Minima Cardiniana 325/6

Domenica 2 maggio 2021
Domenica IV dopo Pasqua, Cantate

DOSSIER YEMEN
Vergogna, vergogna, vergogna! Centomila volte vergogna su tutti noi che stiamo a questo gioco infame! Da anni gli sciiti yemeniti houthi sono soggetti al massacro da parte del governo centrale del loro paese e ai bombardamenti statunitensi appoggiati da forze saudite, israeliane e occasionalmente anche egiziane e turche. Continua la fitna, la guerra civile antisciita da parte di alcune potenze arabe sunnite, associata alla “guerra indiretta” contro l’Iran. Non si bombarda soltanto. Si applica un embargo spietato, si nega non solo cibo ma perfino medicinali; ci si serve del covid per accelerare il genocidio. E da quel martoriato angolo della penisola arabica si può dire non passi mai una notizia. Eppure, pochi giorni fa, finalmente lo Yemen sciita è balzato all’onore delle cronache: e la nostra TV si è compiaciuta d’inondarci di una buona mezz’ora di un servizio nel quale con fermezza si stigmatizza il fatto che gli houti mandino in guerra i bambini contro tutte le leggi umane e divine e contro un preciso divieto delle Nazioni Unite. Questo fa notizia. Non i bombardamenti, non l’assedio per fame e per diniego di medicinali. E noi siamo complici di tutto ciò. FATE SENTIRE IN TUTTI I MODI al nostro governo e alle Nazioni Unite LA VOSTRA PROTESTA: USATA ALMENO SISTEMATICAMENTE GLI STRUMENTI DELL’INFORMATICA. Vergogna, vergogna, vergogna!

FERRUCCIO MICHELIN
LO YEMEN SI INFIAMMA DI NUOVO, I RIBELLI AVANZANO TRA DECINE DI MORTI
Ancora decine di morti in Yemen. Gli Houthi non fermano l’offensiva su Marib. Le forze governative rischiano di capitolare. L’appello al cessate il fuoco di Washington
Almeno 65 persone sono morte negli ultimi due giorni a Marib, area nell’Est dello Yemen in cui le forze governative resistono da settimane all’attacco dei ribelli Houthi. La provincia è molto importante per le sorti di una guerra che si combatte da sei anni, che vede impegnati sul lato del governo regolare (rovesciato dagli Houthi nel 2015) una coalizione guidata dai sauditi, e che è uno dei terreni di scontro per procura con l’Iran (che finanzia e assiste militarmente i ribelli yemeniti).
Gli Houthi controllano ormai il fronte di Kassara, nel nordovest della provincia, e si trovano a soli sei km dal capoluogo, nonostante le forze governative stiano usando anche l’aviazione saudita. Questo secondo AFP, ma il portavoce del governo ha smentito.
La caduta di Marib sarebbe un colpo durissimo per il governo di Sanaa e i suoi alleati di Riad. Proprio Riad aveva proposto a marzo un cessate il fuoco, accolto con freddezza dagli Houthi, che come precondizione chiedono la fine dell’embargo aereo e marittimo imposto dai sauditi.
Il conflitto è devastante. I sauditi hanno spesso usato poca discriminazione nei bersagli (e colpito civili); gli Houthi applicano nelle aree occupate politiche settarie e violente (e per conquistarle a loro volta non risparmiano i civili).
Sabato, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha ribadito la necessità che i combattimenti si fermino. Un portavoce della diplomazia americana ha detto: “L’attacco degli Houthi a Marib deve finire […] Ci sono conseguenze disastrose per l’escalation degli Houthi a Marib, con un milione di persone che fanno pressione sul sostegno umanitario già sovraccarico”.
L’inviato degli Stati Uniti in Yemen, Timothy Lenderking, ha discusso dell’incremento degli Houthi a Marib e dei suoi impatti umanitari con il Coordinatore umanitario delle Nazioni Unite, racconta il sito Expartibus, che dall’Italia segue costantemente le evoluzioni dello Yemen.
Il Ministro degli Esteri yemenita, Ahmed bin Mubarak (che è stato recentemente ospite in esclusiva su Formiche.net), ha avuto venerdì 23 aprile una telefonata con l’Ambasciatore statunitense in Yemen, Christopher Henzel, in cui ha spiegato gli ultimi sviluppi della situazione. Bin Mubarak ha affermato che il continuo incremento militare “dell’esercito golpista” Houthi a Marib invia un chiaro segnale che il gruppo non è interessato a realizzare seriamente alcun progresso nel processo di pace.
A sua volta, l’ambasciatore statunitense ha sottolineato la minaccia agli attuali sforzi di pace, ribadendo l’impegno degli Stati Uniti a continuare a sostenere il processo di pace e porre fine alla guerra in Yemen. Washington, che assiste il training militare delle Forze armate yemenite anche in funzione anti-terrorismo (la guerra civile ha infatti favorito al Qaeda e Is), ha da pochi mesi interrotto il sostegno di intelligence ai sauditi. Decisione presa nell’ambito di una revisione della cooperazione militare tra i due paesi e come conseguenza delle tante vittime civili prodotte da Riad.
(Formiche.net, 25 aprile 2021)

CHE COSA SUCCEDE IN YEMEN, MENTRE L’ITALIA (E NON SOLO) CHIEDE LO STOP ALLE ARMI (MA CHIEDE LO STOP DEI “RIBELLI”, NON DELLA REPRESSIONE)
Cinque governi occidentali chiedono lo stop della guerra e degli attacchi contro l’Arabia Saudita, mentre le forze regolari yemenite respingono gli Houthi su tre fronti. Intanto scompare il capo del governo dei ribelli…
I governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti hanno condannato con un comunicato congiunto la prolungata offensiva degli Houthi contro la città yemenita di Marib – che “ha aggravato la crisi umanitaria” – e la grande escalation di attacchi che gli Houthi hanno condotto e rivendicato contro l’Arabia Saudita. I cinque confermano sforzi diplomatici per porre fine al conflitto nello Yemen, a sostegno dell’inviato speciale delle Nazioni Unite, con l’Arabia Saudita, e con l’Oman che porta avanti la mediazione anche con la Repubblica islamica. Sono “la migliore speranza per porre fine a questa guerra”, scrivono mentre esortano gli Houthi a “cogliere questa opportunità di pace e porre fine all’escalation in corso”. La spinta arriva insieme a rumori su un dialogo diretto aperto tra Usa e Houthi.
L’esercito yemenita sta cercando di contenere l’offensiva dei ribelli nordisti (che in realtà da tempo hanno assunto una dimensione statuale), perché la caduta di Marib sarebbe un passaggio critico per la guerra. L’azione di respingimento è sostenuta dalla coalizione guidata dai sauditi, che dal 2015 sta cercando di sopraffare gli Houthi – un’operazione che si configura in parte tra le guerre per procura, dato che gli yemeniti hanno collegamenti con i Pasdaran iraniani; mentre nell’idea iniziale di Riad c’era di intervenire in Yemen come test iniziale di una sorta di “Nato Araba” pensata per il contenimento di Teheran. Se sul fronte saudita ci sono stati attacchi in cui non c’è stata discriminazione dei bersagli civili/militari, sull’altro gli Houthi sono colpevoli di atrocità contro gli abitanti dei territori conquistati.
La grande offensiva è su tre fronti: su Marib, nel centro, le truppe regolari hanno respinti un assalto dei ribelli; a Taiz, nel sudovest, le forze armate yemenite hanno rafforzato il controllo di posizioni strategiche, unendosi con i separatisti del sud, e rafforzati da una mobilitazione generale contro gli Houthi; nel Governatorato di Hajjah, nel nord-ovest del Paese, dove l’obiettivo è tagliare le vie di comunicazione che dalle retrovie settentrionali portano rinforzi all’organizzazione ribelle.
Expartibus.it – sito italiano che segue costantemente le evoluzioni in Yemen – dà un’ulteriore informazione interessante: citando media locali, riporta che Abdul Aziz Bin Habtour, l’ex governatore di Aden divenuto capo del governo non riconosciuto dei ribelli Houthi che controllano Sanaa, sarebbe fuggito da due giorni dalla capitale per passare al governo legittimo, mentre gli Houthi hanno smentito sostenendo che si trovi ricoverato in ospedale colpito da Covid-19. La sparizione di Bin Habtour potrebbe indicare segnali di debolezza del gruppo?
La situazione nel Paese è disperata, come racconta anche un recente reportage della CNN, concentrato soprattutto sull’enorme numero di cittadini che soffre letteralmente la fame. Gli Stati Uniti, dopo aver tolto gli Houthi dalla lista dei terroristi, hanno ripreso l’invio di aiuti nelle aree controllate sai ribelli. Ma la popolazione continua a subire gli interessi esterni che ruotano attorno alla guerra in Yemen. Dove i Pasdaran usano il terreno per spingere gli Houthi all’azione per destabilizzare anche da questo lato i tentativi di ricomposizione del dossier iraniano; gli Houthi che sfogano la reazione di controffensiva saudita colpendo Riad e i porti petroliferi (producendo danni al mercato globale del greggio e un aumento dei prezzi del petrolio). Le potenze internazionali che provano la complicatissima via diplomatica – alla quale entrambe le parti sanno di dover sottostare prima o poi, quantomeno per sfinimento, ma vogliono cercare di sedersi al tavolo da reciproche posizioni di forza.
(Formiche.net, 12 marzo 2021)

ELEONORA ARDEMAGNI
YEMEN TRA MISSILI E SANZIONI: LA RESA DELLA POLITICA?
In Yemen e sul “dossier Yemen”, la politica pare essersi arresa. Il neo-governo unitario con i secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud (Stc) ha subito due attentati aerei, attribuiti agli huthi, nel giorno in cui il velivolo di stato atterrava ad Aden per reinsediarsi nella capitale provvisoria. A gennaio il Dipartimento di Stato americano uscente guidato da Mike Pompeo aveva deciso di classificare il movimento politico degli huthi, Ansar Allah, come organizzazione terroristica, designando come terroristi globali tre dei suoi capi. Tuttavia, il segretario di Stato della nuova amministrazione Biden, Anthony Blinken, ha annunciato di voler “riconsiderare immediatamente” tale decisione e ha intanto congelato le sanzioni per un mese. Già in precedenza, gli huthi avevano intensificato gli attacchi, con missili e droni armati, contro obiettivi economici e commerciali dell’Arabia Saudita. E pensare che l’inviato delle Nazioni Unite in Yemen, Martin Griffiths, sta ancora formalmente negoziando una dichiarazione congiunta fra tutte le parti in conflitto. Obiettivi: un cessate-il-fuoco nazionale, la creazione di un governo di power-sharing che includa gli huthi, il rilancio dell’economia del paese. Ora, l’Onu teme che la mossa statunitense abbia “un effetto raggelante” sugli sforzi negoziali.
Sei anni dopo l’inizio del conflitto lo Yemen è allo stremo. Il riyal è svalutato e il tessuto produttivo lacerato, mentre l’economia di guerra si nutre di un’instabilità ormai permanente. L’insicurezza alimentare acuta colpisce metà degli abitanti (ma l’80% degli yemeniti necessita di assistenza umanitaria) e sta spingendo alcuni territori in carestia. Secondo le Nazioni Unite, le linee del fronte sono addirittura passate da 33 (2019) a 47 (2020): segno che a dispetto dello stallo militare, la stanchezza della guerra non riesce ancora a prevalere sulle armi. Lo Yemen è ormai una matrioska di conflitti che vanno dal micro-livello, quello territoriale, al macro-scontro fra huthi e Arabia Saudita. Eppure, le logiche della politica mediorientale e internazionale rischiano di condizionare sempre più il destino di una guerra nata come scontro politico interno. E ciò non riguarda solo la “battaglia a distanza” tra Stati Uniti e Iran (che ora include pure Israele, che militarizza la città di Eilat contro possibili attacchi degli huthi). Infatti, il reale impatto geopolitico del ripristino delle relazioni diplomatiche tra Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (sancito dalla “Dichiarazione di Al Ula”), verrà subito messo alla prova in Yemen. Il governo unitario di Aden, fortemente voluto dall’Arabia Saudita in applicazione dell’Accordo di Riyadh (2019), è infatti una coalizione tra il partito Islah (Fratelli Musulmani e parte dei salafiti), sostenuto dal Qatar e il filo-emiratino nonché secessionista Stc.

Ridispiegamento e governo unitario: l’accordo di Riyadh diventa realtà ad Aden
A oltre un anno dalla firma (era il novembre 2019), l’accordo siglato a Riyadh tra le istituzioni internazionalmente riconosciute dello Yemen (presiedute da Abd Rabu Mansour Hadi) e il pro-secessionista Consiglio di Transizione del Sud (guidato dall’ex governatore di Aden Aydarous al-Zubaidi), ottiene un’iniziale, significativa applicazione. Infatti, dopo mesi di negoziati e scontri, le parti hanno annunciato la nascita di un esecutivo unitario (18 dicembre 2020), che ha giurato nella capitale saudita (26 dicembre 2020) dove la presidenza è ancora rilocata per motivi di sicurezza. La squadra governativa è composta da ventiquattro ministri, metà delle regioni settentrionali dello Yemen e metà provenienti dai governatorati meridionali. In parte, il nuovo esecutivo è all’insegna della continuità con il precedente: Hadi ha confermato uomini di fiducia nei ruoli-chiave (come difesa e finanze) e agli interni, a cominciare dal reincaricato primo ministro Maeen Abdulmalik. Il nuovo ministro degli Esteri è Ahmed Awad bin Mubarak, già ambasciatore negli Stati Uniti. I secessionisti ottengono cinque portafogli: pesca e agricoltura (di cui si occuperà Brig Salem al-Socotri, un militare già governatore dell’isola di Socotra), trasporti, servizio civile (al medico di Aden Abdulnaser al-Wali), affari sociali e lavoro (assegnato a Mohammed al-Zaawari di Lahj, già leader del Movimento meridionale), lavori pubblici e autostrade (a Manea Binyamin, ingegnere dell’Hadhramaut). Il governo unitario, chiamato a insediarsi formalmente ad Aden (capitale provvisoria dal 2015), non è comunque rappresentativo delle (tante) anime territoriali-identitarie dello Yemen. Per esempio, nessuno dei ventiquattro ministri proviene dalla regione della Tihama (governatorati di Hajja, Hodeida, Rayma e Mahweet), la pianura occidentale di tradizione sunnita che si affaccia sul Mar Rosso: un gruppo di parlamentari locali ha infatti scritto al presidente del parlamento per lamentarsi dell’esclusione: una marginalizzazione percepita che si protrae dalla presidenza di Ali Abdullah Saleh. Inoltre, non vi sono donne nel nuovo gabinetto. Il via libera all’esecutivo unitario è stato preceduto dall’applicazione dell’allegato militare dell’accordo di Riyadh, fortemente voluto e negoziato dall’Arabia Saudita, che ne è il garante. L’allegato prevedeva il ritorno dei belligeranti, filo-governativi e secessionisti, alle posizioni precedenti l’intensificazione militare dell’agosto 2019, quando le parti guerreggiarono apertamente tra Aden, il confinante governatorato di Abyan (di cui Hadi è originario) e quello di Shabwa, sostenute rispettivamente da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Eau) con attacchi aerei mirati.

Le Giants Brigades: una forza locale e neutrale tra i belligeranti?
Nel dicembre 2020 una squadra militare di de-escalation saudita ha monitorato il ridispiegamento delle parti, armi incluse: la strada principale che collega Aden all’Abyan è stata riaperta. Le parti sono state così sostituite, sul campo, da “forze appartenenti all’autorità locale”, come stabilito dall’accordo. Tuttavia, in Abyan (area di Shaykh Salem) le “forze appartenenti all’autorità locale” hanno preso il volto delle Giants Brigades (al-Amaliqah) che dovrebbero così fungere da forza di interposizione. Mai citate nell’accordo di Riyadh né dal successivo meccanismo per accelerarne l’implementazione (luglio 2020), queste brigate sono composte da soldati dell’esercito regolare e volontari, riunendo simpatizzanti dell’ex Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (Pdry), combattenti tribali della confederazione degli Yafa’ e salafiti: non a caso, il rapporto degli esperti Onu sullo Yemen del 2020 le classifica come “non state actor”. Finora, le Giants Brigades hanno combattuto gli huthi nell’area di Hodeida e anche nella città contesa di Taiz; ricevono il sostegno degli Emirati sin dal 2015 anche se, dopo la firma dell’accordo di Riyadh nel 2019, gli emiratini hanno privilegiato l’appoggio a formazioni alleate. Infatti, le brigate sono formalmente parte delle West Coast Forces guidate da Tareq Saleh (nipote del defunto presidente), insieme alla Tihama Resistance e a ciò che resta della Guardia repubblicana. Pertanto, in un contesto di allineamenti politico-militari estremamente fluido, è molto probabile che le Giants Brigades oscillino adesso verso il campo saudita, dal momento che Riyadh monitora l’applicazione dell’accordo: secondo quanto comunicato dalla brigata, il nuovo ruolo a Shaykh Salem è stato deciso dopo un incontro con il comitato saudita incaricato dell’attuazione del Riyadh Agreement. A ogni modo, le Giants Brigades non possono essere considerate una “forza appartenente all’autorità locale”, né un player neutrale tra filo-governativi e secessionisti. Il precedente è l’accordo di Stoccolma (2018), mediato dall’Onu tra huthi e governo riconosciuto: esso prevedeva che la gestione dei porti di Hodeida, Ras Isa e al-Salif divenisse “responsabilità di forze di sicurezza locali”, ma l’accordo rimane disatteso. Proprio nel mese di gennaio, gli scontri tra huthi e West Coast Forces si sono aspramente riaccesi a sud della città di Hodeida (Hays e Durayhimi) e avrebbero causato circa 150 morti nella sola settimana dell’11-18 gennaio. Insomma, forze locali non è sinonimo di forze neutrali.

Dentro il “microcosmo” del Sud: crescono milizie e conflittualità nel fronte secessionista
Non è dunque da escludere che il crescente ruolo delle Giants Brigades provochi malcontento e rivalità sul campo, innescando nuovi riposizionamenti. E che il fronte secessionista e filo-emiratino torni alla guerriglia con i pro-governativi per ricucire i propri dissidi interni: gli scontri violenti sono in crescita tra le forze che appoggiano il Stc, soprattutto ad Aden. Dal 2019 due fattori intrecciati stanno ridefinendo gli equilibri di forza nel Sud, specie nel settore sud-ovest che include Mokha, Aden, Lahj e Abyan. Il primo è l’accordo di Riyadh tra filo-governativi e secessionisti, la cui implementazione è ora divenuta parziale realtà. Il secondo è il ritiro di gran parte dei soldati degli Emirati Arabi dallo Yemen, avvenuto tra giugno e dicembre 2019: gli Eau sono i principali organizzatori e sponsor delle milizie del Sud, in molti casi affiliate al Consiglio di Transizione del Sud, sostenute in chiave anti-huthi, anti-jihadista e per ripristinare la governance della sicurezza locale. Nonché per perseguire obiettivi d’influenza geopolitica nel quadrante Mar Rosso-Bab el-Mandeb-Mar Arabico-Oceano Indiano. Queste forze yemenite hanno aspirazioni autonomiste o secessioniste e, da un punto di vista identitario-ideologico, sono dei compositi microcosmi (veterani o simpatizzanti della Pdry, salafiti, tribù con forte radicamento locale).
Dopo il ridispiegamento delle forze e l’istituzione di un governo unitario, il prossimo punto dell’accordo di Riyadh prevede la riorganizzazione delle forze militari sotto il comando del ministero della Difesa e quella delle forze di sicurezza sotto il ministero degli Interni: la partita più insidiosa si giocherà lì e vedrà l’Arabia Saudita nel formale ruolo di arbitro, che Riyadh si è autoassegnato avendo redatto l’accordo. Infatti, con l’accordo di Riyadh, l’Arabia Saudita ha assunto la supervisione diretta delle Security Belt Forces (Sbf) e delle altre forze militari fino alla loro incorporazione nel ministero della Difesa yemenita. Finora, l’unificazione non è avvenuta, neppure tra i tanti gruppi armati che proteggono le infrastrutture civili ed energetiche di Aden, come sede del governo, Banca centrale, aeroporto, porti e raffineria (da estendere in secondo luogo anche a porti, aeroporti e terminal delle città strategiche di Mukalla, Mokha e Balhaf): anzi, le loro capacità aree operative stanno mutando, come acutamente notato da Acled. Infatti, la creazione di una “Installations Protection Force” unitaria (come al punto tre dell’allegato tre, Security Arrangements, dell’accordo di Riyadh) è ancora in sospeso. In più, la formazione dell’esecutivo unitario rappresenta solo una fragile tregua armata fra il presidente Hadi e i secessionisti. Già il 17 gennaio 2021 questi ultimi criticavano aspramente le successive nomine di Hadi (come il capo del Consiglio della Shura e il procuratore generale), in un comunicato stampa in cui il Stc rigettava le nomine “unilaterali”, minacciando ulteriori passi. Il 21 gennaio il Consiglio di Transizione del Sud ha annunciato la formazione di un nuovo gruppo armato, le “Aden Ring Belt Forces”, in palese violazione dell’Accordo di Riyadh. Di certo, la tensione sta crescendo fra alcune milizie del Sud, anche tra quelle affiliate al Stc, che ora si trovano a operare in un contesto in divenire per equilibri politici e ruolo degli attori statali esterni, ovvero Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Tre esempi. Il 25 dicembre 2020 tre miliziani sono rimasti feriti ad Aden (distretto di Mansoura) a causa di uno scontro interno a forze affiliate al Consiglio di Transizione del Sud, tra cui le Security Belt Forces. Il 19 gennaio 2021 scontri armati sono di nuovo scoppiati tra le forze pro-emiratine a Mansoura per il controllo territoriale. Già nel giugno 2020 la violenza era esplosa ad Aden tra le Sbf e una milizia vicinissima al leader dei secessionisti al-Zubaidi (Asifah Brigade), poiché le prime si rifiutarono di attaccare forze filo-governative in Abyan. Intanto, a Socotra, nei giorni in cui governo riconosciuto e Stc davano vita al nuovo esecutivo unitario, forze filo-emiratine dell’isola avrebbero istituito un nuovo sito militare nell’ovest dell’isola. Dall’aprile 2020, quando il Consiglio di Transizione dichiarò la secessione del Sud dal resto dello Yemen (poi ritirata nel luglio 2020), l’isola di Socotra, nell’omonimo arcipelago, segue logiche parallele rispetto alla politica della terraferma. Infatti, Socotra è ancora controllata dal filo-emiratino Stc: il responsabile del Consiglio di Transizione sull’isola, Rafat Al Thaqali, secessionista di credo salafita, ne è di fatto il governatore dopo che il governatore nominato dal presidente Hadi è stato rimosso dai secessionisti, perché molti degli equilibri di forza sul territorio non vengono disciplinati, neppure formalmente, dall’accordo di Riyadh.

Gli attacchi degli huthi. Gli Stati Uniti designano Ansar Allah come organizzazione terroristica e sale la tensione tra huthi e Israele
L’11 gennaio 2021 il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato la designazione del movimento politico degli huthi, Ansar Allah (“partigiani di Dio” in arabo) come organizzazione terroristica, a decorrere dal 19 gennaio. Il leader politico degli huthi, Abdel Malek Al Huthi, suo fratello Abdul Khaliq e il comandante Abdullah Yahya Al Hakim, lo stratega militare del movimento-milizia, vengono classificati come Specially Designated Global Terrorist (Sdgt). I tre erano già sottoposti a sanzioni Usa dal tardo 2014 (travel ban e asset freeze), dopo l’occupazione della capitale Sanaa che portò poi al colpo di stato del gennaio 2015, nonché all’embargo Onu sulle armi al gruppo. L’amministrazione Biden ha annunciato che “riconsidererà immediatamente” la decisione, che potrebbe essere emendata o revocata. Già il segretario uscente Pompeo aveva emesso delle licenze poiché Nazioni Unite, Croce Rossa e organizzazioni umanitarie potessero continuare a operare, nonché per l’ingresso di beni alimentari e sanitari: ma l’impatto di tali licenze non è calcolabile. La scelta statunitense, a lungo sconsigliata da Nazioni Unite, Unione Europea e principali organizzazioni umanitarie, è il “colpo di coda” anti-Iran dell’amministrazione di Donald Trump.
Da una prospettiva strategica, la classificazione degli huthi come organizzazione terroristica – seppur il movimento abbia perpetrato numerosi attacchi anche contro civili, nonché obiettivi politici ed economici – è la resa della politica per una serie di motivi: spegne le ultime chances di negoziato; genera nuovi ostacoli per l’azione delle organizzazioni umanitarie che operano nelle aree controllate dagli huthi; favorisce l’area più intransigente del movimento huthi, mettendo in difficoltà quella più incline alla trattativa. È assai improbabile che l’Arabia Saudita, che ha salutato la scelta di Trump, scelga ora di dialogare con un movimento designato come terrorista. Ma i sauditi non possono mutare la geografia e il regno sarà molto probabilmente il primo a risentire, con probabili ritorsioni e nuovi attacchi missilistici terrestri e marittimi da parte degli huthi, della decisione di Trump. Pertanto, l’idea di una exit strategy di Riyadh dalla guerra in Yemen, coltivata dagli stessi sauditi, appare più che mai una chimera: l’Arabia Saudita sarà costretta a rimanere militarmente dentro a un conflitto che sta perdendo e sa di non poter vincere. La mossa di Trump non può che essere allora funzionale alla sola strategia Usa della “massima pressione” nei confronti dell’Iran: Teheran sostiene e arma gli huthi però non li ha creati, dato che il movimento è parte del tessuto sociale e identitario dello Yemen e continua ad avere obiettivi politici yemeniti, non regionali. Tuttavia, l’atteggiamento della passata amministrazione, nonché dell’Arabia Saudita, ha contribuito a regionalizzare non soltanto la guerra in Yemen – che nasce come conflitto di potere interno – ma la stessa immagine degli huthi, che sfruttano la “resistenza” contro i sauditi per legittimarsi agli occhi del network pro-Iran.
Vanno lette in questo senso anche le crescenti minacce verbali fra gli huthi e Israele (acuitesi dal 2019), con possibili ricadute sulla sicurezza regionale e del Mar Rosso, specie in caso di escalation anti-Iran. Il livello di tensione sembra aver superato la tradizionale propaganda per diventare qualcosa di più concretamente insidioso. A inizio 2021 le forze armate israeliane hanno dispiegato un sistema di difesa antiaerea (Iron Dome per intercettare i razzi; più i missili Patriot contro missili e droni armati) intorno alla città di Eilat (Golfo di Aqaba); inoltre, la marina di Israele avrebbe inviato un sottomarino nel Mar Rosso. Gli huthi, per voce di un membro del Consiglio politico, avevano affermato (23 novembre 2020) di stare sviluppando missili in grado di colpire Eilat: l’Iran avrebbe inviato droni Shahed-136 (usati per missioni suicide, con un raggio di 2000/2200 chilometri) agli huthi, nella regione settentrionale di al-Jawf che confina con l’Arabia Saudita. Di certo, nel corso del 2020, gli attacchi asimmetrici perpetrati dagli huthi (con missili, razzi, droni armati, imbarcazioni esplosive) nei confronti degli avversari, in Yemen o contro il territorio dell’Arabia Saudita, sono diventati più frequenti e accurati. In Yemen tali attacchi colpiscono soprattutto obiettivi militari, politici e civili; in Arabia Saudita essi vengono sferrati in particolare contro obiettivi militari ma soprattutto energetici e commerciali nel sud del regno: fin qui, gli huthi non hanno mai apertamente mirato a obiettivi politici in Arabia Saudita.
In Yemen, è invece tutta un’altra storia. Il 30 dicembre 2020 una duplice esplosione attribuita agli huthi, prima all’aeroporto di Aden, poi al palazzo presidenziale della città, ha messo sotto attacco il rientrante governo riconosciuto (e unitario, dato l’ingresso del Consiglio di Transizione del Sud nell’esecutivo), mentre era appena atterrato ad Aden. La squadra di governo, subito trasportata al palazzo presidenziale, dove poi si è registrata una seconda esplosione, è rimasta illesa: tra le 26 vittime e gli oltre 60 feriti vi sono soprattutto civili, tra lavoratori aeroportuali, giornalisti, operatori umanitari e persone che transitavano all’aeroporto. Il governo riconosciuto ha subito attribuito l’attacco agli huthi e la coalizione militare a guida saudita che interviene in Yemen dal 2015 sostiene di aver abbattuto un drone armato diretto contro il palazzo presidenziale di Aden. Dopo l’attacco al governo yemenita, l’Arabia Saudita ha bombardato Sanaa per ritorsione. La dinamica non è inedita: per esempio, il 1° agosto 2019, gli huthi rivendicarono un duplice attacco contro una parata militare nella città di Aden, con missili e droni, che uccise 47 persone tra cui Abu al-Yamama, il potente comandante delle secessioniste Security Belt Forces. Stavolta, a differenza del solito, gli huthi non hanno però rivendicato l’azione contro il governo. Di certo, questo tipo di attacco consente un ampio margine di plausible deniability, rendendo dunque più difficile l’individuazione del responsabile. Rimane tuttavia un’ombra sull’accaduto: l’aeroporto di Aden avrebbe dovuto essere il luogo più sicuro del paese, specie nel giorno in cui il governo faceva rientro e gli huthi non sono presenti in città, dunque non avrebbero potuto contare su appoggi logistici nell’area.
Senza dubbio, gli attacchi asimmetrici degli huthi contro il territorio saudita, o contro obiettivi nel Mar Rosso, sono diventati frequenti e potrebbero generare escalation imprevedibili. Tra i casi più recenti, una petroliera con bandiera di Singapore è stata attaccata da un’imbarcazione esplosiva mentre era ancorata al terminal di Jedda (14 dicembre 2020): un salto di qualità per gli huthi, che non hanno rivendicato l’operazione ma la cui firma è altamente probabile date le modalità e l’area dell’attacco. In precedenza, due imbarcazioni esplosive avevano danneggiato una piattaforma di Saudi Aramco nel terminal petrolifero di Jizan (13 novembre 2020); un missile era stato lanciato contro una stazione di distribuzione di Saudi Aramco a Jedda, provocando un limitato incendio (23 novembre 2020); una petroliera greca era stata danneggiata dall’esplosione di una mina marittima al largo della costa saudita di Shuqaiq, vicino a Jizan (26 novembre). In tale spirale, de-escalation e stabilizzazione del confine yemenita-saudita appaiono più che mai urgenti, soprattutto a seguito della designazione di Ansar Allah come organizzazione terroristica da parte degli Stati Uniti. Dati gli attacchi asimmetrici degli huthi, questa scelta potrebbe avere implicazioni negative anche per la sicurezza marittima nel Mar Rosso. Ma proprio la mossa di Washington allontana le residue, flebili speranze di trattativa.
(www.ispionline.it, 10 febbraio 2021)