Domenica 9 maggio 2021, VI Domenica di Pasqua
UN ALTRO ANNIVERSARIO
DAI LITTORIALI A VIA FANI, ATTRAVERSO IL CATTOLICESIMO SOCIALE. RICORDO DI ALDO MORO
Riflettere oggi sulla parabola politica e umana di Aldo Moro (1916-1978), nell’anniversario della sua tragica e in apparenza assurda fine quarantatré anni fa – quando ne aveva appena sessantadue dopo una vita straordinariamente intensa e piena di successi –, rappresenta personalmente per chi scrive un doloroso cammino sulla scia dei propri errori di valutazione e d’impostazione. Quando lo ritrovarono rannicchiato senza più vita in quel bagagliaio di via Fani, il 9 maggio del ’78 (con significativa intenzione simbolica, vicinissimo a piazza del Gesù e a via delle Botteghe Oscure, sedi rispettivamente della DC e del PCI), da molto tempo ormai – insieme con una pattuglia di amici e di colleghi di università –, provenendo dalla destra cattolica, avevo imboccato la via di un europeismo sociale fermo fautore dell’indipendenza dai due blocchi “imperialistici” (USA e URSS), alla ricerca di una “terza via” che ci faceva guardare con simpatìa a Cuba, al “Che” Guevara, alla Cina e al Vietnam. Per questo, pur commossi e addolorati per la tragica fine di un politico raffinato e di uno studioso illustre, non riuscivamo in fondo a rimpiangere troppo la scomparsa di un protagonista della vita politica di trent’anni di prima repubblica che assiduamente si era adoperato per quello che a noi e a molti era sembrato un “cedimento” nei confronti del comunismo sovietico e un appoggio obiettivo a una nuova fase dell’egemonia mondiale ripartita tra Washington e Mosca. Non riuscivamo a vedere, allora, come l’impegno politico e magari terroristico delle Brigate Rosse – in apparenza tutto teso a combattere l’alleanza “borghese” tra i “moderati” cattolici e comunisti e quindi il tradimento delle originarie istanze sociali e rivoluzionarie di entrambi – fosse in realtà saldamente controllato da quella parte dei servizi statunitensi (e italiani) che era disposta a tutto pur di ostacolare qualunque evoluzione del mondo europeo proprio verso quell’indipendenza dai blocchi che noi stessi auspicavamo. Al pari dell’estrema destra e di buona parte dei moderati di centrosinistra, noi temevamo l’avvicinamento progressivo del ceto di governo italiano all’Unione Sovietica e non ci fidavamo per nulla della “via italiana” (ed europea) al socialismo indicata da Enrico Berlinguer, che con la linea di Moro convergeva.
Eppure, tutto era stato chiaro. Per anni avevamo riso alla battuta non ricordo più di quale deputato il quale aveva sarcasticamente affermato che “l’unica cosa chiara che Moro ha in testa è il suo ciuffo di capelli bianchi sulla fronte”. Ma non era vero: in realtà Moro esprimeva i suoi giudizi politici in un linguaggio sempre strettamente connesso alla sua professione di filosofo del diritto, senza troppe concessioni alle necessità della comunicazione politica. Parlava forse “difficile”: ma con una complessità sempre lucida e rigorosa, ben lontana dal “ragionamento fumoso” che alcuni avversari superficiali o faziosi gli rimproveravano.
Il professore di Maglie, l’amico di papa Paolo VI e di Dossetti, era sempre stato – fin dai tempi di quello straordinario documento che è il “Codice di Camaldoli”, del luglio ’42 – il fautore di un impegno cattolico nel senso splendidamente definito da Alcide De Gasperi – che pure non lo approvava del tutto –, per il quale la dc era “un partito di centro che guarda a sinistra”.
Di centro, guardando a sinistra. Era senza dubbio il risultato, nel ’43, di almeno otto anni di lavoro e di meditazione all’interno della FUCI – la Federazione Universitaria Cattolica Italiana –, ch’era seguita con attenzione da monsignor Giovanni Battista Montini e nella quale militavano anche Amintore Fanfani, Giuseppe Dossetti, Giovanni Miccoli e altri; mentre Giulio Andreotti, direttore della rivista “Azione Fucina”, era membro anche dell’Azione Cattolica.
Ma Aldo Moro, giurista, partecipante con ottimo esito ai Littoriali della Cultura e dell’Arte, era divenuto nel 1941 docente di filosofia del diritto e di politica coloniale. Nell’immediato anteguerra egli era stato, come Amintore Fanfani, concettualmente molto vicino agli ambienti nei quali si elaborava – tra l’idealismo di Giovanni Gentile col suo “umanesimo del lavoro” e le istanze degli studiosi fascisti sempre più attratti dalla convergenza teoretica con la dottrina sociale della Chiesa – un pensiero corporativo che al di là del dirigismo sociale del regime prospettasse una politica interclassista e comunitaria sempre più aperta ai ceti subalterni e ricettiva nei confronti del pensiero di Ford e di Keynes. Molti dei “Padri Costituenti” della costituzione antifascista della Repubblica italiana, in realtà, antifascisti non erano davvero mai stati (non, almeno, prima del ’43): e nell’ideale della “repubblica fondata sul lavoro” avevano immesso molto delle loro vecchie competenze e delle loro vecchie convinzioni a proposito del gentiliano “umanesimo del lavoro” e dell’economia corporativa, sia pur imperfettamente attuata nei lustri precedenti.
Quel “centrismo orientato a sinistra” sarebbe servito appunto proprio a quanti, già al tempo della prima repubblica, sognavano una “terza via” attraverso la quale superare l’opposizione tra liberalismo e comunismo – e, in politica estera, tra USA e URSS – che invece, negli anni della “guerra fredda”, dominò e condizionò irreparabilmente la vita politica europea in generale, italiana in particolare. Posso testimoniarlo direttamente: nato nel 1940, cattolico e rigorosamente anticomunista nella mia adolescenza, militai come gregario prima, dirigente poi, nelle formazioni giovanili del Movimento Sociale Italiano tra 1953 e 1965. Tale partito s’ispirava – sinceramente, nei suoi quadri di base – all’esperimento di socializzazione avviato nella Repubblica Sociale Italiana tra ’43 e ’45: insieme con tanti altri giovani, aspiravo a un equilibrio tra un’impostazione politica e culturale “di destra” e una socioeconomica “di sinistra” che ci faceva guardar con simpatìa, per esempio, all’esperimento nasseriano in Egitto, alla prima Falange spagnola, al peronismo. Ma tali istanze – che ci avrebbero condotto naturalmente a un dialogo con alcune forze della sinistra proprio in una prospettiva di scioglimento della politica dei blocchi contrapposti – venivano sistematicamente frustrate e snaturate dai nostri parlamentari e dai nostri dirigenti che parlavano con la base del MSI un linguaggio “sociale” ma ne sfruttavano la carica anticomunista per abbracciare poi, nelle scelte di fondo, una politica sistematicamente atlantista e asservita alla NATO, a sua volta strumento degli USA.
In un clima pertanto dominato dagli opposti fantasmi dell’“antifascismo” delle sinistre e dell’“anticomunismo” delle destre, noi ragazzi del MSI restavamo prigionieri di equivoci come quello che, nella primavera del 1964, c’indusse a simpatizzare con l’iniziativa del generale Giovanni De Lorenzo il quale, appoggiato dal presidente della Repubblica Antonio Segni, stava organizzando il famoso “piano Solo” che avrebbe dovuto tradursi in un golpe politico-militare messo in atto dall’arma dei carabinieri insieme con alcuni spezzoni dell’esercito e qualche gruppo di civili politicizzati. In tale contesto era prevista, fra l’altro, la soppressione fisica di Aldo Moro che, presidente del consiglio dall’aprile del ’63, aveva varato un programma di ampie, forse eccessivamente generose riforme sociali.
In effetti lo statista di Maglie stava diventando, insieme con Amintore Fanfani, uno dei più coerenti e decisi avversari del liberismo e dell’atlantismo dei ceti politici dirigenti di allora. Superati i pericoli golpisti, capo del governo per la terza volta tra ’66 e ’68, egli varò un esperimento monetario: le famose 500 lire emesse non dalla Banca d’Italia, ma direttamente dallo Stato, quindi senza contrarre un debito con Bankitalia e Banca Centrale Europea. Successivamente, tra ’68 e ’72, come ministro degli Affari esteri Moro mantenne la linea politica filoaraba inaugurata da Fanfani e si accordò con Yasser Arafat per tenere l’Italia fuori da eventuali attentati terroristici. Capo del governo per la quarta volta nel 1974 dopo la parentesi “centrista” del ’71-’73 e il ritorno alla politica di centrosinistra, Moro avviò una prima fase di dialogo con il segretario del PCI Enrico Berlinguer. Fu allora che un variegato fronte composto di “laici” quali Marco Pannella e Ugo La Malfa, appoggiati dall’estrema sinistra ormai antisovietica di formazioni quali Democrazia Proletaria, condusse una politica scopo primario della quale era il bloccare un’intesa DC-PCI che, secondo quelle forze – ma anche a parere delle destre estreme –, avrebbe condotto a guidare un futuro governo italiano verso un’intesa con l’Unione Sovietica, col relativo abbandono del fronte atlantista.
Nel ’78, un governo di “unità nazionale” che includesse il PCI nella maggioranza era ormai possibile. Ma – guarda caso – le due superpotenze si trovarono d’accordo sulla necessità di fermare un esperimento che secondo USA e NATO conduceva a un progressivo antiatlantismo della politica italiana, mentre secondo i dirigenti del Cremlino comportava l’emancipazione del PCI dalla loro egemonia. Sarebbe stata, quella, una grande occasione per varare una “terza forza” libera dai condizionamenti delle due potenze internazionali teoricamente e apparentemente opposte, praticamente complementari. La risposta sovietico-americana, attraverso i servizi italiani e la strumentalizzazione della sinistra extraparlamentare, fu il rapimento, il “processo popolare” e l’assassinio di Aldo Moro.
L’atlantismo italico era salvo; l’egemonia statunitense sul Mediterraneo e le basi NATO anche. Moro ne fu una vittima politica e anche fisica, in quanto vi si era opposto; più tardi un nuovo tentativo di emancipazione, quello di Craxi, fu represso con i soli strumenti politici senza bisogno di soppressione fisica. Per quanto riguarda il leader socialista, “reo” di aver ostacolato lo spadroneggiare degli stranieri insediati a Sigonella, bastò incastrarlo politicamente: era, si disse – forse non senza qualche ragione specifica – un puttaniere a capo di una banda di ladri. Aldo Moro però non era né ladro, né puttaniere. Lui, avevano dovuto ammazzarlo. Esecutori i peggiori banditi “rossi”, mandanti le peggiori carogne internazionali.
Questa la triste preistoria di un progressivo asservimento, che oggi ha condotto la base di Sigonella a divenire un potenziale obiettivo delle reazioni russe all’aggressione statunitense nel Vicino Oriente. Rischiamo di venir coinvolti in una guerra che non abbiamo né causato né voluto solo perché non abbiamo saputo scioglierci per tempo da un’alleanza politico-militare divenuta di anno in anno più svantaggiosa e oppressiva. Ancora una volta, come ai tempi di Craxi, è protagonista Sigonella. Pensiamoci.
Intanto, arriva fresco di stampa in libreria un libro di Walter Veltroni, Breve storia di una lunga stagione politica. Il caso Moro e la Prima Repubblica, Milano, Solferino, 2021, pp. 202. È qualcosa di più di un libro d’occasione: è la testimonianza di un uomo politico che fu testimone importante dell’ultima fase di un processo politico avviato nel 1948 e che, dopo gli “Anni di piombo” e il “riflusso” craxiano, non aveva ormai più nulla da dire al paese. Che poi gli anni venuti dopo ce lo abbiano fatto addirittura rimpiangere è purtroppo un altro discorso.