Domenica 18 aprile 2020, San Galdino (“la Domenica di Emmaus”)
LIBRI LIBRI LIBRI
Federico Canaccini, 1289. La battaglia di Campaldino, Laterza, 2021, 256 pagine, 20,00 euri
L’11 giugno 1289, a Campaldino, nella angusta valle del Casentino, si scontrano due grandi eserciti capeggiati da Firenze e da Arezzo. 20.000 fanti e oltre 2.000 cavalieri divisi da rivalità ideologiche, volontà egemoniche e interessi economici. Infatti le città toscane sono tutte guelfe e Firenze è ormai assurta al rango di vera e propria potenza regionale, i Ghibellini sono ridotti all’esilio e trovano rifugio in sparuti capisaldi come Pisa e Arezzo. La guerra che si apre allora è per una parte una guerra di sopravvivenza, a fronte di un contesto internazionale che vedeva il campo imperiale in gravissima difficoltà, per l’altra è di affermazione di un dominio e di una centralità che non accettano rivali o resistenze. Dopo due anni dall’andamento incerto e dalle sorti altalenanti, il conflitto si decide in un unico scontro. Una battaglia entrata nella storia perché non si trattò soltanto dell’ennesima guerra tra Comuni, così frequenti nel Medioevo italiano, ma anche tra fazioni e persino di guerra civile, militando fuorusciti nell’uno e nell’altro schieramento. A Campaldino, tra i cavalieri della prima schiera, quelli che avrebbero dovuto eseguire le azioni più temerarie, vi è un giovane Dante Alighieri che non dimenticherà facilmente le scene agghiaccianti di quel giorno di sangue, lasciandone traccia nella sua Commedia.
Dott. Federico Canaccini, Lei è autore del libro 1289. La battaglia di Campaldino edito da Laterza: perché la battaglia combattuta l’11 giugno del 1289 tra gli eserciti capeggiati da Firenze e Arezzo è entrata nella storia?
Forse perché tra i cavalieri fiorentini c’era un giovanotto, tal Dante Alighieri… ma non solo. Lo scontro militare combattuto ai piedi di Poppi, tra Certomondo e Campaldino, è assolutamente ben documentato, da fonti numerose e di varia natura. Abbiamo due cronache, quella succinta di Dino Compagni e quella molto dettagliata di Giovanni Villani, altri cronisti in parte dipendenti dal Villani, diversi Annali che riportano informazioni sulla battaglia e poi l’opera poetica di Dante Alighieri la cui partecipazione ormai non viene messa più in dubbio da nessuno e che ha consacrato la battaglia all’eternità con i suoi versi immortali. Se la battaglia di Campaldino non fu fondamentale e risolutiva nello scontro tra le principali protagoniste, Firenze ed Arezzo, non di meno essa riveste un certo peso nella storia dell’arte militare, dal momento che furono impiegate delle innovazioni tecniche e tattiche di indubbio rilievo.
Quali vicende condussero allo scontro?
Nel mio libro una lunga parte è dedicata alle vicende che precedettero le dichiarazioni di guerra. Da una analisi più approfondita delle fonti in nostro possesso, è infatti emerso che i Magnati guelfi di Firenze, esclusi ampiamente dai consigli politici della città gigliata, pur di rientrare in gioco, misero in atto una strategia a dir poco spregiudicata. Se la mia ricostruzione è corretta si trattò di un vero e proprio lavoro di intelligence guelfa, attuato per consentire ai Magnati di tornare ad avere un ruolo in politica.
Ad Arezzo un Priore del Popolo aveva estromesso i Magnati di entrambe le fazioni ed il vescovo: questi, per una volta d’accordo sia coi Guelfi che coi Ghibellini, cacciò il priore proveniente da Lucca. Le fonti ci dicono che fu arrestato, che fu accecato, che fu affogato nel castello di Civitella ma… dopo alcuni anni lo troviamo ancora vivo a redigere atti in quel di Lucca. Eppure fu proprio questo “omicidio fantasma” uno dei motivi addotti in Firenze per muover guerra contro Arezzo; come lo fu il fatto che i Ghibellini avrebbero cacciato i loro avversari impadronendosi del potere. Ma analizzando meglio le fonti, forse i Ghibellini non fecero che anticipare la mossa dei Guelfi, peraltro indotti proprio dai Fiorentini a tentare di prendere il comando. Ed ecco che così un altro casus belli fu servito su un piatto d’argento. I guelfi aretini chiesero aiuto ai cugini fiorentini per poter rientrare in città e per farlo, l’unico mezzo, era la guerra, l’arte in cui i Magnati eccellevano!
Quali erano le forze in campo?
Si trattava di eserciti per molti aspetti simili, per altri profondamente diversi: quello guelfo, pur servendosi di armi analoghe a quelle nemiche, si caratterizzava per una assoluta modernità, specie nella fanteria. Se le forze a cavallo infatti erano pressochè identiche, quelle appiedate mostravano come Firenze avesse già vinto, almeno sulla lungimiranza: vi era stato infatti un enorme investimento in alcuni reparti speciali che andavano a costituire una specie di “falange oplitica” del Duecento. Davanti i pavesari, fanti protetti da un enorme scudo, erano sistemati uomini con lance lunghe e poi arcieri e balestrieri. Con questo sistema ben rodato i Fiorentini avrebbero stritolato il nemico in una tenaglia mortale: di contro, lo dice il Compagni, gli Aretini “aveano poche quadrelle”, cioè le munizioni delle balestre. E si badi bene che l’arma era considerata anche poco onorevole: che un popolano potesse colpire un nobile da lontano, senza guardarlo negli occhi, ciò era considerato fuori dalle norme di un codice cavalleresco che però, ormai, era ammuffito. Negli eserciti militavano grandi nomi del tempo, condottieri famosi. Tra i Ghibellini spiccavano i nomi di Guglielmo dei Pazzi, di Buonconte da Montefeltro, del conte Guido Novello dei Guidi, il vescovo Ubertini, l’orvietano Guiderello Filippeschi., il vicario imperiale, Percivalle Fieschi. Dall’altro lato l’esercito guelfo schierava una serie di contingenti provenienti da tutta la toscana e ancora da Bologna e persino dalla Romagna: i fiorentini Corso Donati e Vieri de’ Cerchi, Maghinardo Pagani, Tommaso da Henzola, Malpiglio Ciccioni, Barone dei Mangiadori, e poi un esotico drappello di cavalieri francesi al comando di Amerigo di Narbona e Guglielmo Berardi da Durfort. In tutto erano circa 20000 uomini: il rapporto però era di circa 3 guelfi contro 2 ghibellini.
Come si sviluppò lo scontro militare?
I ghibellini intesero lo scontro in modo tradizionale, benché nel corso della campagna avessero dato prova di maggior intraprendenza rispetto agli avversari. A causa della inferiorità numerica l’unica possibilità era quella di tentare di sfondare le linee nemiche con una potente carica di cavalleria, confidando anche nella perizia militare dei propri comandanti. Di contro, i guelfi attesero l’urto, dopo aver disposto, ai lati dello schieramento, quelle ali di pavesari che avrebbero decretato la loro vittoria.
La carica ghibellina dovette essere quasi sul punto di riuscire e la schiera grossa “rinculò buona pezza”. Però, nonostante tutto, l’esercito guelfo resse e iniziò lentamente a recuperare terreno. Una volta spentasi la forza iniziale, furono ingaggiati combattimenti individuali. Una mossa non prevista decretò l’inizio della rotta: le riserve comandate da Corso Donati, infatti, intervennero anzitempo, forse tagliando parzialmente fuori le fanterie nemiche. Di contro, il conte di Poppi, fuggì nel suo castello senza dare colpo di spada. La battaglia si concluse in poche ore: nella morsa rimasero intrappolati tutti i comandanti ghibellini che morirono in battaglia. Da parte guelfa i caduti non furono molti, e pochi di una certa fama: tra questi il veterano angioino, Guglielmo Berardi di Durfort, il cui sepolcro si può ammirare ancora a Firenze, alla S.ma Annunziata.
Quale esito ebbe la battaglia e quali ne furono le conseguenze?
Per Firenze fu una grande vittoria, il santo del giorno, l’apostolo Barnaba, divenne patrono della città. La vittoria fu importante in particolare per i Guelfi che usarono, come previsto, l’episodio militare come grimaldello per tentare di rientrare nella “stanza dei bottoni”. A distanza di circa dieci anni dalla battaglia, nel corso di una processione, alcuni Magnati presero a malmenare i consoli delle Arti, rinfacciando proprio lo scontro di Certomondo: “noi siamo quelli che demo la sconfitta in Campaldino, e voi ci avete rimossi degli ufici e onori della nostra città”. Da lì a pochi mesi e la città del Giglio si dividerà in due inedite e tragiche fazioni, Bianchi e Neri, dando vita ad una nuova spirale di violenza civile.
Arezzo invece subì una brusca battuta d’arresto, una generazione di nobili era stata spazzata via. Ma ciononostante, negli anni ’20 del Trecento, la città piegata a Campaldino, avrebbe vissuto ancora una pagina di espansione sotto la guida del carismatico vescovo Guido Tarlati. Ma la corsa della città dominante era inarrestabile e, alla fine, come è noto, il leone di Firenze sbranò il cavallo sfrenato aretino: già nel corso del Trecento, sotto Pier Saccone Tarlati, la città era entrata nell’orbita fiorentina.
In che modo la battaglia influenzò Dante?
Dante era un giovane di 24 anni quando ebbe esperienza della guerra e della violenza. Ricordava l’episodio in una lettera, oggi perduta, in cui affermava di avere avuto molta paura. E ne aveva ben donde, dal momento che fu scelto tra i “feditori”, cioè i cavalieri della prima schiera, quelli costretti a subire l’urto della cavalleria nemica. Vedersi piombare addosso trecento cavalieri al galoppo dovette essere esperienza indelebile e fu un caso che il poeta non rimanesse sul campo: non avremmo mai avuto la sua opera immortale. Ma non possiamo sapere se altri, caduti in battaglia, non avrebbero potuto consegnarci altre geniali opere, magari non letterarie. Dante rammenta più volte la battaglia nelle cantiche. Nell’Inferno, quando è circondato dai moncherini degli scismatici, probabilmente non fa che ricordare, con raccapriccio, quanti, più sfortunati di lui, vide cadere in battaglia. Nel V canto del Purgatorio, quando immagina di incontrare il comandante ghibellino Buonconte, ricorda il tremendo temporale che si sarebbe scatenato a fine giornata. Evoca l’intervento del Demonio, oscuro direttore d’orchestra degli odii che conducono gli uomini a combattersi e ad uccidersi. E fu forse anche questa esperienza così estrema e bestiale, unita al dramma dell’esilio, che fece orientare l’Alighieri, nella sua maturità, verso l’anelito tenace e costante per una pace universale, verso cui l’uomo dovrebbe tendere, oggi come ieri.
Federico Canaccini è uno storico del Medioevo, interessato in particolare al conflitto tra le fazioni e alla lotta tra Papato e Impero. Dopo alcune esperienze all’estero (Princeton, Washington D.C.) attualmente insegna presso l’Università Salesiana e presso la Università Telematica Uninettuno. Ha pubblicato diversi libri e numerosi articoli sul Ghibellinismo toscano, sui simboli delle fazioni, dando una nuova interpretazione del simbolo della Parte ghibellina di Firenze. Ha poi pubblicato una versione inedita in volgare della prima bolla giubilare, una sorta di versione preparatoria della Antiquorum habet di Bonifacio VIII. Per Laterza ha già pubblicato 1268. La battaglia di Tagliacozzo. Collabora da anni con la rivista di divulgazione “Medioevo” ed è assiduo recensore della rivista scientifica “Studi Medievali”.
(www.letture.org)
Navid Carucci, La luce di Akbar, La Lepre Edizioni, 2021, 256 pagine, 18,00 euri
Quali ombre oscurano il sovrano più illuminato dell’Islam?
“La lettura di un libro come questo, per gli italiani che amano la storia e per quelli affascinati da esotismo ed orientalismo – e sono tanti: molti di più di quanti non si creda – dovrebb’essere una festa; e il fatto che sia stato edito proprio da noi, un avvenimento” (dalla Prefazione di Franco Cardini).
Ritengo che non si possa parlare o scrivere di storia, e soprattutto di un romanzo di storia, se prima non si colloca geograficamente e mentalmente per il lettore ciò di cui si vuole scrivere. Per secoli per via della seta (attenti però perché si guadagnò questo nome solo alla fine del 1800) s’intende l’intreccio di circa 8000 km di itinerari terrestri, marittimi e fluviali asiatici che furono percorsi anche da Marco Polo, lungo i quali dall’antichità si erano snodati i commerci tra l’impero cinese e quello romano. Le vie carovaniere attraversavano l’Asia centrale e il Medio Oriente, collegando Chang’an (oggi Xi’an), in Cina, all’Asia Minore e al Mediterraneo attraverso il Medio Oriente e il Vicino Oriente. Senza tenere conto delle diramazioni che si estendevano a est alla Corea e al Giappone e, a Sud, all’India…
E invece cosa si sa dell’impero conosciuto come il Gran Mogol (che poi sarebbe meglio chiamare più correttamente Gran Moghul) fiorito dal 1526 al 1707 e del suo fondatore Bābur detto il Conquistatore? Cosa si sa della favolosa epopea di quei re guerrieri di razza mongola, discendenti dal grande e terribile Timur (Tamerlano) che tra il Tre e Quattrocento (quando in Italia fiorivano prima i comuni e poi il Rinascimento) aveva creato un immenso impero che andava dalla Turchia fino all’Himalaya? Dopo che Colombo aveva scoperto l’America, regalando un florido impero alla Spagna e poi agli Asburgo, l’Europa tutta aveva messo la prua a Ovest nell’oceano Atlantico, tesa a scoprire nuove terre e continenti di conquista, Madrid era ancora in mano a Filippo, figlio di Carlo V, e l’impero in quelle del fratello Ferdinando prima e del nipote Massimiliano: cosa accadeva intanto dall’altra parte del mondo?
Cominciamo dalle origini.
Il subcontinente indiano era un immenso territorio popoloso e un crogiolo di lingue, razze e varie religioni. A partire dall’VIII secolo tuttavia prese piede l’islamismo, ma tra il Quattro-Cinquecento il panorama religioso del subcontinente fu pervaso dal movimento sikh e dalla comparsa del cristianesimo portato da mercanti e missionari.
Il precario equilibrio pacifico tra i popoli fu interrotto da un potente capo militare afghano, Bābur il conquistatore (1486-1530), discendente da Tamerlano il grande, che tra il 1526 e il 1530 gettò le fondamenta dell’impero Moghul. Bābur governava una delle tante città della Transoxiana, per buona parte l’odierno Uzbekistan. Scacciato dalle sue terre a seguito dell’invasione dei nomadi Uzbeki, Bābur era ben deciso a riconquistarsi un regno. Con un esercito piccolo ma feroce e ben armato invase l’India, allora sotto il dominio del Sultanato di Delhi, e il 21 aprile 1526, dopo avere affrontato l’esercito del sultano Ibrāhīm Lōdī nella battaglia di Panipat, riportò una schiacciante vittoria. Poi regnò per altri quattro anni, durante i quali consolidò l’impero che andava dall’Afghanistan al Bengala e, incrementando la migrazione turca in India dall’Asia centrale, accrebbe nel paese il peso della religione islamica.
La data d’inizio dell’impero Moghul si può considerare il 21 aprile 1526, giorno della vittoria sull’esercito di Ibrahim Lodi In seguito Bābur sconfisse anche gli eserciti degli altri principali clan Rajput (caste guerriere), ma la sua prematura morte (1530) interruppe lo slancio della conquista. Gli successe il figlio Humayun (1530-56), che ebbe un regno travagliato, contestato dai fratelli, ma che riuscì a riconquistare pienamente nel 1555. Il figlio di Humayun, Akbar il Grande, terzo imperatore, pur asceso al potere appena a quattordici anni (1556-1605), riusci a sbaragliare gli avversari che gli contendevano la successione e consolidò il dominio. Tra il 1574 e il 1576 si allargò al Gujarat, al Deccan settentrionale, al Bengala, all’Orissa, arrivando fino a Kandahar, in Afghanistan. Grazie a una alleanza matrimoniale con il maharaja di Amber, Biharamal, ottenne la collaborazione dei Rajput e la sua successiva azione militare gli consentì di controllare tutto il Nord dell’India, Kashmir compreso. Completata infatti la conquista del Bengala e sottomesso il Gujarat, tutti i principati indù Rajput furono ammessi nell’apparato amministrativo Moghul come esattori delle tasse. Insomma un inquadramento statale relativamente saldo, teso a favorire l’integrazione di musulmani e indù, con un nuova religione sincretistica, abolendo la tradizionale imposta islamica agli infedeli.
E ora parliamo del libro. Nell’Hindostan del XVI secolo Akbar, terzo imperatore della dinastia Moghul, che detiene il potere assoluto, sta governando con grande saggezza e senso di misura su una eclettica corte che accoglie indifferentemente islamici sunniti e sciiti, gesuiti, indù, ebrei, zoroastriani. La sua apertura mentale e accettazione dell’altrui pensiero di ogni etnia e dottrina provoca indignazione tra i custodi dell’ortodossia religiosa, che rumoreggiano inascoltati ma tramano nell’ombra e intenderebbero ostacolare i provvedimenti imperiali o addirittura arrivare a rovesciare l’imperatore. La sua grande dirittura morale spaventa e risulta inaccettabile. In un’atmosfera in subbuglio, in cui finiranno per dominare arrivismo, crudeltà e ferocia, si inserisce la triste avventura della vita del funzionario hindu Jamal e di suo figlio Samir. Vita tristemente satellitare a quella di alcuni astri della corte imperiale, come il principe Salim, viziato e amorale primogenito di Akbar, geloso del padre ma a cui vorrebbe assomigliare, e i suoi due fratelli/fratellastri guastati dal potere e dagli ozi.
Samir e Salim pare che possano essere amici, accomunati dall’astio verso i rispettivi genitori e dall’idilliaco ma crudele innamoramento per Man Bai, sensuale principessa hindu celata dalle grate dell’harem. Ma a conti fatti non c’è e non ci sarà mai nulla di veramente in comune tra loro. Neppure un tratto di penna, neppure un pur qualche verso di poesia.
Faccio fede al colto autore e alla sua affermazione che quasi tutti i personaggi siano storicamente esistiti e gli ho dedicato ore di attenta lettura per soddisfare la mia curiosità. Lo ringrazio per avermi costretta a tuffarmi e a immedesimarmi in certi interstizi della grande Storia sempre utili per inquadrare la loro epoca ma anche questa nostra oggi tanto incerta e spesso sofferta attualità. Mi sono piaciuti molto il re Akbar, l’erudito Abul Fazl. Molto poco l’inflessibile e squallidamente vigliacco mullah Badauni. Nonostante tutti i miei sforzi non riesco ancora a capire cosa abbia spinto Rodolfo d’Acquaviva, l’ardente gesuita, ad abbandonare a soli otto anni la primogenitura per diventare prima novizio, poi sacerdote per imbarcarsi per le Indie con Matteo Ricci e, dopo aver pascolato ieraticamente, andare alla corte di Akbar a farsi trucidare ad appena 33 anni con due confratelli vicino a Goa. Ma magari la volontà divina è imperscrutabile. Altri personaggi da manuale: un impero crea sempre rivali quali furono Shahbaz khan e Aziz koka.
La luce di Akbar si avvale di un esile fil rouge per portare avanti una favola amara, utile per farci riflettere su temi sempre attuali: il dibattito religioso, la natura del potere, il dialogo tra civiltà diverse. E mette in primo piano le problematiche legate sempre ad accettare e sopportare l’eredità dei padri. Da sempre ostacolo, spesso insormontabile.
Carucci ci offre anche una chicca per noi impensabile quando ci spiega il potere assunto nelle alte sfere imperiali dal fatale vizio del bere, una droga in grado di bruciare carriere e addirittura vite.
Ma, parlando dell’impero di Moghul, sarà opportuno anche non dimenticare il progressivo sviluppo manifatturiero, stimolato dallo sforzo della classe dirigente e dalla domanda europea.
Navid Carucci, laureato in Storia dell’Asia orientale, insegna Lettere nella scuola secondaria di primo grado. Traduttore di fumetti, riviste, narrativa e saggistica ha pubblicato i romanzi Guerrieri (Serarcangeli) e Eclettismo (Robin).
Recensione di Patrizia Debicke (https://theblogaroundthecorner.it/)