premio Nobel (preventivo) per la Pace”, le guerre americane le fanno i democratici, non i repubblicani. Inoltre, Tarchi segnalava l’“incognita Kamala Harris”, che poi troppo incognita non era (e non è): una pericolosa fondamentalista in grado di proseguire, con maggiori prospettive di successo politico, sulle orme di Hillary Clinton e di Madeleine Albright.
Molto più rozzamente di Tarchi, io aggiunsi a suo tempo che nel nostro futuro non c’era un rischio, bensì purtroppo una triste, paurosa certezza: le elezioni statunitensi del 2020 le avrebbe vinte il Peggiore. Paradossalmente, ma implacabilmente, l’unica possibile risposta era: le elezioni saranno vinte dal Peggiore in quanto sarà il Peggiore a vincerle. Ma chi sarà il Peggiore? Basta aspettare, rispondevo: la risposta la daranno le urne.
Illogico? Provocatorio? Demenziale? Niente di tutto questo. Non esiste un solo modo di essere “peggiori”.
Un Trump vincitore avrebbe significato l’aggravarsi della politica di forzature interne e internazionali, di colpi di testa, di talora contraddittorie prevaricazioni, di populistica ricerca di facili consensi in ambienti dequalificati, di sperimentalismo avventuristico in economia e in finanza, di ostentazioni muscolari in diplomazia: con conseguenze imprevedibilmente rovinose.
Un Biden vincitore, abbiamo già capito che cosa significa: la sistematica ripresa del sogno di un’America coesa e pacificata al suo interno, ormai davvero “nazione”, ma leader nel progressismo dottrinario e utopistico internazionale. Peraltro, al preteso livellamento etnosociale del popolo statunitense non corrisponderà affatto – attenzione – un’effettiva pacificazione etnica o sociale, bensì un inciucio illusorio giustificato da una sorta di ideologia fondata sul “suprematismo americano” travestito da unitarismo di tipo mondialistico il cui dogma inattaccabile e indiscutibile sarà quello degli USA alla guida della pace e della libertà mondiali, con l’individualizzazione sempre più chiara dei Nemici Metafisici, degli Agenti del Male che minacciano l’equilibrio del pianeta. Certo, la propaganda insisterà sulla lotta ecologistica e umanitaristica per l’ambiente, per l’integrazione etnoculturale e socioreligiosa, contro l’inquinamento, contro razzismo e suprematismo eccetera: ma nella pratica l’alleanza tra il governo democratico e il deep state delle corporations continuerà a favorire il distanziarsi della “forbice” tra i super-ricchi in numero sempre minore e la proletarizzazione nonché la sottoproletarizzazione degli USA e del mondo. Biden e la Harris chiederanno all’Europa una collaborazione sempre più stretta, cioè una sua subordinazione sempre più rigida: e l’Atlantico sta già avvicinando le sue sponde, divenendo ogni giorno più stretto, e i governi europei sono complici e succubi di tutto ciò; la NATO si rafforzerà sempre di più e diverrà sempre più pervadente e aggressiva, e tanto peggio per i paesi che, come l’Italia, hanno cercato di seguire una politica antinucleare e si ritrovano adesso zeppi di missili ch’essi non sono abilitati a gestire e che sono puntati contro chissacchì, sul ciglio di guerre future che dovranno combattere senza che li riguardino (pacifisti di sinistra, fatevi sentire! Sovranisti di destra, ora è il momento del “Va’ fuori d’Italia, va fuori o stranier!”).
E il Nemico Metafisico? Il discorso sarebbe lungo, ma basti un’indicazione sintetica. Biden & Co. hanno una bestia nera: il loro demonio è il “triangolo” russo-cino-iraniano, e la crociata contro questo nuovo pericolo è già cominciata. Dove avverrà l’attacco? Occhio alla Siria e al fronte caucasico-eurasiatico, naturalmente; ma qualche sorpresa potrebbe arrivare dall’Africa o dall’America latina. Ve lo dicevo che avrebbe vinto il peggiore. E, quanto al resto, diamoci appuntamento fra qualche mese per controllare che cosa di giusto e che cosa di sbagliato c’è in quest’analisi. Molti politici italiani hanno già mangiato la foglia e si stanno preparando: Renzi ad esempio, ma anche Conte…

“Minima Cardiniana” 311, Domenica 24 gennaio 2021
RE-TRACTATIONES
L’italiano “ritrattazione” e il latino retractatio sono due “falsi amici”. La parola italiana sa malinconicamente di questura, di furbastrerie, di quacquaracquà: “ha confessato e poi ritrattato”. Il termine latino è severo e nobilissimo: trattare di nuovo quanto si è già trattato, giungendo magari con serena onestà a conclusioni opposte. Bisogna pur avere il coraggio di “ri-trattare”: tra uomini liberi, dovrebb’essere pratica abituale e consueta: aiuterebbe a capire e ripulirebbe le coscienze.
Non è sport praticato. Proviamo a farlo qui, nel nostro piccolo.

(da “Minima Cardiniana” 297, domenica 18 ottobre 2020)
LA LUCIDITÀ DI UN INTELLETTUALE “ISOLATO”
A PROPOSITO DI UN’INTERVISTA AD ALAIN DE BENOIST
Nei confronti di Alain De Benoist, una delle migliori intelligenze critiche e degli spiriti più liberi d’Europa, si continua da troppe parti a mantenere un atteggiamento improntato a un’ingiustificabile ostilità. Chi però è esente da pregiudizi di sorta non può non ammirarne l’intelligenza, il coraggio e l’ampiezza di prospettive.
Tali doti si sono confermate nel corso di una recente intervista a proposito della situazione internazionale che De Benoist ha concesso a Nicholas Gauthier ed è stata edita col titolo rivelatore La victoire de Donald Trump est souhaitable, faute de mieux…, il 15 ottobre 2020, sul sito “Boulevard Voltaire”.
Sono un vecchio ammiratore di Alain De Benoist e mi onoro anche della sua amicizia. Non posso dire di trovarmi sempre, su tutto e del tutto d’accordo con lui, ma senza dubbio i suoi giudizi mi trovano molto spesso decisamente consenziente. Confesso di aver esitato dinanzi al titolo di questa intervista, con il contenuto della quale concordo
obtorto collo. Su due piedi ho pensato a una boutade provocatoria: ma De Benoist non è uomo da boutades. Ecco quanto afferma nella prima risposta alla domanda dell’intervistatore, e temo che il suo parere corrisponda a uno di quelli che Dante avrebbe qualificato come “invidïosi veri”:

“Auspico la sua rielezione [di Donald Trump], ma per difetto o in mancanza di meglio. Come Lei sa, il personaggio non ha molto da farmi piacere. Non è tanto quello che gli si rimprovera abitualmente (il suo stile, la sua brutalità, la sua volgarità) che mi sconvolge, perché penso che sia invece ciò che gli vale di essere apprezzato da molti americani, quello che ci si ostina a non capire da questa parte dell’Atlantico. È piuttosto che il suo progetto mi sembra nebuloso, che la sua politica estera è a mio avviso esecrabile e che l’uomo non è adatto a guidare quella che rimane (almeno provvisoriamente) la prima potenza mondiale. Al giorno d’oggi ci sono fondamentalmente solo tre veri capi di stato nel mondo: Vladimir Putin, erede dell’ex impero russo, Xi Jinping, erede dell’ex impero cinese, e Recep Tayyip Erdoğan, che cerca di ricreare l’ex impero ottomano. Donald Trump ha senza dubbio delle qualità, ma non ha la dimensione di uno statista.
Allora, perché sostenerlo? Perché Joe Biden è cento volte peggio. Non per la sua personalità insulsa e stanca, ma per tutto ciò che rappresenta: l’Establishment, lo Stato profondo, la sottomissione all’ideologia dominante, l’immigrazionismo, il progressismo, il capitalismo deterritorializzato, il politicamente corretto, Black Lives Matter, i media mainstream, insomma quell’abominevole New Class di cui la strega Hillary Clinton era già rappresentante quattro anni fa. Per sbarrare la strada a Joe Biden e alla sua collega Kamala Harris (che avrebbe buone possibilità di succedergli durante il suo mandato), sarei persino pronto a votare Mickey!”.

Confesso, anzi dichiaro, che in questa serrata, lucida analisi quasi tutto mi convince e mi trova consenziente. Certo, non so se arriverei a votare Mickey: personalmente e caratterialmente, preferirei Donald Duck. Con tutto ciò, la sottintesa dichiarazione di De Benoist, che sarebbe disposto a votare Trump piuttosto che Biden, francamente mi ripugna. Per quel po’ che so degli USA (non proprio pochissimo: in fondo, ci ho lavorato per certi periodi, ho molti amici là, ci vado spesso) e soprattutto di me stesso – lo confesso: ho un fondo passionale e fazioso del quale non mi vanto ma che non sempre riesco a controllare –, forse finirei con l’esprimere un “voto di protesta”, cioè un non-voto, o con il non andar a votare. Lo confesso: non me ne vanto per nulla. Tuttavia a favorire il paradossale e strumentale “trumpismo” di De Benoist concorrerebbe anche l’ipotesi che esso in un modo o nell’altro valga ad affrettare quel definitivo tramonto dell’impero americano che, auspicabile e ineluttabile comunque, l’analista francese sembra ritenere più prossimo di quanto non creda, per esempio, l’équipe della rivista “Limes” i pareri della quale, anche se non sempre condivisibili, sono di solito attendibili.
Ma proprio in questo se le posizioni di Trump sono esiziali (specie, appunto, in politica estera), quelle di Biden e delle forze che stanno dietro di lui sono di gran lunga peggiori: una sua permanenza futura alla Casa Bianca sarebbe pericolosissima, inferiore solo per i rischi che ci farebbe correre una presidenza della signora Clinton la quale incarna perfettamente (e forse in misura esponenziale) il vecchio adagio secondo il quale, negli USA, le guerre le fanno regolarmente scoppiare i democratici. Vero è tuttavia che, dalla fine del secolo scorso, all’interno del Partito repubblicano si è verificata quella mostruosa metamorfosi della quale è stato sintomo il PNAC della cerchia neoconservative che portò George Bush jr. al potere: ormai, l’Elefante Blu non è più quello della politica “del piede di casa” contrapposta all’aggressività paludata di umanitarismo dell’Asino Rosso. Nell’analisi debenoistiana riguardante Biden e le forze ch’egli rappresenta e che lo sostengono, l’unica cosa a non convincermi è quello ch’egli definisce “immigrazionismo” e l’effettiva esistenza del quale non riscontro: anzi, la ritengo francamente un alibi complottistico. Che i migranti possano “essere utili” a qualcuno deciso a sfruttarne la presenza, d’accordo; che il loro multiforme movimento sia consapevolmente “guidato” da centri pronti a sfruttarlo economicamente o a inquinare etnoculturalmente il mondo occidentale, questo no. Resta il dovere di far di tutto per disciplinare il movimento immigratorio: ma ciò non può risolversi nell’adozione di misure disumane che ci disonorerebbero. Il punto è semmai – soprattutto per l’Africa – la necessità di spezzare rottura dell’infausto triangolo di complicità tra le lobbies internazionali che gestiscono le ricchezze del continente africano razziandole senza pietà, i corrotti governi africani che consentono lo sfruttamento indiscriminato e se ne rendono corresponsabili e, infine, i governi delle grandi potenze che occupano come membri permanenti il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e gestiscono cinicamente il loro “diritto di veto” vanificando qualunque progetto risolutorio da parte delle Nazioni Unite. Siamo lontanissimi dall’avviare al riguardo una soluzione: già molto sarebbe cominciar a diffondere queste realtà, a farle conoscere, a renderle di pubblico dominio.
Ma torniamo a De Benoist: egli ha ribadito la sua convinzione secondo la quale ormai il centro del gioco politico mondiale si è di nuovo attestato nei tre continenti del vecchio mondo: il great game del XXI secolo è dominato dalle tre potenze “imperiali” cinese, russa e turca, in un assetto “triangolare” in cui il jolly, o se si preferisce la
plaque tournante, è costituita dalla politica “neo-ottomana” di Erdoğan.
Le osservazioni di De Benoist introducono a una serie di considerazioni politiche e geopolitiche di grande interesse. Si vanno sempre più insistenti le voci relative al “sogno” del nuovo sultano: riportare a Istanbul la capitale della Turchia, spostandola da Ankara nella quale egli ha pur fatto costruire, pochi anni fa, una favolosa residenza presidenziale. Ma egli non ignora affatto – al contrario! – che tale mossa (a parte le difficoltà d’ogni genere, dalle politiche alle economiche alle militari alle diplomatiche) espliciterebbe un definitivo distacco dai presupposti kemalisti sui quali la Turchia moderna è fondata: con conseguenze sui piani interno e internazionale difficilmente calcolabili. Essa inoltre costituirebbe una più dura sfida alla compagine cristiano-ortodossa, che ha nella Nuova Roma il suo venerabile centro simbolico e che non ha ancora metabolizzato il vulnus nei suoi confronti del ritorno di Santa Sofia al ruolo di moschea. E sarebbe infine un nuovo atto di ostilità contro la Russia di Putin che considera la “Terza Roma”, Mosca, strettamente legata alla “Seconda Roma” sul Bosforo. L’ostilità tra Russia e Turchia moderne è un dato costante nella geostoria e nella geopolitica eurasiatiche dell’ultimo mezzo millennio: e ad esse si connette il complesso quadro d’un equilibrio di alleanze e di reciproche simpatìe che collega la Santa Madre Ortodossa alla Grecia (nonostante la rivalità tra i due patriarcati) e la Santa Madre Slava ai paesi slavi ortodossi, nonostante le persistenti ombre determinate dal ricordo dell’egemonia sovietica e la politica statunitense che – dalla Georgia all’Ucraina alla Bielorussia – da anni sta lavorando alla destrutturazione dei confini dell’impero putiniano.
Ora, il gioco si sta incentrando sul Mediterraneo, dove sempre più presenti sono la Russia e soprattutto al Cina con il progetto One Belt One Road e dove l’aria si fa più rovente a causa dei due contrapposti progetti di gasdotto. Qui, il ruolo di Erdoğan è centrale: per certi versi potrebbe esser favorevole al progetto a testa saudito-israelo-americana, che lo collocherebbe una volta di più su un campo avverso rispetto alla Russia (secondo i più sacri parametri geopolitici secondo i quali Russia e Turchia sono costantemente avversarie) ma per altri dovrebbe avvicinarlo a Cipro e quindi alla Grecia, cosa per lui improponibile; tantopiù che in questo momento egli è ai ferri corti con la NATO.
Ma ecco entrare a questo punto di nuovo l’“impero americano” che, come non cessa di ricordarci la solerte équipe della rivista “Limes”, può anche essere in difficoltà ma è tutt’altro che tramontato. Quello USA-Israele-Arabia saudita è ormai l’asse portante della politica vicino-orientale, in relazione al quale tutte le potenze dell’area, se non del mondo, sono obbligate a ordinarsi: o per appoggiarlo, o per opporvisi. Un’ulteriore minaccia, rispetto alla quale – torna ad aver ragione De Benoist – una Hillary Clinton al potere sarebbe molto più pericolosa per l’equilibrio planetario. Già Obama, premio Nobel “a scatola chiusa” per la pace, sarà stato uomo pacifico ma durante il suo governo si dimostrò ben poco pacifista e non riuscì nemmeno (con tutte le buone intenzioni) a chiudere il carcere di Guantanamo, una vergogna sul piano del diritto internazionale e dei diritti umani. La politica vicino-orientale di Trump è stata disastrosa specie nell’appoggio ch’egli ha fornito alle dissennate scelte di Netanyahu, lesive nei confronti dell’equilibrio del mondo e in assoluto della giustizia. Ma le forze che hanno consentito al governo israeliano di collocarsi con decisione in contrasto rispetto alle indicazioni della comunità internazionale sono ben più decisamente influenti nel campo del Partito Democratico e quindi fra coloro che circonderanno presumibilmente Biden e che saranno in buona parte dei proconsoli della potentissima Hillary Clinton Corporation. Un rischio in più per il mondo: e una ragione per tener conto del parere di De Benoist?

Questo scrivevo, ohimè, nell’ottobre scorso: lo riscriverei, parola per parola, oggi. E mi ricollego a quanto scrivo qui nell’Editoriale. L’incubo si è trasformato in dura realtà. Sarebbe lo stesso, con alcune variabili, se avesse vinto Trump? Certo. Con una differenza, però: che l’incubo-Trump è rimasto per aria, nel mondo dei “possibili-non-realizzati”; quello Biden è qui, e per giunta dobbiamo affrontarlo fra i gridolini di gioia di tanto buoni e sinceri democratici. Ne riparleremo tra alcuni mesi.