Domenica 2 maggio 2021
Domenica IV dopo Pasqua, Cantate
“EI FU”
L’Anno Dantesco, che celebra Dante Alighieri nel settimo centenario della morte, ha eclissato in Italia la memoria del secondo centenario dalla morte di Napoleone Bonaparte, venuto a mancare nella sua residenza coatta di Sant’Elena, luogo dell’esilio assegnatogli, il 5 maggio del 1821. La data era fino a qualche anno fa considerata fatidica almeno nelle scuole, dov’era lettura obbligatoria, spesso da mandare a memoria, la lirica di Alessandro Manzoni che si apre appunto con il lapidario Ei fu, destinato a diventar proverbiale. La memoria dell’evento è stata comunque celebrata da parecchi libri, mentre altri ne usciranno ancora. Fra i più recenti ne vanno segnalati due entrambi delle edizioni del Mulino di Bologna: Ei fu. La morte di Napoleone, di Vittorio Criscuolo, docente di Storia moderna e di Storia delle rivoluzioni presso la Statale di Milano e autore di altri studi sull’imperatore dei francesi; e Andare per l’Italia di Napoleone, di Paolo Bianchi e Andrea Merlotti. La penisola è piena di ricordi napoleonici: non solo di lui, ma anche dei suoi familiari. Quanto ai suoi ultimi giorni, consumati nella tristezza di un isolamento che i suoi carcerieri vollero assoluto – anche se poi sarebbe stato riscattato dal trionfale ritorno delle sue ceneri a Parigi, nel 1840 –, essi sono stati oggetto di un’ampia e intensa letteratura, cui si è aggiunta la cinematografia.
PROCESSO A NAPOLEONE
Pubblichiamo, per gentile concessione del Corriere della Sera (nella persona di Antonio Carioti, che ringraziamo), il “processo” a Napoleone, pubblicato sul supplemento “la Lettura” del 18 aprile 2021 in vista del 5 maggio prossimo, bicentenario della morte dell’“imperatore dei francesi”.
Il dibattito delle idee
Duecento anni fa, il 5 maggio 1821, moriva a Sant’Elena, isola sperduta nell’Atlantico meridionale, l’“imperatore dei francesi” che aveva dominato l’Europa. Abbiamo passato in rassegna i diversi aspetti della sua figura della sua opera e della sua eredità con il contributo di storici e studiosi. Per cominciare abbiamo sottoposto Bonaparte a giudizio come in tribunale. Franco Cardini ed Ernesto Ferrerò ne hanno discusso le ambizioni, la politica, le atrocità belliche, l’atteggiamento verso l’Italia e verso la religione, le accuse di schiavismo e misoginia che gli sono state mosse di recente. A Sergio Romano il compito di emettere la sentenza…
Conversazione tra FRANCO CARDINI ed ERNESTO FERRERO
a cura di ANTONIO CARIOTI
Per sottoporre a processo Bonaparte abbiamo messo a confronto Ernesto Ferrerò, autore del romanzo N. (dal 4 maggio in edicola con il “Corriere”) e del saggio Napoleone in venti parole (Einaudi), e Franco Cardini, uno storico che non ha mai nascosto il suo atteggiamento critico verso il mondo di cui l’imperatore corso, sulla scia della Rivoluzione francese, è stato in larga misura l’iniziatore.
ERNESTO FERRERO – Napoleone è un personaggio poliedrico, fuori misura, caratterizzato da enormi contraddizioni. Non per niente su di lui si è sviluppato un dibattito interminabile. La destra sin dall’Ottocento ha cercato d’impadronirsene, giustificando dispotismo e bellicismo. Poi ci si è chiesti se Bonaparte sia un erede legittimo della rivoluzione, anzi: per alcuni la sua autentica incarnazione, oppure un cinico profittatore che sfrutta le convulsioni seguite al 1789 per instaurare un dispotismo antesignano delle dittature novecentesche, in particolare del fascismo. Di volta in volta abbiamo avuto un Napoleone tiranno spietato, o continuatore della Rivoluzione in forma monarchica, o artista della politica, o prosecutore dell’assolutismo regio. Forse la formula più calzante è questa: un repubblicano rivoluzionario che arriva a commissariare la Repubblica trasformandola in Impero. Sospende le garanzie costituzionali perché ritiene che la situazione sia così deteriorata da essere divenuta ingestibile e da richiedere l’intervento di un solo uomo, dotato di immense capacità, per riportare l’ordine e garantire la crescita: lui stesso. Ma poi l’Impero assume tali proporzioni da non poter più essere gestito da un solo uomo con un accentramento maniacale, come Bonaparte pretendeva di fare.
FRANCO CARDINI – Un tratto tipico di Napoleone è la presenza nella sua personalità e nella sua opera di due diversi aspetti – come il dottor Jekyll e mister Hyde – che possono apparire contraddittori, ma a ben vedere sono complementari. Da una parte c’è il costruttore dello Stato francese, avveduto curatore di tutti i dettagli necessari per fare funzionare bene l’Impero. È un genio organizzativo, sa scegliersi validi collaboratori ed è molto attento alla Borsa e all’industria. Però la sua sollecitudine verso l’economia deriva dal fatto che gli serve denaro per fare la guerra, che è la sua più spiccata vocazione. Napoleone guarda all’Europa e addirittura al mondo con ima sorta di bulimia di conquista. Ha l’ambizione di prendere fra le mani il destino della Terra, ipotizza nel futuro un governo unico per l’intero genere umano. Il suo stesso atteggiamento filomusulmano, ostentato durante la campagna d’Egitto, deriva anche dall’idea che l’islam, religione bellicosa e fatalista, sia più adatto del cristianesimo a un destino imperiale. Per concludere, non mi pare che l’ambizioso espansionista, il Napoleone mister Hyde, sia il lato oscuro del governante capace, il Napoleone dottor Jekyll. Sono due aspetti complementari perché, nella sua mentalità, anche lo scopo della buona amministrazione civile è preparare la guerra.
ERNESTO FERRERO – L’aggressività di Napoleone è evidente. Però, più che un fine in sé, la guerra per lui è un mezzo, il modo per ottenere le risorse necessarie a realizzare un disegno di rifondazione della macchina statale e di incremento della potenza francese fino all’egemonia continentale. In lui c’è un eccesso di ambizione, perché quando ci si avvia sulla strada delle conquiste militari, poi diventa difficile fermarsi. Assomiglia a certi finanzieri d’assalto, che s’inventano catene di sant’Antonio destinate a crescere finché la bolla scoppia. L’Impero napoleonico si espande a forza di guerre fin quando le crisi economiche e due spedizioni sciagurate, prima in Spagna e poi in Russia, bloccano il meccanismo e avviano l’implosione. Va aggiunto però che in sostanza si tratta di una sfida mortale tra l’Ancien Régime e il nuovo assetto emergente, in cui la borghesia reclama un ruolo direttivo. Anche questa opposizione di potere contribuisce a rendere lo scontro irriducibile.
Però in questo caso il vecchio vince sul nuovo, con il fallimento di Napoleone.
FRANCO CARDINI – Non parlerei di fallimento, ma di insuccesso. Bonaparte non raggiunge gli scopi che si è prefisso, anzi si può dire non li abbia nemmeno stabiliti, perché è uno di quei condottieri che vogliono tutto, che non si pongono limiti nella loro avventurosa scalata al cielo. In lui c’è una componente titanica e per questo non si può dire che abbia fallito nel raggiungere obiettivi specifici. Viene battuto militarmente, ma sarebbe improprio definirlo un perdente. Alla fine a sconfiggerlo è la sua incertezza.
In che senso?
FRANCO CARDINI – Rimane come sospeso tra l’Ancien Régime e l’epoca contemporanea. Non lo definirei un artefice della modernità, della quale semmai è un figlio. Napoleone apre la nostra era. Ma continua a guardare indietro. Pesa su di lui il retaggio della Corsica, dove è nato: un’isola in cui contano “il fratello e il coltello”, i legami famigliari e un atavico codice d’onore. Infatti Bonaparte è attaccatissimo ai parenti stretti, anche se spesso li biasima. Ha un certo rispetto per la religione e per la Chiesa cattolica, benché le guardi con distacco. Però crede nell’eguaglianza, non certo da teorico della democrazia, ma da militare che misura gli uomini in base al valore in battaglia e colloca potenzialmente nello zaino di ogni soldato il bastone da maresciallo. In questo senso è il padre della contemporaneità meritocratica, ma allora fa pensare la sua scelta di sposare in seconde nozze la principessa Maria Luisa d’Asburgo.
ERNESTO FERRERO – La contraddizione esiste. Bonaparte arriva a calcarsi sulla testa la corona imperiale, restaura una parvenza di spettacolarità monarchica, restituisce all’aristocrazia una funzione di controllo sociale. Tuttavia resta un borghese: il suo genio, al di là delle virtù militari, consiste nella costruzione e nella gestione di una nuova complessità. Vedo in quella vicenda ima lotta tra due visioni del mondo che va anche al di là della persona di Napoleone e investe tutto l’Ottocento, fino a quando la borghesia emergente non riesce a soppiantare l’Ancien Régime.
Parliamo del rapporto tra Bonaparte e l’Italia.
FRANCO CARDINI – Il Regno d’Italia napoleonico comprendeva solo una limitata fetta centro-settentrionale della penisola, mentre una parte molto consistente, Roma inclusa, era annessa all’Impero francese e il Regno di Napoli rimaneva uno Stato a parte. L’Imperatore non aveva intenzione di creare un’Italia unita come quella che sarebbe sorta dal Risorgimento, anche se il ricordo della sua figura fu uno dei fattori che spronarono i patrioti. In sostanza il suo pensiero non era lontano da quello del principe austriaco Klemens von Mettermeli, secondo cui l’Italia era solo “un’espressione geografica”. Forse Bonaparte avrebbe parlato di “un’espressione storico-geografica”. Ma non molto di più. Aveva ragione Carlo Cattaneo: a chi rimproverava Bonaparte di non avere assecondato i patrioti italiani, rispondeva che era un’accusa fuorviante, perché l’Imperatore non aveva mai nascosto l’intento di privilegiare Parigi.
ERNESTO FERRERO – L’arrivo dei francesi in Italia, nel 1796, accende una ventata di entusiasmo e di illusioni. Ma Napoleone ha le idee chiare: la penisola invasa deve essere subordinata alla Francia. Poi nell’esilio di Sant’Elena Napoleone sosterrà che l’unità d’Italia era prematura, richiedeva una lunga preparazione per la quale non c’era tempo. Era stato molto abile a strumentalizzare i patrioti del nostro Paese, coinvolgendoli nello smantellamento delle vecchie strutture, ma non concedendo niente alle loro aspirazioni di libertà. Tuttavia in epoca napoleonica gli Stati italiani godono di un sistema amministrativo, giuridico e finanziario che giova al loro ammodernamento. Più in generale i nostri connazionali sotto il dominio francese intraprendono una specie di educazione politica: si rendono conto che il ripiegamento individualista protrae e accentua la decadenza italiana, quindi bisogna occuparsi seriamente degli affari pubblici con un’assidua attenzione allo scenario europeo. Si avvia nei ceti colti una riflessione sulla politica, che darà i suoi frutti nell’Ottocento.
Napoleone e la Chiesa cattolica. Che ne pensate?
FRANCO CARDINI – La Francia, in un periodo rivoluzionario febbrile di pochi anni, aveva vissuto uno stravolgimento feroce dei suoi rapporti con la Chiesa, sviluppando, più che un anticlericalismo, un anticattolicesimo agguerrito. Napoleone capisce che è importante sfruttare il ritorno del popolo alla fede, che riemerge non appena la morsa repressiva si allenta, perché sa che la Chiesa è depositaria di un tesoro spirituale utile alla legittimazione del potere. La sua idea geniale di proclamarsi imperatore non di uno Stato, ma di un popolo, i francesi, ha bisogno anche di quell’apporto, nonostante il rischio di un conflitto con il Papa.
A quali modelli si richiama?
FRANCO CARDINI – Senza dubbio a Carlo Magno. Ma anche allo zar di Russia, che conserva una forte preminenza sulla Chiesa ortodossa. L’auto-incoronazione di Napoleone ha un profondo significato simbolico. Viene effettuata nella basilica di Notre-Dame, alla presenza del papa Pio VII, tenuto però ostentatamente in una posizione subordinata da gran cappellano di corte. Siamo nel dicembre 1804, non così distanti dalle decapitazioni dei prelati e dall’incendio delle chiese: la stessa cattedrale di Parigi era stata devastata. L’atto di Napoleone ha un evidente sapore di recupero del passato, che combina vecchio e nuovo.
Possiamo definirlo un restauratore?
FRANCO CARDINI – Direi piuttosto che afferma una sua concezione originale. Non accetta alcun dialogo su un piano di parità con il papato, tipico invece del Sacro Romano Impero. Inoltre dichiara che la sovranità viene dal basso, dal popolo francese, anche se in sostanza nasce dall’esercito. Il modello della Roma antica è ben presente a Napoleone. E colpisce che un innovatore radicale come lui cerchi di metabolizzare tanti elementi della tradizione. Coglieva nel segno Alessandro Manzoni quando presentava Bonaparte come una sorta di arbitro tra due secoli, il XVIII e il XIX, in lotta tra loro.
ERNESTO FERRERO – Secondo me in fatto di religione Napoleone resta coerente alla freddezza e al cinismo della sua visione, di quello che ho chiamato il suo “sistema operativo”. Vede nella credenza in Dio un eccellente fattore di stabilità e di ordine sociale, che serve a rafforzare e sorvegliare la moralità pubblica. Togliete la fede al popolo, sostiene, e moltiplicherete i ladri di strada. Quindi si tratta di controllare i controllori, cioè la Chiesa. Napoleone sottrae il clero alle offese rivoluzionarie e gli restituisce ima funzione nazionale, ma lo sottopone a una severa vigilanza. D Concordato che firma con Pio VII nel 1801 fotografa la situazione di estrema debolezza della Chiesa. Nel 1806 l’Imperatore si arroga il diritto di nominare un terzo dei cardinali, poi impone allo Stato pontificio il suo codice civile. Nel 1809 fa addirittura arrestare e deportare il Papa.
Non ha alcun rispetto per la fede?
ERNESTO FERRERO – Vuole costantemente utilizzarla a proprio vantaggio. Un’impostazione che raggiunge il culmine durante la campagna d’Egitto, quando Napoleone ha la faccia tosta di presentarsi come un buon musulmano. Dichiara che i francesi sono amici del sultano turco, rivendicando 0 merito di avere spodestato il Papa. Gli egiziani ovviamente non gli credono. E lui stesso a Sant’Elena riderà di questa messinscena. Sempre nell’esilio arriverà al punto di tracciare un parallelo fra le vicende di Cristo, eroe spirituale, e le sue imprese di capo civile e militare. Per lui Gesù è un collega, paragoni la passione del Golgota al suo “martirio” di Sant’Elena Da grandissimo maestro della comunicazione, sino al l’ultimo utilizza ogni elemento per costruire il suo mito.
FRANCO CARDINI – Va aggiunto che il comportamento di Bonaparte in Siria verso i prigionieri turchi è un crimine di guerra tra i più atroci. Anche dal punto di vista della più spietata Realpolitik se ne poteva fare a meno: massacrare i nemici che si erano arresi a Giaffa fu puro terrorismo. Il fatto è che in tutte le scelte di Bonaparte troviamo il richiamo allo “stato di eccezione” così come sarebbe stato teorizzato dal giurista tedesco Cari Schmitt. Per Napoleone le circostanze straordinarie si governano con metodi dispotici e, se necessario, brutali. Solo che il dispotismo, come i colpi di Stato, funziona se è duro, rapido e segreto. Se la dittatura si prolunga e chi la esercita non riesce a mascherarla, alla fine il regime non regge. D’altronde un despota tende di rado a moderarsi. Tutto il contrario, come dimostra Napoleone.
ERNESTO FERRERO – Sia sul piano interno sia in guerra, Bonaparte opera senza scrupoli. Segue la logica per cui bisogna colpire duramente chi si oppone per intimidire gli altri. Non avviene solo in Siria: anche in Italia, durante la prima campagna militare, la repressione contro i ribelli è assai violenta, con un evidente intento ammonitorio. A Giaffa Napoleone non sa come gestire i turchi che si sono arresi, quindi decide di sopprimerli. A chi gli rimprovera quel gesto crudele, risponde che non poteva rischiare di perdere l’intero corpo di spedizione per trascinarsi la palla al piede dei prigionieri. Bonaparte è un uomo che si è sempre negato alle emozioni e ai sentimenti. È convinto che un politico non debba né amare né odiare, ma valutare tutto attraverso il freddo calcolo operativo della propria ragione.
Un allievo di Machiavelli?
ERNESTO FERRERO – Direi il maggiore, forse il suo unico vero discepolo. Il messaggio del Principe è che al momento opportuno bisogna sapersi sporcare le mani. Napoleone non esita a farlo se lo ritiene necessario.
FRANCO CARDINI – A Machiavelli lo accomuna anche una visione negativa della natura umana e dei propri simili, anzi forse si sente così superiore che non li considera fino in fondo tali. Già da bambino era scontroso, non faceva facilmente amicizia con i coetanei.
ERNESTO FERRERO – È vero, Napoleone aveva una concezione pessimista degli esseri umani, probabilmente sviluppata prima in Corsica e poi nel collegio militare di Brienne, dove aveva sofferto perché i compagni provenienti dall’alta aristocrazia si facevano beffe di lui. Amava dire che nulla poteva sorprenderlo in negativo, perché del suo prossimo pensava sempre tutto il male possibile.
Che dire delle attuali polemiche su Bonaparte misogino e schiavista?
FRANCO CARDINI – Io credo che Bonaparte abbia presenti gli ideali umanitari della nuova era, ma nello stesso tempo scelga di subordinarli alle esigenze utilitaristiche. Non penso che in fatto di schiavitù tenga in gran conto i valori egualitari illuministi e cristiani. Si pone problemi di ordine pubblico e di efficienza produttiva. Se avesse ritenuto che l’abolizione della schiavitù fosse vantaggiosa, forse l’avrebbe mantenuta, ma è troppo buon amministratore per non rendersi conto che ne sarebbero derivate conseguenze difficili da governare. Non credo quindi gli sia pesata la decisione del 1802, come non ritengo che gli pesi sancire la superiorità dell’uomo sulla donna nel suo codice civile, entrato in vigore nel 1804, che elimina in gran parte gli aspetti solidaristici della società dell’Ancien Régime. La vecchia legislazione della monarchia, per quanto d’impronta patriarcale, guardava ai legami comunitari, mentre il codice napoleonico sancisce i rapporti borghesi su base individualistica. In un contesto del genere bisogna decidere con precisione chi comanda tra moglie e marito. E Bonaparte non ha dubbi: la stabilità dei vincoli e dei patrimoni impone la supremazia del maschio.
ERNESTO FERRERO – Il colonialismo francese era spietato, e il possedimento caraibico di Saint-Domingue (poi divenuto Haiti) era molto redditizio, tanto da rappresentare un terzo delle importazioni di Parigi nel settore dei beni di largo consumo. L’abolizione della schiavitù decisa nel 1794 era entrata in vigore qui e nell’isola della Guadalupa, ma non nella Martinica, che era stata occupata dagli inglesi. Quando la pace di Amiens con la Gran Bretagna sancisce il ritorno di quel territorio alla Francia, nel 1802, si pone il problema di uniformare la situazione. Napoleone decide il ripristino della schiavitù sotto la spinta del partito dei proprietari coloniali creoli, di cui faceva parte anche la prima moglie Giuseppina di Beauharnais, nata nella Martinica. Il fattore primario che porta a restaurare la schiavitù sono i profitti economici. Quanto alle donne, Napoleone le ha sempre considerate lo svago del guerriero, una presenza molto gradevole che deve restare nella disponibilità del maschio. Arriva a dire che in Occidente la condizione femminile è troppo permissiva e bisogna imparare dagli orientali. Al di là di questi eccessi, il codice civile impone alla donna sottomissione e minorità. La moglie deve obbedire al marito e seguirlo, non può prendere impegni senza il consenso del coniuge, non ha difesa dalle violenze domestiche. Le stesse libertà concesse alle maggiorenni nubili sono solo teoriche, perché non hanno la possibilità di esercitare un mestiere. È una situazione che a noi oggi appare giustamente intollerabile, ma è in linea con la mentalità dell’epoca, contro la quale Napoleone non aveva alcuna intenzione di andare.
ECCO IL VERDETTO, L’OSANNA DEL 1840 A PARIGI
di SERGIO ROMANO
Per un processo occorrono atti d’accusa e testimoni della difesa, avvocati per entrambe le parti, una documentazione puntigliosa e convincente. Nel caso di Napoleone Bonaparte tutto è reso terribilmente complicato dalla ricchezza di una vita che fu straordinariamente piena di eventi, da Ajaccio a Sant’Elena.
L’imputato ha troppi volti. Napoleone non è soltanto un guerriero, uno stratega, un uomo di Stato. È anche un legislatore, un amministratore e forse, soprattutto, un appassionato lettore dell’Enciclopedia. Conosce le esperienze del proprietario terriero, dell’imprenditore, dell’uomo d’affari. È stato spesso un combattente spietato, ma quante persone hanno approfittato delle sue strade, delle sue leggi e delle sue grandi opere? Ha vissuto in un’epoca in cui la Rivoluzione del 1789 aveva esautorato tutte le autorità del passato, da quella dei monarchi a quella dei sacerdoti. Di tutti coloro che erano stati privati del loro potere Napoleone fu l’instancabile erede. Assillato dalla febbre dell’innovazione e della modernità, non smise mai di trasformare qualsiasi cosa cadesse sotto i suoi occhi per renderla più utile e pratica.
Conosciamo i monumenti che lo ritraggono nelle posizioni eroiche dei vincitori e fondatori d’impero. Ma nella galleria circolare della sua tomba a Parigi c’è una serie di io bassorilievi scolpiti da Simart, che rappresentano i principali eventi della sua esistenza pubblica: pacificazione della nazione, centralizzazione amministrativa, Consiglio di Stato, Codice civile, Concordato, Università imperiale, Corte dei Conti, Codice del commercio, grandi lavori, Legion d’onore.
Possiamo condannare i suoi errori e capricci, ricordare i momenti meno nobili della sua vita, come il suo familismo corso. Ma che cosa penserebbero della nostra sentenza le folle che accolsero in Francia la sua salma nel dicembre 1840, gli architetti e gli artisti che hanno adornato la sua tomba, le migliaia di persone che lo visitano ogni giorno all’Hotel des Invalides? Se questo è un processo, quelle persone sono i giurati; e hanno l’ultima parola.