Domenica 25 aprile 2021
IV Domenica dopo Pasqua (Domenica “del Buon Pastore”)
Festa di San Marco Evangelista
DULCIS IN FUNDO/IN CAUDA VENENUM
25 APRILE. COMMEMORAZIONE, TORMENTONE RITUALE O CORSA ALL’ISTERISMO?
Della festa nazionale del 25 aprile preferirei non parlare. In genere la data della fine di una guerra perduta non si festeggia: che poi la fine di un conflitto sia sempre un sollievo, anche se è stato una sciagura, questo è un altro discorso. Quanto a chi osserva che una guerra vinta in quella circostanza sarebbe stata una sciagura ancora peggiore, rispondo richiamando il fatto che ormai le ipotesi ucroniche e/o eterofattuali siamo usi farle con un tantino di finezza e di attenzione in più. Il punto è che il 25 aprile avrebbe dovuto essere la “festa di tutti gli italiani”, quindi una festa di riconciliazione, che non coincidesse affatto con una generale sanatoria ma che riconoscesse la buona fede e il sacrificio di migliaia di cittadini che s’impegnarono comunque per la patria, anche se intendendo in modo diverso e magari opposto tale impegno. A tanto, tre quarti di secolo dopo l’evento, non siamo ancora pervenuti: le istanze di pacificazione e di ritrovata unità vi sono state, ma sono sempre finite nell’ambiguità e nelle distinzioni pretestuose quando non addirittura nelle contrapposizioni astrattamente manichee, col giusto tutto da una parte e l’ingiusto dall’altra, con l’esaltazione retorica e indiscriminata di certi fatti e di certi valori e la negazione o la mistificazione di altri.
Noi proponiamo qui due ordini di riflessioni: primo, la constatazione del fatto che la pacificazione è per ora impossibile, ed è tale in quanto vi sono forze che la impediscono; secondo, la memoria di uno dei tanti caduti durante quella che fu una guerra civile. Uno studioso e un cittadino tra i più grandi italiani del XX secolo, che commise anche errori (non misfatti) e che pagò duramente il suo impegno civile. Si può discutere (e lo si è fatto) sulla legittimità o meno del gesto dei suoi attentatori ma la sua figura merita comunque rispetto, e quindi la scelta che lo condusse a terminare i suoi giorni merita considerazione.
DAVID NIERI
25 APRILE, OVVERO L’IMPOSSIBILE PACIFICAZIONE
In un articolo pubblicato ieri sul Messaggero, il sociologo Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, così si esprime in merito al 25 aprile: “La verità è che, fatta eccezione per quelli che per età lo hanno vissuto a suo tempo, cioè al tempo della Liberazione, il 25 aprile è una celebrazione superata. L’Italia non ha più bisogno di ricordare l’antifascismo per evitare il fascismo”. In tempi di Covid, secondo l’autore dell’articolo (Mario Ajello), “manca il nemico” e il 25 aprile “non può essere utilizzato per denunciare una qualche emergenza democratica”. In effetti, a parte l’oppositrice Giorgia Meloni, i vari schieramenti – partiti “resistenziali” e no – hanno trovato riparo sotto il tetto del partigiano della Salvezza Mario Draghi. Prosegue De Rita: “Quel 25 aprile è un evento che alla maggior parte dei ventenni non dice niente. La cosa non interessa più”. In effetti ha ragione, basta dare un’occhiata ad alcuni filmati su YouTube. Lo storico Emilio Gentile, però, non è d’accordo: “Trattare così sbrigativamente, come anticaglia, una tappa fondamentale della vicenda italiana mi sembra sbagliato. Se davvero i giovani non hanno alcun interesse per il 25 aprile, e quel passaggio storico non dice loro niente, vuol dire che tra i giovani dilaga l’ignoranza, non vuol dire che il 25 aprile oggi vale poco. È stata la festa non dell’antifascismo, ma della Liberazione con la quale si è restituita la democrazia agli italiani. Queste cose bisogna saperle e studiarle sempre di più”. Franco Cardini, che a tal proposito più volte ha scritto in modo acuto e intelligente, nello stesso articolo così si esprime: “I giovani non sono affezionati a quell’evento, forse anche perché la scuola non lo ha saputo trattare in questi decenni. Ne ha dato una lettura manichea: la vittoria dei buoni contro i cattivi, della purezza dell’antifascismo contro la barbarie fascista. Le cose sono molto più complesse e sfumate. Ci è voluta un’infinità di tempo per raccontare, e non lo si fa a sufficienza, per esempio l’esistenza della cosiddetta zona grigia. Quella di chi non stava né da una parte né dall’altra e aspettava gli eventi. Si è fatto credere che gli italiani fossero stati tutti partigiani, tra il ’43 e il ’45. Grande balla. Quando i giovani subodorano la tendenziosità ideologica, si ritraggono e si insospettiscono. La troppa propaganda a favore ha finito per allontanare dal 25 aprile tanta gente, di tutte le età. Sta a noi riavvicinarla, laicamente, insegnando bene e senza caricature quel pezzo di storia importantissimo”.
Parole sante, quelle di Franco Cardini. Che, seppur in “assenza del nemico”, quel nemico da utilizzare politicamente e puntualmente ogni anno, non pare siano ascoltate, soprattutto da parte di chi, nei vari decenni, ha fatto dell’antifascismo il proprio cavallo di battaglia – o un hobby horse? –, un feticcio ideologico ormai spogliato di qualsiasi contenuto e possibilità di confronto – significante senza significato, direbbe il grande linguista de Saussure –, una bandiera da sventolare ogniqualvolta si presenti l’occasione per imporre, anche antidemocraticamente, la democrazia delle libertà e delle censure.
Mi ha colpito, ieri, un tweet dell’Anpi, che così commentava la triste notizia della scomparsa di Milva, nostro orgoglio nazionale: “Salutiamo con dolore Milva, grande artista e antifascista”. Oppure il messaggio social dell’ex governatore della Toscana Enrico Rossi: “I fascisti sono così. Della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema dicono che la colpa è dei partigiani. Dei migranti morti annegati nel Canale di Sicilia dicono che la colpa è nostra perché li vogliamo salvare e accogliere. Meloni e Salvini, nipotini del dittatore Mussolini e del fucilatore di partigiani Almirante, devono ringraziare che a vincere furono proprio i partigiani e le forze democratiche che, con Togliatti, hanno concesso loro l’amnistia e con la Costituzione anche la libertà di dire le loro infami falsità”.
Difficile commentare. Sono messaggi che trasudano odio e un totale disprezzo nei confronti di chi osa mettere in discussione qualche dettaglio di una “vulgata dei giusti” capace di contaminare, ormai irreparabilmente, cultura, media e politica e accademia del nostro paese fin dal secondo dopoguerra. Se i giovani non mostrano interesse non c’è da stupirsi. Probabilmente si chiedono dove si trovi, oggi, il “fascista”, oppure che cosa sia, negli anni venti del terzo millennio, il fascismo. Se quello del ventennio oppure un sistema “democratico” e “liberale” che li vede disoccupati (malpagati e frustrati, direbbe Rino Gaetano), impossibilitati a formare una famiglia, depressi, disillusi, privati dei sogni e di un futuro che un tempo era senz’altro a portata di mano. Il nostro paese, indipendentemente dal Covid – che però ha contribuito a evidenziarne drammi e preoccupanti malfunzionamenti –, da almeno tre anni è a crescita zero. Ha un alto tasso di disoccupazione rispetto alla media europea e un’altissima incidenza di disoccupazione giovanile. Personalmente, non credo che queste problematiche siano da imputare al “fascismo”, quanto piuttosto a un sistema in grado di erodere il welfare di un paese ormai fanalino di coda dell’Unione europea, anche nella gestione dell’emergenza pandemica. Probabilmente sono gli stessi giovani “disinteressati” a chiedersi se pure le bombe intelligenti della Nato, le esportazioni di democrazia, lo sfruttamento dell’ambiente, l’inquinamento, i cambiamenti climatici e le sempre più marcate disuguaglianze a livello globale siano da ricercare nelle responsabilità della politica mussoliniana. Che tanto, ancora, contribuisce ad alimentare il mercato editoriale e mediatico da essere in molti, oggi, a dovergli rendere grazie.
In definitiva, una questione di priorità. Il “Signore delle Mosche” antifascista ormai riposa (ma non in pace) su un’isola deserta.
Chiudo citando un ultimo, significativo episodio. Durante una trasmissione online, “Muschio Selvaggio”, lo speaker Luis Sal – a quanto pare un fenomeno web adolescenziale con milioni di followers – esordisce con questo commento: “L’altro giorno stavo guardando un video della liberazione di Bologna e ho visto tutte queste donne sputare sul corpo di un fascista morto…” [risata]. L’ospite della trasmissione, il famosissimo cantante Fedez, rincara la dose con una battuta decisamente memorabile: “Sputare su fascisti morti? Era una challenge” [risata].
Dunque, in altre parole, un gioco di quelli che si fanno sul web per mettersi in mostra. E dire che Fedez è in prima linea, con tanto di scritta sulla mano, nella “promozione” del ddl Zan.
Peccato non ci sia più Pasolini.
LUIGI COPERTINO
IN MEMORIA DI GIOVANNI GENTILE
Il 15 aprile 1944 una squadra di partigiani comunisti, sembra su mandato inglese, assassinava uno tra i più grandi pensatori del Novecento, Giovanni Gentile, ritenuto il filosofo ufficiale del fascismo. In realtà Gentile con il regime fascista ebbe rapporti altalenanti. Dopo la prima fase – quella che lo vide ministro dell’Istruzione nonché autore di quella riforma della scuola che porta il suo nome e che, come tante altre cose del “nefasto” ventennio, ad iniziare dalle istituzioni basilari dello Stato sociale, sarebbe sopravvissuta al regime – era stato emarginato dalla vita politica attiva, perché da vecchio laicista si era opposto alla Conciliazione. Nonostante ciò aveva conservato un enorme ascendente sulla cultura italiana. Fu Rettore della Normale di Pisa, contraltare laico all’Università Cattolica del Sacro Cuore fondata da padre Agostino Gemelli. Si può dire che da quelle due istituzioni universitarie fuoriuscì la classe dirigente che avrebbe guidato le sorti dell’Italia nel dopoguerra.
L’emarginazione politica di Gentile fu dovuta anche alla sua pubblica opposizione alle deviazioni filonaziste della politica fascista. Il regime, per suggellare una mortifera alleanza, nel 1938 avrebbe emanato le leggi razziali. Gentile si era opposto a questa svolta già prima delle ignobili leggi e lo aveva fatto in nome dell’universalità romana alla quale lo stesso fascismo si ispirava: “Roma – disse nel discorso inaugurale dell’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, il 21 dicembre 1933 mentre in Germania stava consolidandosi il nazismo e gli echi dell’antisemitismo iniziavano a giungere anche in Italia – non ebbe mai un’idea che fosse esclusiva e negatrice… Essa accolse sempre e fuse nel suo seno, idee e forze, costumi e popoli. Così poté attuare il suo programma di fare dell’urbe, l’orbe. La prima e la seconda volta, la Roma antica e la Roma cristiana: volgendosi con accogliente simpatia e pronta e conciliatrice intelligenza a ogni nazione, a ogni forma di vivere civile, niente ritenendo alieno da sé che fosse umano. Sono i popoli piccoli e di scarse riserve quelli che si chiudono gelosamente in sé stessi in un nazionalismo schivo e sterile”.
Il filosofo era stato richiamato, nel 1943, all’impegno pubblico attivo da Mussolini che, tramite il segretario del Pnf Carlo Scorza, gli chiese, mentre si udivano preoccupanti i sinistri scricchiolii dell’imminente caduta del regime, di tornare a far sentire la sua voce nel tentativo di mantenere uniti gli italiani in un momento di estremo pericolo per la nazione. Il 24 giugno di quell’anno, alla vigilia dello sbarco alleato in Sicilia, dal Campidoglio, in Roma, Gentile lesse il suo “Discorso agli italiani” inteso ad esortare all’unità nazionale, per evitare la guerra civile di cui presentiva il possibile concretizzarsi, e ad aprire vie di dialogo con gli antifascisti nella prospettiva di una graduale liberalizzazione del regime ed in nome della comune italianità. In particolare egli si rivolse ai comunisti indicando nel corporativismo – sulla scia di quanto avevano già intuito i suoi migliori allievi della sinistra fascista, Ugo Spirito ad esempio – una via verso la realizzazione di un “comunismo idealista”, “spiritualista”, fino ad affermare che “Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente delle more necessarie di sviluppo di una idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal comunismo”.
Una linea che egli, poi, approfondì nell’ultima sua opera “Genesi e struttura della società”, uscita postuma, nella quale formulò l’”Umanesimo del Lavoro”, che nel dopoguerra sarebbe stato la bandiera della sinistra missina erede dell’esperienza della socializzazione durante la Repubblica Sociale Italiana. Gentile considerò quell’opera il coronamento della sua filosofia ed anche il suo testamento filosofico, tanto è vero che, mostrando il manoscritto all’amico antifascista Mario Manlio Rossi, gli disse profetico: “I vostri amici possono uccidermi ora se vogliono. Il mio lavoro nella vita è concluso”.
Il concetto di “noi”, l’identità collettiva alla quale Gentile alludeva in “Genesi e struttura della società”, non ha nulla a che fare con l’idea cristiana di comunità perché fa riferimento ad un noi inteso quale estensione dell’“io” idealisticamente considerato creatore della realtà oggettivizzata attraverso l’esteriorizzazione/alienazione della potenza soggettiva dello spirito umano (riecheggia qui, come in tutto il pensiero moderno, l’idea indù ma anche platonica del reale quale illusione alienata del sé, la “maya”, o cristallizzazione reificante della libertà dell’Atma). Infatti, benché nell’ultima parte della sua vita abbia dato segni di riavvicinamento alla fede cristiana, e forse morì segretamente convertito, Gentile filosoficamente resta un idealista e quindi assolutamente lontano dalla prospettiva trascendente del Cristianesimo. Il suo attualismo, una riforma “volontarista” dell’hegelismo, è un monismo gnoseologico che confonde soggetto ed oggetto secondo lo schema proprio del principio di immanenza generato dal cogito cartesiano. Non a caso Gentile fu l’esaltatore delle correnti eterodosse ed a modo loro “esoteriche” che sono alla radice della modernità, da Bruno a Campanella fino all’occultismo teosofico ottocentesco. Una linea che, filtrata mediante lo stirnerismo ed il niccianesimo, sarà portata fino in fondo, in polemica con lo stesso Gentile considerato ancora troppo “teologico”, dal giovane Julius Evola nei suoi “Saggi sull’idealismo magico” (ne facciamo qui cenno giusto per ricordare a tanti “tradizionalisti” il sottofondo in vero moderno dell’evolismo; un sottofondo che è, a sua volta, espressione della spiritualità gnostica ed ermetico-neoplatonica, decristianizzata, riemersa nel XV secolo e che, per l’appunto, tenne a battesimo la modernità).
Il monismo gentiliano è alla radice della sua concezione “etica” dello Stato, chiamato ad un ruolo di educatore delle masse. Nello Stato totalizzante del fascismo egli intravvide la realizzazione dello Stato etico, di ispirazione hegeliana e fichtiana. Per questo la sua filosofia politica è stata accusata di esser funzionale al totalitarismo. Al di là del moralismo d’accatto sottostante a tale accusa, è tuttavia vero, e per chiarezza filosofico-politica va detto, che l’idea gentiliana di Stato è espressione del suo spiritualismo di tipo immanente, moderno, non trascendente e tradizionale. Questo deve essere messo in evidenza per segnare la differenza tra un Tommaso d’Aquino, o anche l’Evola politico (in parte distante dall’Evola “esoterista”) e Gentile. Tutti e tre appartengono alla cultura critica verso il liberalismo ma mentre l’Aquinate e l’Evola politico sono la Tradizione il secondo è la modernità. Infatti il gentilianesimo più che un ritorno alla visione del Politico precedente il liberalismo ottocentesco voleva essere un suo superamento nella stessa direzione di marcia da esso avviata che, inoltre, coinvolgesse, per oltrepassarlo, anche il marxismo da Gentile, in una delle sue opere giovanili “La filosofia di Marx”, recuperato quale primato della prassi sull’Essere ma idealisticamente rifiutato nel suo impianto materialista.
Noi, che viviamo ormai nel postmoderno, conosciamo l’esito post-statuale del trapasso della modernità nella postmodernità. Un trapasso al quale ha certo contribuito inaspettatamente anche l’idealismo-attualismo perché se lo Stato è immanente alla società nulla impedisce che ad una prima fase di statualizzazione della società, quella appunto dei tempi di Gentile e dello Stato totalitario, subentri una seconda fase di societarizzazione dello Stato, di liquefazione e dissoluzione dello Stato nella società civile, che è appunto il postmoderno e che rappresenta la nuova versione, liberale e “dolce”, del totalitarismo. Questo percorso storico e filosofico, laddove ce ne fosse bisogno, dimostra che tra liberalismo, marxismo e lo stesso attualismo vi è una circolazione di idee sulla base di una comune radice di immanentismo filosofico e a suo modo “religioso”. Solo uno Stato tradizionale può svolgere una funzione di resistenza, di katéchon, contro le forze infere, elementari, della dissoluzione. Comunque, in un tentativo di risalita della china, andrebbe bene anche, provvisoriamente, lo Stato gentiliano. Ma, sia chiaro!, lo sto affermando senza troppa convinzione vista la natura ormai inarrestabile del processo di secolarizzazione, in atto, che è giunto nella sua fase terminale, “escatologica”. Non c’è più da risalire alcuna china, quanto piuttosto da aspettare l’Imprevisto che ci porterà Oltre in una Rivoluzione nel senso antico del termine, quello proprio dell’Omega coincidente con l’Alfa al quale si riferisce il Libro della Rivelazione.
La circolarità di idee, sul piano dell’immanenza filosofica, tra liberalismo, marxismo ed attualismo è del resto resa evidente anche dalla propensione “globalista” insista nello stesso pensiero idealista, cui si richiama Gentile. Non a caso alcuni hanno messo in rilievo la contraddizione tra la concezione etica dello Stato, propugnata da Gentile, che in quanto tale non può che tendere all’universalismo, allo “Stato Mondiale”, e l’adesione ad un regime che, invece, faceva del particolarismo nazionalista il suo vessillo. In realtà solo l’ignoranza di cosa bolliva, segretamente, nella pentola del fascismo può condurre ad una tale conclusione. Laddove si conoscono le radici del fascismo non può meravigliare l’esistenza di un Mussolini propenso a superare, quale fase meramente temporanea, il nazionalismo. Un Mussolini, “mondialista” ed autogestionario, secondo la migliore tradizione del sindacalismo rivoluzionario e del socialismo eterodosso, che, auspicando uno Stato Sociale Sindacale Mondiale, ritornò soprattutto nel suo testamento politico dopo essersi palesato in diversi altri momenti della sua vita pubblica, come ad esempio nell’intervista concessa, a più riprese tra il 1934 ed il 1943, ora in “Taccuini mussoliniani” (Il Mulino), al giornalista Yvon De Begnac. Un Mussolini, dunque, poco noto e fuori dallo schema nazionalista e che insegue un progetto tuttavia, come tutti i progetti globalisti ossia di universalismo mondano, in rotta di collisione con la realtà pluralista, e non monista, della storia e della natura. Un Mussolini il quale, alla stregua di tutti gli utopisti, dimenticava che l’Universalità non attiene all’immanenza ma solo alla Trascendenza. Piaccia o non piaccia.
La vicenda di Giovanni Gentile mette in evidenza anche un altro aspetto della nostra storia nazionale, ormai ben ricostruito dalla storiografia, ovvero il passaggio nel dopoguerra al comunismo dell’élite culturale fascista o allevata in seno al fascismo. Un passaggio però – attenzione! – che avvenne non per opportunismo o tradimento ma nel segno della continuità della lotta anticapitalista ed antiborghese iniziata negli anni trenta all’insegna delle speranze suscitate da quella che si credeva l’imminente svolta rivoluzionaria del regime. Una vicenda raccontata da Ruggero Zangrandi, giovane fascista diventato comunista, in “Il lungo viaggio attraverso il fascismo” (Mursia) e che ha coinvolto nomi altisonanti della cultura del dopoguerra, come Eugenio Garin e Delio Cantimori. Augusto Del Noce ha dimostrato la gemellarità sussistente tra il fascismo, almeno quello di sinistra, e l’azionismo, ossia il socialismo libertario, del quale nel dopoguerra fu principale esponente Norberto Bobbio, già postulatore in una lettera a Mussolini della sua granitica fede fascista. Sempre Augusto Del Noce ha messo in evidenza il debito che Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, da un lato, e Giuseppe Bottai e lo stesso Mussolini ancora socialista avevano verso l’attualismo gentiliano ben prima che Gentile assurgesse a ministro dell’educazione nazionale nel primo governo fascista. Renzo De Felice, d’altro canto, nella sua immensa ricerca storiografica, ha chiarito la sussistenza di una profonda linea di continuità tra il “secondo fascismo”, quello giovanile degli anni trenta, che a sua volta riprendeva il filo rosso (nel senso del socialismo non marxista) del primo fascismo diciannovista, e l’antifascismo di sinistra del dopoguerra, egemonizzato dal Pci. Quando Ennio Flaiano, mutuando la frase da Mino Maccari, affermò che “In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti” coglieva una verità storica che andava molto più in là del senso, da lui attribuito a quella frase, di polemica verso la classe dirigente del dopoguerra a suo giudizio composta da fascisti di regime riciclati in versione democristiana. Se Flaiano avesse conosciuto a fondo, piuttosto che il fascismo regime, gli umori, i progetti e gli auspici rivoluzionari del fascismo movimento, al quale deve essere ascritto anche il fiumanesimo del suo concittadino Gabriele D’Annunzio, con la sua socialmente avanzatissima e democratica Carta del Carnaro, lo scrittore pescarese se ne sarebbe reso conto.
Orbene, dunque, celebriamo pure la memoria di un grande filosofo ma guardando altrove per quel che riguarda le vere prospettive soteriologiche personali e comunitarie. Quel che, nell’ambito del dibattito culturale e della polemica civile, va invece ampiamente evidenziato e sottolineato è l’incredibile facilità con la quale gli antifascisti, presunti resistenti per la libertà, hanno assassinato altissimi filosofi, come Gentile, o poeti romantici, come Robert Brasillach, o ancora hanno processato e rinchiuso in manicomio altri poeti non conformisti, come Ezra Pound, o costretto al suicidio scrittori tragici, come Pierre Drieu La Rochelle, o ancora censurato ed emarginato altri tra i più grandi della letteratura mondiale del novecento, come Thomas Stearn Eliot, Knut Hansum, Louis Ferdinand Celine, ed ancora filosofi eccelsi da Carl Schmitt a Martin Heidegger. Si può obiettare, ed a ragione, che anche l’altra parte fece altrettanto. Basta citare il nome di Garcia Lorca, ma, tuttavia, senza dimenticare la sua stima, ricambiata, pur da diverse sponde politiche, per il fondatore della Falange nazional-sindacalista José Antonio Primo de Rivera anch’egli, del resto, un po’ poeta (i due si incontrarono per la mediazione del poeta falangista Luis Rosales Camacho, comune amico, lo stesso presso il quale Garcia Lorca si rifugiò nel tentativo di sottrarsi ai franchisti e che lo difese rischiando di persona ma purtroppo inutilmente).
La verità, in fondo, è che la meschinità dei loro più bassi istinti è tale da volgere gli uomini “piccoli” all’odio, alla partigianeria, alla faziosità ed alla vendetta a detrimento della nobiltà sublime che alberga negli “spiriti magni” i quali, invece, non concepiscono le proprie scelte ideali quali negazioni dell’altro da sé ma sempre come via da percorrere per primi al fine di aprire anche agli altri una via nuova. Una via che per molti di tali spiriti porta verso l’Alto.
Per approfondire il discorso nel link seguente un ottimo articolo di Marcello Veneziani sulla figura di Giovanni Gentile
http://www.marcelloveneziani.com/articoli/uccidete-gentile-per-educarne-cento/
In quest’altro link, invece, una recensione sull’ultima tra le ormai innumerevoli opere che indagano sulle radici sindacaliste-rivoluzionarie della sinistra eterodossa del primo novecento guidata da un noto socialista massimalista romagnolo
Sul Mussolini “mondialista” si veda l’articolo al link seguente
https://www.kulturaeuropa.eu/2021/04/14/per-una-destra-sociale-universale/
Sulla continuità tra fascismo movimento e sinistra comunista del dopoguerra, si rimanda al link seguente