Minima Cardiniana 327/7

Domenica 16 maggio 2021, Ascensione del Signore

DULCIS IN FUNDO (O SE PREFERITE IN CAUDA VENENUM)
RINFRESCHIAMOCI LE IDEE
Ragazzi, mi dispiace ma andiamo male. Sono sommerso da messaggi di protesta: “Ma che cosa succede? Com’è che non ci hai mai detto nulla prima?”.
Ecco la risposta. Eravamo già immersi nella violenza e nell’indifferenza. Sono passati tre anni da quel mio vecchio
Minimum Cardinianum. Giudicate voi.

Domenica 8 aprile 2018 – Domenica in albis
EFFEMERIDI DEL CAOS
ISRAELE E DINTORNI
Molti mi chiedono, dopo i recentissimi fatti di Gaza, quali siano le radici storiche della tragedia: prima 21 morti e 1400 feriti circa, la settimana scorsa; e quindi, il 6 scorso, un altro “Venerdì di Sangue” con altri 7 palestinesi morti e un altro migliaio di feriti. Sassate, bombe molotov e cortine fumogene create da pneumatici bruciati per difendersi dai soldati israeliani, che sparano non già per “rispondere al fuoco” (sassi, molotov e fumo non sono “fuoco” nel senso militare del termine), ma solo per impedire ai manifestanti di avvicinarsi a un confine che, oltretutto, non è uno di quelli stabiliti e internazionalmente riconosciuti ma solo una recinzione creata per decisione e nell’interesse di uno stato e di una forza armata che rifiutano la definizione di “occupanti”. Ma il fuoco israeliano è giustificato dalla necessità di “impedire le infiltrazioni”.
È stato notato che le manifestazioni di questi giorni sono state monopolizzate da Hamas, che è il partito leader della “Striscia di Gaza” ma che non rappresenta la volontà di tutti i palestinesi che vi sono rinchiusi, e che ormai arrivano a circa 2 milioni. Certo, l’attuale capo di Hamas nella “Striscia”, Yahya Sinwar (56 anni, scarcerato dagli israeliani nel 2011 nel gruppo dei 1000 imprigionati che vennero “scambiati” con il soldato israeliano Gilad Shalit) è un fautore deciso della “linea dura”. I tribunali d’Israele gli avevano inflitto condanne multiple che giungevano a totalizzare ben quattro ergastoli: è lui l’anima della “Marcia del Ritorno” avviatasi prima di Pasqua e che culminerà il 15 maggio prossimo, tre giorni prima del settantesimo anniversario di quel 18 maggio 1948 che vide la fondazione dello stato d’Israele e che per i palestinesi fu la Nakba, il giorno della “sciagura”.
Pianificata, quindi, l’azione di Hamas: e prevedibile che non tutti i palestinesi di Gaza, che ne subiranno le conseguenze, l’auspichino e l’approvino. Ma queste sono le regole del gioco: il perpetuarsi di una situazione già condannata dalle Nazioni Unite (dalla celebre “risoluzione 242” in poi) ha reso inevitabile che si arrivasse a tanto. La gente di Gaza è ormai provata fino alla disperazione: e una vecchia regola politico-militare, in casi come questi, prescrive che non si debba mai condurre un avversario in condizioni d’inferiorità alla disperazione. I disperati diventano micidiali. Ma il comunicato degli organizzatori della “Marcia del Ritorno” parla chiaro: “Non abbiamo nient’altro da perdere se non la nostra vita”.
Abu Mazen, presidente dell’Authority nazionale palestinese ed erede riconosciuto della linea dell’OLP di Arafat, non ama né Hamas né il partito sciita libanese Hezbollah che l’appoggia: e non ne è riamato. Israele non ha certo bisogno di esser consigliata, sul piano della politica, eppure non dovrebbe mai dimenticare l’aurea massima latina del Divide et impera, che in passato ha magistralmente messo in pratica. Sarà che Bibi Netanyahu è attualmente preoccupato di ben altre cose che non i palestinesi e che teme molto per il suo posto e i suoi interessi privati, per non parlare della sua immagine pesantemente compromessa: sta di fatto che negli ultimi tempi sembra aver abbassato la guardia in termini di prudenza in misura inversamente proporzionale a quanto ha alzato le mani in termini di aggressività. Non si spara su chi “si avvicina a un confine”, specie se non lo ha nemmeno ancor superato e se quello non è un confine internazionalmente legittimo: non ci si può permettere di far ciò neppure se si è difesi a oltranza da un inquilino della Casa Bianca (a sua volta piuttosto nei guai). Il risultato delle scelte sbagliate di Netanyahu è stato che Abu Mazen, messe da parte le sue riserve su Hamas, si è rivolto accorato all’ONU, all’Unione Europea e alla Lega Araba affinché vengano fermate “le uccisioni e la repressione da parte delle forze di occupazione israeliane a fronte di una pacifica manifestazione di massa”. Prima dell’ecatombe del 6 scorso, hanno ripetuto i media internazionali, “inviti alla calma” erano arrivati da Jason Greenblatt, inviato del presidente Trump nel Vicino Oriente, dall’Unione Europea, dal presidente egiziano. “Inviti alla calma” rivolti ai manifestanti, affinché desistessero dall’avvicinarsi alle linee difese dai soldati israeliani? O ai vertici delle forze armate (e della politica) d’Israele, affinché si tenesse presente che il rispondere a una manifestazione di protesta usando le armi da fuoco e seminando la morte è qualcosa che almeno da noi italiani, dai tempi di Bava Beccaris in poi, è stata universalmente disapprovata?
Sembra che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (membro permanente del quale è il governo USA, il cui capo nel dicembre scorso si è pronunziato contro la risoluzione 242 in contraddizione con la sua presenza nell’organizzazione della quale dovrebb’essere garante) abbia promesso una riunione a breve sul tema. Insomma, il solito quadro: chi muore tace, chi vive un po’ grida e poi si dà pace e tutto prosegue come prima. In fondo, da qui al 18 maggio c’è oltre un mese: i palestinesi di Gaza sono quasi 2 milioni, a voglia di ammazzarli…
Ma come, quando è cominciato tutto ciò? Me lo chiedono in parecchi: e sono un po’ stanco di ripeterlo. Francamente ho già affrontato varie volte questo problema: è evidente però che a questo punto molti hanno bisogno di una più esauriente e articolata trattazione. Mettetevi quindi comodi che vi spiego tutto ricominciando da capo. Repetita stufant, sed iuvant.

Le radici lontane
Il garbuglio cominciò serenamente, si potrebbe dire impercettibilmente, nel corso dell’Ottocento: quando alcune centinaia di coloni sionisti – partigiani del principio che si debba dare una terra a un popolo che non ce l’ha: quello ebraico, in Europa soggetto a segregazioni e persecuzioni – s’insediò in modo pacifico e positivo in Palestina, allora provincia dell’impero ottomano. Si trattava di agricoltori e di artigiani, ma anche di studiosi, d’intellettuali e di professionisti che entrarono in facile, amichevole contatto con le popolazioni arabe locali, pagando correttamente la terra che acquistavano, aiutando la gente del posto (i sionisti portarono in quella regione la medicina moderna, sovvenendo tutti, senza distinzione di etnìa o di fede). La situazione precipitò tuttavia durante la prima guerra mondiale, quando il governo britannico (che intendeva distaccare i sionisti tedeschi dalla loro fedeltà al Kaiser Guglielmo) fece ufficiosamente sapere alla lega internazionale ebraica presieduta dal barone Rotschild di esser favorevole alla creazione di un Jewish national homeland in Palestina (tale il testo della famosa “dichiarazione Balfour” del 1917). Ciò, unito al fatto che le potenze vincitrici della prima guerra mondiale – Francia e Inghilterra – si divisero dopo il 1918 i territori arabi (che avevano precedentemente promessi allo sceicco Hussein, “guardiano dei Luoghi Santi” della Mecca e di Medina, come area di un nuovo regno arabo unito sotto la sua corona) amministrandoli nel regime paracoloniale dei “mandati”, provocò tra coloni ebrei e residenti arabi una vera e propria guerra civile che il governo inglese (cui spettava il “mandato” sulla Palestina) era incapace sia di risolvere, sia di sedare. Frattanto, dopo il ’45, in Palestina arrivarono nuovi coloni ebrei: sono i sopravvissuti alla shoah, che nel nuovo Erezt Israel scorgevano – come dice il testo di una loro bellissima canzone, sulla musica della Moldava di Smetana – la loro Tikhvà, la loro “speranza”.

La fondazione dello stato d’Israele
All’indomani della seconda guerra mondiale, l’aliyah (letteralmente “salita”: il pellegrinaggio, quindi l’esodo ebraico verso la Palestina) cominciata con i primi sionisti a metà dell’Ottocento riprese con forza: e con esso le lotte contro gli arabi e gli inglesi che continuavano a presidiare la regione. Fino dal 1942, la conferenza sionista aveva reclamato il diritto a un’immigrazione numericamente parlando illimitata; al rafforzarsi del controllo britannico si rispose, dopo il conflitto mondiale, con una guerriglia molto dura culminata in atroci episodi terroristici quali l’attentato che fece esplodere nel 1946 l’Hotel King David di Gerusalemme.
Intanto, nella prospettiva della costituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la vecchia Società delle Nazioni veniva sciolta e quindi, il 18 aprile 1946, le sue funzioni rispetto ai territori oggetto di “mandato” dichiarate esaurite. Poiché dal punto di vista del diritto internazionale la situazione era molto incerta, né erano chiari i termini di trasferimento di sovranità sui “mandati” dalla SdN all’ONU, mentre il panorama politico si stava aggravando in quanto tanto gli arabi quanto gli ebrei manifestavano ciascuno la propria volontà di costituire una qualche realtà statuale in uno stesso territorio, la Palestina, il governo del Regno Unito manifestò la propria intenzione di rinunziare a un “mandato” per il quale non disponeva più di alcuna superiore tutela. A quel punto l’Assemblea Generale dell’ONU creò un’apposita commissione (chiamata UNSCOP: cominciava così l’interminabile passerella delle sigle…), dalla quale venivano però escluse le grandi potenze – il che da un lato al metteva al riparo da forti tensioni, ma dall’altro la faceva nascere debole – compito della quale sarebbe stato il definire la situazione del territorio palestinese quando le autorità e le forze armate britanniche si fossero ritirate, in una data che venne stabilita al 14 maggio del ’48. Fu elaborato un laborioso piano di spartizione in base al quale la Palestina veniva suddivisa in tre zone: una araba, una ebraica e una zona affidata a un’amministrazione fiduciaria e comprendente la popolosa zona contigua a Gerusalemme, a sua volta abitata sia da arabi, sia da ebrei. Da tale terza zona sarebbe stato consentito a tutti il libero accesso ai Luoghi Santi: il suo status internazionale sarebbe stato garantito per dieci anni, trascorsi i quali un referendum avrebbe risolto il problema della sovranità su Gerusalemme secondo i princìpi fondanti dell’ONU, soprattutto quello dell’autodeterminazione dei popoli. Frattanto, il giorno stesso della scadenza del “mandato” britannico, il 14 maggio, la Jewish Agency si trasformò in stato d’Israele sotto la leadership di un anziano ex-esponente del partito laburista Mapai divenuto capo della Haganah, David Ben Gurion: e invitò gli arabi di Palestina a fare altrettanto. Il 18 successivo, lo stato venne ufficialmente proclamato. Ci si è chiesti, a posteriori, che cos’avrebbe potuto accadere se anche gli arabi palestinesi avessero a loro volta proclamato un loro stato, fornendo così agli ebrei un immediato interlocutore. In effetti, dopo la fine del regime mandatario, se gli ebrei di Palestina avevano mutato in stato la loro Agency, gli arabi della stessa regione non disponevano più di un loro referente. Ma i paesi arabi vicini, segnatamente Egitto e Transgiordania, cominciarono a far affluire in Palestina alcuni loro reparti militari, con l’approvazione della Lega Araba, senza tuttavia preoccuparsi di impostare in qualche modo la questione in termini di diritto internazionale.
Era già cominciata quella che ormai si poteva già definire una guerra civile tra arabi di Palestina ed ebrei, moltissimi dei quali erano a loro volta nativi della Palestina magari da due o tre generazioni: il fatto che nelle città gli uni e gli altri vivessero in quartieri separati magari ma contigui, e che nelle aree extraurbane i rispettivi insediamenti fossero distribuiti in modo da disegnare una inestricabile mappa a “macchie di leopardo” rendeva tutto più difficile e più pericoloso e penoso. La presenza dei militari dei paesi arabi in un quadro internazionalmente parlando poco chiaro aggravò la situazione. La ferocia di molte pagine di quel conflitto si spiega anche con il fatto ch’esso rappresentava il rovesciamento e la negazione di un rapporto di vicinato e di amicizia che in molti casi si era già sviluppato in profondità. Tra gli episodi più atroci di quella fase vanno ricordati almeno la distruzione del villaggio arabo di Deir Yassin con il massacro di quasi tutti i suoi abitanti, e le altrettanto dure risposte della guerriglia palestinese, incentrata anche nelle città, soprattutto da parte degli irregolari del leader politico ma soprattutto spirituale, il gran muftì di Gerusalemme Husayni ch’era rifugiato a Beirut: come la rappresaglia per il massacro di Deir Yassin, che provocò la morte di una settantina di ebrei tra insegnanti, medici e infermieri che transitavano in un convoglio di una decina di veicoli diretti all’ospedale universitario di Monte Scopus.
Nel giugno del ’48, l’intermediario dell’ONU, conte Folke Bernadotte, nipote di Gustavo V di Svezia e presidente della Croce Rossa svedese, presentò una proposta per la soluzione del conflitto arabo-israeliano all’interno della quale un articolo prevedeva l’inserimento della città di Gerusalemme in territorio arabo, con la concessione dell’autonomia agli ebrei; al rifiuto di tale proposta da parte del governo israeliano, il Bernadotte rilanciò chiedendo che si disponesse almeno la smilitarizzazione della Città Santa. Ma il 17 settembre egli fu assassinato da un commando dei gruppi paramilitari ebrei dell’Irgun e del LEHI; dopo tale episodio, il governo israeliano decise di disarmare le forze militari indipendenti.
Poco dopo, la proposta dell’UNSCOP venne formalizzata il 29 novembre 1948 all’interno della risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU, dopo essere stata approvata con molte difficoltà, con il voto contrario di tutti i paesi arabi e con l’astensione dell’Inghilterra che giudicava il piano di spartizione del tutto inadeguato rispetto alle necessità. Se il neonato stato d’Israele accettò incondizionatamente il piano di spartizione, giudicando che esso gli forniva comunque una legittima base territoriale (per quanto esso finisse per essere obiettivamente più favorevole agli arabi che agli ebrei), gli arabi di Palestina e il mondo arabo vi si opposero compatti anzitutto in quanto tra i territori loro assegnati non c’era continuità territoriale (tra la zona araba della Galilea e la Samaria essa era poco più che teorica e sorvegliata da insediamenti ebraici che presidiavano la ferrovia Damasco-Haifa; inoltre la striscia di Gaza e il Negev erano separati dalla Giudea araba), quindi perché nelle aree loro assegnate si prevedeva comunque la permanenza d’insediamenti ebraici, infine perché – e questo era il motivo principale – essi si rifiutavano di ammettere che la Palestina fosse terra di altri se non araba e che gli ebrei potessero vantarvi il minimo diritto storico: ragione quest’ultima che, per evidenti ragioni storiche sia antiche, sia legate alla storia ormai più che secolare del movimento sionista, era inaccettabile. La battaglia attorno e dentro Gerusalemme, durissima specie nell’area del quartiere ebraico, si concluse con l’estromissione degli ebrei dalla città vecchia e l’attestarsi di una linea di confine smilitarizzata, che venne accettata con l’armistizio del 30 novembre 1948 tra Israele e Transgiordania, formalizzato con il trattato di Rodi del 5 aprile successivo che prevedeva anche un comitato congiunto per disciplinare l’accesso ai Luoghi Santi e all’enclave di Monte Scopus, restata in territorio giordano. Tale parte dell’accordo, tuttavia, non entrò mai in vigore. Il governo israeliano offrì ai palestinesi che si erano rifugiati in territorio arabo (ormai la Galilea era stata conquistata, mentre la striscia di Gaza era entrata nell’area controllata dall’Egitto) di rientrare sulle loro terre, anche se le condizioni del rientro non vennero mai specificate: ma i leaders politici palestinesi non accettarono mai l’offerta facendo di tutto per impedire alla loro gente di accedervi (e sì che molti avrebbero preferito tale soluzione al perpetuarsi dell’incertezza e del pericolo).
Il 9 novembre del 1949, l’ONU votò una risoluzione che confermava a Gerusalemme lo status di città internazionale. Ma israeliani e transgiordani, tacitamente concordi, preferivano la spartizione dell’area cittadina tra loro al controllo internazionale: e così, mentre il governo d’Israele cominciava a prendere provvedimenti – come il trasferimento del Parlamento, la Knesset – per spostare la capitale da Tel Aviv (la “Collina della Primavera”, città ebraica fondata ai primi del Novecento dai coloni attorno al centro storico della città araba di Giaffa). In quattro anni tutti gli uffici governativi si sarebbero spostati), ma già fino dal ’50 Gerusalemme era stata proclamata nuova capitale, per quanto la comunità internazionale non accettasse tale misura e continuasse a inviare a Tel Aviv i suoi ambasciatori. Frattanto, il regno di Transgiordania si annetteva Gerusalemme est e l’area a ovest del fiume corrispondente a Samaria e Giudea, trasformandosi in regno di Giordania. Re Abdullah, entrando nella città con i militari della sua splendida Legione Araba, inviò immediatamente un telegramma al papa in cui si fornivano ampie assicurazioni (puntualmente mantenute, del resto) circa il rispetto dei Luoghi Santi. Ma appena un anno dopo, il 20 luglio del 1951, il sovrano cadde vittima di un attentato proprio mentre stava entrando nella moschea al-Aqsa. Gli succedette il fratello Talal, che governò appena un anno prima di ritirarsi per motivi di salute, e quindi il di lui figlio Hussein, il quale mantenne la sovranità sulla Città Santa.
La guerra del 1956 non ebbe conseguenze per Gerusalemme, che solo pochi anni dopo tornò alla ribalta internazionale quando, nel ’61, vi venne celebrato nell’area ovest di pertinenza israeliana il processo contro l’ex-dirigente dell’Ufficio degli Affari Ebraici della Gestapo, Adolf Eichmann.
Questa fu la situazione con la quale si confrontò nel 1964 papa Paolo VI allorché, nel 1964, visitò Gerusalemme est intrattenendosi con Atenagora patriarca di Costantinopoli.
La Gerusalemme israeliana, a occidente del prestigioso sito della città vecchia, si andò arricchendo dopo il 1948 di prestigiosi edifici che la fecero in poco tempo divenire una città moderna, come la sede della Knesset (il Parlamento), la sinagoga centrale, il Gran Rabbinato, il Museo d’Israele con il “Tempio del Libro” che custodisce gli originali dei rotoli del Mar Morto, l’università del Monte Scopos, il Museo dell’Olocausto, il ponte di Calatrava.

Gerusalemme capitale
Dopo la terza guerra arabo-israeliana, durata dal 5 al 10 giugno 1967 e perciò detta “dei Sei Giorni”, l’intero impianto di Gerusalemme, compresi i Luoghi Santi cristiani e musulmani e la parte antica e monumentale nel suo complesso, si trovò sotto il controllo dello stato d’Israele che – nonostante alcune risoluzioni contrarie da parte dell’ONU – vi trasferì la sua capitale da Tel Aviv. L’euforia causata dalla vittoria tra i soldati israeliani fu comunque immediatamente posta sotto controllo. Dopo gli abbracci festosi e commossi dinanzi al Kotel, il “Muro occidentale” del Tempio, alcuni militari avevano innalzato una bandiera israeliana in cima alla cupola dorata della moschea di Umar: pare che fosse lo stesso ministro della Difesa Moshe Dayan a imporre sia che fosse ammainata, sia che alcuni rabbini desistessero dal suonare il loro corno rituale, lo shofàr, sul Haram esh-Sharif in quel momento occupato, ma che andava riconsegnato alle autorità musulmane del waqf, la fondazione fiduciaria musulmana che legittimamente amministra le proprietà fondiarie e immobiliari della comunità con scopi caritatevoli o di servizio.
Tuttavia quegli eventi, densi di un alto e profondo valore simbolico, erano solo l’avvisaglia di una serie di conseguenze che hanno pesato sull’assetto anche storico-archeologico della città antica: abbandono di molti immobili da parte dei vecchi proprietari arabi, arrivo di nuovi proprietari ebrei, restauri, ristrutturazioni, scavi archeologici volti in modo privilegiato a rinvenire e studiare l’antichità biblica – che, comprensibilmente, interessa a livello primario le autorità e l’opinione pubblica colta ebraica nonché alcuni ambienti religiosi –, il che ovviamente comporta la rimozione degli strati rispetto ad essa più recenti, quindi superiori: non solo e non tanto gli ellenistico-romani, che a loro volta hanno rapporti con l’età biblica, quanto quelli arabi, crociati, mamelucchi, ottomani e anche “coloniali” precedenti il ’67. Se, quanto e in che misura queste scelte e queste attività possano irreversibilmente compromettere il tessuto e il patrimonio archeologico-storico-artistico della città vecchia, è materia di discussioni infinite, come sempre dovunque vi sia questione di scavi in aree urbane e/o densamente popolate. In questo particolare caso, tuttavia, le polemiche non si limitano all’àmbito estetico e scientifico, ma coinvolgono anche la politica e la tensione tra culture e identità differenti, i rispettivi portatori delle quali si sono scontrati anche a livello militare e continuano a doversi confrontare con troppi problemi irrisolti e con un’ostilità reciproca che, per certi versi, negli ultimi anni è addirittura cresciuta.
Questi problemi cominciarono a emergere subito, all’indomani della “guerra dei Sei Giorni”. Un esempio caratteristico di questi problemi fu costituito dalla distruzione del quartiere musulmano sudoccidentale, chiamato “Mughrabi” (“magrebino”: un termine che conferiva il nome anche alla porta meridionale della cinta muraria), per consentire la costruzione della grande piazza prospiciente il “Muro Occidentale”, cioè il tratto di muraglia appartenente al Tempio di Erode ai piedi del quale gli ebrei si riuniscono per pregare. Lo sbancamento del quartiere Mughrabi, comprese alcune moschee e madrase di età saladiniana, cioè della fine del XII secolo – come la scuola detta “Afdiliyeh”, dal nome di al-Malik al-Afdal, uno dei figli del Saladino (più nota come “moschea di Sheikh Eid”, dal nome di un personaggio della comunità magrebina appartenente al XVII secolo, la tomba del quale era mèta di un venerato pellegrinaggio) –, fece molto scalpore e suscitò polemiche anche all’interno degli ambienti più qualificati della comunità scientifica israeliana: un grande studioso israeliano membro eminente dell’Accademia delle Scienze e celebre storico delle crociate, Benjamin Z. Kedar, definì la distruzione di quel quartiere “un crimine archeologico”. Grazie ad alcune foto aeree rintracciate nel 2009 presso il Museo Zeppelin, in Germania, Kedar poté precisare con esattezza l’ubicazione della moschea saladiniana: ma secondo il Western Wall Heritage Foundation, responsabile anche dei lavori di scavo del vicino tunnel adiacente al “Muro occidentale” (un’altra opera archeologica oggetto di polemiche, la quale attraversa in senso nord-sud il sottosuolo della città vecchia attuale lungo le fondamenta del Tempio, sboccando a nord proprio di fronte al convento francescano della Flagellazione e a sud sul piazzale del Muro), lo sbancamento del materiale archeologico precedente l’età biblica si era reso necessario: e tale in effetti era, ma sulla base di scelte che evidentemente privilegiavano tale età sulla base di un presupposto che, pur tenendo conto delle esigenze scientifiche, rimaneva nella sostanza di tipo etnoculturale.
In generale, il problema di Gerusalemme occupa una posizione speciale all’interno dell’assetto de facto determinatosi dopo la guerra del 1967 e ancora in attesa di una soluzione de iure soddisfacente per le parti in causa (stato d’Israele, Authority palestinese, stati arabi cointeressati all’equilibrio dell’area palestinese, comunità internazionale). All’indomani del giugno del ’67, Israele controllava praticamente tutto il territorio corrispondente alla Palestina mandataria del ’18-’48, oltre al Sinai egiziano e al Golan siriano); delle sue nuove conquiste territoriali, tuttavia, la sola regione su cui Israele abbia mai rivendicato la propria sovranità è Gerusalemme orientale. La susseguente risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU tracciò le linee-guida del futuro processo di pace in termini di “ritiro delle forze israeliane” (interpretato da alcuni come ritiro totale, da altri come ritiro parziale) e del contestuale diritto delle parti in causa “a vivere in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute”: senza però che sì specificassero le linee di frontiera né le fasi del reciproco riconoscimento tra loro. Per le Nazioni Unite il territorio cisgiordano (indicato con il termine inglese di West Bank) è occupato militarmente dalle truppe israeliane, il che lo pone sotto la tutela della convenzione di Ginevra del 1949 che Israele è obbligato a rispettare. Tale situazione riguarda anche l’area orientale della città di Gerusalemme. Da parte israeliana vengono contestati sia la definizione di “territorio occupato” per l’area in questione sia, di conseguenza, l’applicabilità ad esso delle norme della convenzione di Ginevra.
La quarta guerra arabo-israeliana, combattuta nell’ottobre del 1973 – appena un anno dopo il terribile episodio del “Settembre Nero”, quando il 5-6- settembre del 1972 undici atleti israeliani che partecipavano alle Olimpiadi di Monaco furono massacrati –, non ebbe ripercussioni dirette sul tessuto urbano e istituzionale di Gerusalemme: ma fino dal 1968 l’organizzazione palestinese di al-Fatah, poi trasformatasi in “Organizzazione per la Liberazione della Palestina” (OLP), aveva avviato un denso programma di attentati terroristici che interessarono, fra l’altro, anche la parte moderna della Città Santa.
Nel 1980 il Parlamento israeliano emanò una “legge fondamentale” che proclamava Gerusalemme “unita ed indivisa” capitale dello stato ebraico d’Israele; la risoluzione 478 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU replicò giudicando tale atto contrario alle leggi internazionali e invitando gli stati membri a non accettare la nuova legge e a spostare le proprie missioni diplomatiche fuori dalla città; dall’’80 all’’84, e poi di nuovo a partire dal 2006, la municipalità di Gerusalemme non ha ospitato alcuna ambasciata straniera. La questione della Città Santa è stata e resta una delle fondamentali cause di difficoltà nel progresso dei rapporti tra Israele e l’Authority palestinese.
Nel novembre 1988, il Consiglio Nazionale Palestinese, riunito ad Algeri, procedeva al formale riconoscimento dello stato d’Israele e proclamava nel contempo la nascita dello stato indipendente di Palestina con capitale Gerusalemme: un’istituzione che il governo israeliano rifiutava di riconoscere, mentre Israele e i territori occupati erano sconvolti dalla rivolta dei palestinesi, l’Intifada. La comunità internazionale, che non rifiutò esplicitamente il riconoscimento del nuovo stato, non procedette nemmeno al suo riconoscimento limitandosi ad ammetterne la partecipazione all’assemblea dell’ONU come “entità osservatrice”: scelta che Israele ha fermamente contestato.
Ai non-ebrei è in generale sfuggito lo sconvolgente significato profondo dell’Intifada sul piano dei simboli. Allo stato e al popolo che hanno adottato come proprio simbolo la “stella” (o, come più propriamente si dovrebbe definirlo, il “sigillo”) di David, gli arabi hanno risposto – in un certo senso rivendicando la fratellanza e la comune origine di arabi e di ebrei – servendosi dell’arma di David, il nudo sasso. È l’essere stato trattato alla luce del pagano prevaricatore Golia la cosa che, prima di ogni altra, Israele ha sentito di non poter tollerare.
Appunto a partire dall’88, la politica dell’amministrazione israeliana a Gerusalemme si irrigidì: e per un motivo o per l’altro molti furono i palestinesi espulsi dalla città vecchia. Si misero in atto con rigore provvedimenti, formalmente amministrativi, che attraverso la revoca dei permessi di residenza ai cittadini arabi miravano a ebraicizzare sempre più la parte araba della città, così da renderne indiscutibile l’annessione allo stato di Israele, e a indurre gradualmente a un inevitabile riconoscimento internazionale della città come capitale d’Israele. L’amministrazione municipale fu accusata di aver messo a punto un meccanismo per il quale bastava sostenere che il centro della vita di una persona si fosse spostato da Gerusalemme per la revoca del permesso di soggiorno.
La situazione era già precipitata l’8 ottobre 1990 quando, in un incidente verificatosi all’interno della “Spianata del Tempio”, vennero uccisi dalla polizia israeliana ventun palestinesi, immediatamente proclamati shuhadà, “martiri”. Ma la stanchezza e il bisogno di pace si facevano evidenti da entrambe le parti.
Il 13 settembre 1993, a Washington, il capo del governo israeliano Yitzak Rabin e quello dell’OLP Yasser Arafat, dopo il reciproco riconoscimento delle rispettive compagini, firmavano insieme una Dichiarazione dei princìpi sull’autonomia dei territori occupati: anche in conseguenza di ciò, due anni più tradi, Rabin fu assassinato da un giovane estremista ebreo. Da allora, i rapporti tra israeliani e i palestinesi si sono progressivamente deteriorati.
La situazione di precarietà e d’insicurezza contribuì a creare negli ultimi Anni Novanta un clima di tensione che rafforzò gli integralismi, allontanando sempre più dai negoziati di pace; e che sfociò nel 2000, dopo la famosa “passeggiata” di Ariel Sharon sul Haram esh-Sharif e la sommossa che ne seguì, che costò 340 morti, in una ripresa virulenta dell’Intifada, che ricevette risposte durissime, come i massicci bombardamenti israeliani sui territori palestinesi e l’assedio nel 2002 della basilica della Natività di Betlemme, nel quale si erano rifugiati alcuni palestinesi, da parte dell’esercito israeliano,
Nella dichiarazione di indipendenza della Palestina, proclamata dall’OLP nel 1988, s’indicava Gerusalemme come capitale del futuro stato palestinese; tale delibera fu confermata dall’ANP con la promulgazione di una vera e propria legge nel 2000 e di nuovo ancora nel 2002. Il governo israeliano replicò che tali delibere equivalevano a una aperta dichiarazione palestinese di non voler né saper né poter trattare una soluzione concordata: a tale posizione, l’ANP a sua volta rispose invitando Israele ad adeguarsi alle delibere dell’ONU. Siamo in altri termini pervenuti a una situazione fino ad oggi senza uscita.
Molte sono tuttavia le proposte, almeno per quel che riguarda una possibile soluzione del problema gerosolimitano, che è senza dubbio parte integrante di quello israelo-palestinese ma che occupa, nel suo generale contesto, un ruolo specifico. L’obiettivo ruolo storico, culturale e spirituale di Gerusalemme da una parte, la proclamazione a capitale eterna e indivisibile (ed esclusiva?) d’Israele dall’altra costituiscono i due poli problematici della questione. I palestinesi immaginerebbero una sola città come capitale per due distinti stati e come sede per due governi (viene al riguardo spesso citato come modello il caso di Roma e della Città del Vaticano secondo gli accordi del 1929), restando peraltro flessibili per quel che concerne la spartizione delle rispettive aree urbane. Diversa la posizione della Santa Sede, orientata invece verso una sorta d’internazionalizzazione dell’area storica intramuraria comprendente i Luoghi Santi cristiani e musulmani. Tale proposta si scontra tuttavia con la problematica relativa al Haram esh-Sharif, la proprietà del quale permane a tutt’oggi al waqf musulmano, ma l’area corrispondente al quale non può non interessare profondamente il mondo ebraico in quanto coincide con quella dell’antico Tempio. Fino ad oggi, l’atteggiamento del governo israeliano è rimasto tuttavia intransigente al riguardo. La ricerca di una soluzione che tenga conto dei diritti e delle esigenze di tutte le parti in causa e le armonizzi per quanto possibile al meglio, appare ardua ma necessaria: perché quel che accade a Gerusalemme, secondo l’antica regola storica, interessa tutto il mondo.

Verso il futuro
La “passeggiata” di Ariel Sharon nel recinto del Haram esh-Sharif, il 28 settembre del 2000, mise in crisi il governo Barak e insieme ad esso le trattative di pace che sembravano essere arrivate quasi al loro scopo e che stavano procedendo con una speditezza mai verificatasi prima: solo a qualche ingenuo essa poté, sul momento, apparire come un’irresponsabile bravata, una provocazione fanatica. Era, senza dubbio, una mossa pericolosa: ma a rischio rigorosamente calcolato. Era una scelta audace e spregiudicata, ma intelligente: com’è provato dal dato di fatto che raggiunse lo scopo che il suo protagonista si prefiggeva, la distruzione del processo di pace israeliano-palestinese così come fino a quel momento era stato impostato e portato avanti.
D’altra parte, le linee politiche e le “forze in presenza” erano molto meno chiare. A un osservatore occidentale non-ebreo sembrerebbe evidente che Arafat fosse stretto tra l’incudine del governo israeliano di Sharon, che unilateralmente dichiarava di ritenerlo personalmente e direttamente responsabile di qualunque atto di violenza terroristico, e il martello dell’estremismo palestinese che gli era avverso com’è ormai esplicitamente avverso alle trattative e che colpiva appunto anche per dimostrare di non dipendere in alcun modo dai suoi richiami alla moderazione e di non eseguire per nulla le sue direttive (cosa questa che peraltro Arafat stesso non avrebbe mai potuto ammettere senza perdere del tutto il diritto a rappresentare quel che si ostinava a rappresentare). Eppure, gli osservatori occidentali non-ebrei furono colpiti dalla semiunanimità con la quale l’opinione pubblica israeliana ed ebrea affermava quasi coralmente, con pochissime eccezioni, di essere convinta che Arafat controllasse perfettamente i palestinesi e che fosse pertanto il mandante delle azioni terroristiche. Una semiunanimità che, appunto, impressionava nella misura in cui nei mondi tanto israeliano quanto ebraico della diaspora si agitavano tesi politiche per il resto tutt’altro che concordi tra loro. E conosciamo la natura e l’entità di questi problemi, dei quali peraltro qui non trattiamo in quanto non riguardano direttamente e strettamente la città di Gerusalemme. Essi sono principalmente: il riconoscimento d’Israele da parte dei paesi arabi; il rapporto fra israeliani ebrei e israeliani arabi (musulmani e cristiani che siano) nell’àmbito dello stato d’Israele; l’esito della diaspora palestinese dal ’48 in poi che ha interessato vari paesi, a cominciare da Giordania e Libano, in termini di reintegrazione territoriale o di risarcimento economico; il problema dei confini tra Israele e il territorio del futuro libero stato palestinese, vale a dire la cosiddetta “Linea Verde”; quello degli insediamenti dei coloni israeliani in territorio palestinese; quello della continuità territoriale del territorio assegnato ai palestinesi, oggi distribuiti fra l’area giudeo-samaritana del west bank e quella della “striscia di Gaza” (il che include il rapporto tra ANP e Hamas).
Il futuro, la pace, la sicurezza di Gerusalemme dipendono profondamente dalla dinamica di tutti questi problemi, che vanno al di là della sua estensione territoriale e dei suoi problemi urbanistici e istituzionali, ma non della sua sostanza storica e anche metastorica, del suo significato e del suo “mito”.
Pessimo consigliere, il cinismo politico. Ma, talvolta, consigliere purtroppo saggio e avveduto. Una visione disincantata del problema di Gerusalemme ci porta difatti ancor oggi a considerarlo un vicolo cieco finché in Israele prevarranno i “falchi” appoggiati dall’apporto dei coloni e sostenuti dalle lobbies ebraiche americane che in molti modi influenzano e condizionano i governi occidentali, a cominciare da quello statunitense; e finché i palestinesi non abbandoneranno qualunque forma di doppiezza e di ambiguità nel gestire il loro rapporto con Israele stessa. Che le risoluzioni dell’ONU siano applicate con tanto sollecito rigore in molti casi (pensiamo al martoriato Iraq), ma restino regolarmente lettera morta nei confronti d’Israele, è un fatto obiettivo che la dice molto lunga. Così com’è evidente che il mondo arabo non è nel suo complesso per nulla disposto a muoversi se non diplomaticamente, e in modo molto poco efficace, in appoggio alla causa palestinese: e ciò non solo per le sue divisioni interne, ma anche per il peso che al suo interno ha il paese più ricco di tale mondo, ch’è anche il più sicuro e costante alleato degli Stati Uniti e dell’Occidente. L’Arabia Saudita. In queste condizioni, l’ultima parola spetta alla forza delle armi e a quella degli appoggi politico-diplomatici: ed entrambe inclinano con decisione nel senso voluto dai sostenitori della linea avviata da Sharon, per quanto ci sia da chiedersi se e con quanta abilità continuata da chi gli è succeduto. Oggi, molti potrebbero esser tentati ad accettare l’ipotesi che la crisi israeliano-palestinese si prolunghi indefinitivamente, ma appare comunque fuori discussione che il governo d’Israele – e buona parte dell’opinione pubblica israeliana insieme con esso – possa cedere anche di un solo pollice su Gerusalemme e sulla sua esclusiva appartenenza di fatto a Israele. Sugli infiniti progetti di composizione e di spartizione ha finora sempre prevalso il fatto compiuto, che col tempo genera un diritto acquisito. Ed è prevedibile che, per i palestinesi, lo smacco sia il colpo di grazia inferto a una situazione già logora: e che il non essere riuscita neppure a ottenere un quartiere periferico di al-Quds condurrà l’Authority al fallimento e all’autoscioglimento o all’inazione. Già oggi sono molti i palestinesi dei territori soggetti alla cosiddetta amministrazione autonoma che si dicono stanchi d’un “governo” autoritario, pomposo, corrotto e inconcludente e che danno segni di preferire di andarsene altrove – in altri paesi arabi, in Europa, in America – oppure di divenire se possibile cittadini arabo-israeliani, quindi israeliani di serie B, privi della pienezza dei diritti civili ma sereni, efficientemente governati, decentemente e puntualmente retribuiti come lavoratori. In altri termini, molti sono oggi i palestinesi che auspicherebbero che i “territori occupati” venissero definitivamente annessi a Israele, com’è accaduto per l’area urbana di Gerusalemme. Ma a frenare gli israeliani sulla strada di questa soluzione, a parte la preoccupazione per le reazioni internazionali (che probabilmente sarebbero, com’è già accaduto, solo deboli e formali), c’è l’incognita della “bomba” demografica palestinese, che a livello statistico sarebbe tale da rovesciare in breve giro d’anni il rapporto interno tra ebrei e arabi in Israele. Calcolo peraltro teorico, che non tiene conto della legge storica secondo al quale incremento demografico e incremento socioeconomico sono inversamente proporzionali: la crescita numerica dei palestinesi sarebbe fermata, o molto rallentata, da un semplice miglioramento dei generi e del tenore di vita.
Anche questo è un esito di quel drammatico unicum costituito, nella storia del mondo contemporaneo e forse dell’intera civiltà umana, dal problema morale della shoah e dal fatto ch’essa sia uno dei fondamenti su cui si reggono i presupposti storico-etici del nostro Occidente. Nulla nel mondo è stato più lo stesso di prima, dall’indomani di Auschwitz. L’immenso orrore e l’inumana ingiustizia che in Auschwitz si riassumono hanno provocato un’onda lunga che ha di fatto travolto e che travolge anche i diritti dei palestinesi, che possono aver fatto i loro errori, aver commesso i loro delitti e avere le loro colpe, ma che della radice storica del loro esilio in patria non hanno responsabilità alcuna. E non c’è negoziato, non c’è diplomazia, non c’è ONU che tenga.
Solo due fattori potranno modificare questa brutale realtà di fatto e rimettere in gioco possibili esiti diversi del problema di Gerusalemme. Da una parte, l’infinita e illimitata apertura all’imponderabile nella storia, al fatto inatteso che scompiglia le carte e che rende possibile e magari perentorio quel fino ad allora è sembrato ragionevolmente impossibile. Dall’altra, il prevalere non tanto nel mondo ebraico della diaspora – dove esso sembra meno probabile – quanto nella società civile israeliana d’un vento nuovo, d’una rinnovata stagione di tolleranza, di collaborazione, di comprensione, di rispetto per i diritti altrui. Di un nuovo prevalere degli uomini e delle donne di buona volontà, di coloro che a suo tempo hanno sostenuto Rabin e Barak. La chiave delle porte di Gerusalemme, e d’una pace giusta e duratura, sta nelle loro mani. Che però, adesso, sembrano troppo deboli per poterla usare.
Si torna intanto con insistenza, in Israele e altrove, a parlare del “muro” che dovrebbe definitivamente (e in modo irreversibile?) separare gli israeliani dai palestinesi insediati nei “territori occupati”. Dal momento che su questi temi la confusione è massima e ne consegue sempre una grande difficoltà nel seguire il vorticoso succedersi degli avvenimenti politici e militari, riassumiamo la situazione.
Per “territori occupati” s’intendono due zone precise. Prima: una vasta area corrispondente alla regione storica della Samaria, ma che interessa anche la Galilea a nord e la Giudea a sud e che comprende anche la “città vecchia” di Gerusalemme nonché le due città-santuario di Betlemme e di Hebron nonché Gerico; in essa vivono oltre un milione di arabi nonché qualcosa di più di centomila ebrei, per la maggior parte raccolti negli insediamenti dei “coloni”, alcuni dei quali recenti. Secondo: la striscia di Gaza, a sud-ovest d’Israele, con le città di Gaza e di Rafan e con una popolazione di settecentomila arabi e di un migliaio di ebrei. Entrambi questi territori vennero occupati durante la guerra del 1967: gli israeliani li strapparono, rispettivamente, alla Giordania e all’Egitto, quando occuparono anche le alture siriane del Golan, a nord-est del Lago di Tiberiade.
A parte Gerusalemme, che Israele ha annesso al proprio territorio metropolitano e proclamato sua “capitale eterna”, per il resto gli israeliani, almeno teoricamente, sono disponibili a recedere dall’occupazione dei territori, secondo quanto è stato loro imposto dalla risoluzione dell’ONU n.242 del 22 novembre 1967. L’appoggio statunitense ha tuttavia consentito finora a Israele di rinviare sine die lo sgombero dai “territori occupati” e di consentire che in quelle aree s’insediassero come “coloni” ebrei giunti da poco soprattutto dall’Europa orientale. Gli insediamenti dei coloni nei “territori” sono collegati tra loro e al territorio metropolitano d’Israele da una rete di strade sulle quali è consentita la circolazione ai soli israeliani d’origine araba (con esclusione pertanto non solo del circa un milione di arabo-palestinesi che sono cittadini israeliani, anche se non godono della totalità dei diritti civili. Dei quasi due milioni di arabo-palestinesi che vivono attualmente nei territori occupati, oltre la metà è costituita da persone (uomini, donne, bambini) che si erano allontanati o erano stati cacciati dalle loro terre in seguito al costituirsi dello stato d’Israele e dai loro discendenti; altri palestinesi hanno scelto di abbandonare definitivamente il loro paese e di trasferirsi altrove (quasi la metà tra Giordania, Siria, Libano e altri paesi arabi). La questione dei beni immobili che questi sventurati hanno dovuto abbandonare in Israele è oggetto di un contenzioso ulteriore all’interno di questo spaventoso ginepraio.
Oggi, la maggioranza degli israeliani – che nel maggio del 1999 aveva scelto a schiacciante maggioranza il leader laburista Barak e la sua politica distensiva – sembra schierata compatta dietro il presidente Netanyahu, fautore com’è noto d’una decisa “linea dura” e sostenitore di una tesi secondo la quale la sicurezza degli israeliani può essere assicurata solo con l’uso sistematico della forza militare a tutela dei cittadini e come risposta (repressiva e punitiva ma al tempo stesso preventiva e dissuasiva) rispetto agli attentati. Un “teorema” che sembra fatto apposta per rendere ingestibile la situazione. In realtà, va da sé che la prospettiva degli estremisti islamici è folle e inattuabile. Gli USA e l’Occidente non abbandoneranno mai Israele e la stragrande maggioranza dei governanti del mondo islamico si schiererà in un modo o nell’altro al loro fianco, anche se il prezzo di tutto ciò sarà un ulteriore dilagare della peste terroristica. Ma quel che interessa i nemici israeliani della ricerca di una soluzione equilibrata è interrompere il processo di sviluppo di uno stato libero palestinese: dividere i palestinesi e trattare localmente con i nuovi, debolissimi leaders che usciranno da questa divisione. Tutti sanno bene che il terrorismo non si vince con i carri armati, bensì con l’intelligence, la collaborazione israeliano-palestinese e la soluzione dei problemi. Fra essi, però, ci sarebbero spinose questioni: come un definitivo freno da opporre all’arroganza e alla violenza dei “coloni”: chi non vuole farlo in realtà vuole né la pace, né l’indipendenza palestinese, né un accordo che sulla base d’un equo riconoscimento dei diritti palestinesi rimetta in moto il processo di pace.
Il piano spregiudicato dei “falchi” ha però un punto debole. Prima Sharon, poi Netanyahu sono ascesi al potere promettendo che una politica di alcuni mesi di “pugno duro” avrebbe garantito la sicurezza a Israele. In questo hanno fallito: la loro politica ha ottenuto l’effetto contrario. Il “muro” che dovrebbe separare definitivamente israeliani da palestinesi e che ha avuto l’effetto di trasformare i “territori” (che sono già disseminati di campi-profughi nei quali la vita è intollerabile) in grandi Lager ha d’altro canto raggiunto l’obiettivo di fermare gli attentati suicidi, ch’erano un tremendo incubo per gli abitanti di Gerusalemme. Rimetterlo in discussione, significherebbe riaprire una fase di rinnovata insicurezza: quale politico israeliano potrebbe avere un coraggio del genere?
A questo punto l’unica soluzione è un franco e leale rilancio della politica israeliano-palestinese di pace: forti sono i settori dell’opinione pubblica israeliana che ormai lo reclamano; ma per questo c’è bisogno di molto coraggio, perché, perché è proprio questo che gli estremisti dei due campi vogliono impedire. La sola via d’uscita sarebbe il rispondere ai futuri attentati con un fermo impegno comune a perseguire, punire e isolare i veri responsabili anziché a impiegare indiscriminatamente una forza che, con azioni terroristiche o con risposte di rappresaglia, finiscono sempre e comunque con il colpire gli innocenti. I primi passi sarebbero durissimi: gli estremisti reclamano sempre l’uso della forza appunto perché sanno ch’essa impedisce l’avvìo di quella pace ch’essi non vogliono. Ma israeliani e palestinesi sono stanchi di violenza: e l’unico modo di battere il terrorismo è tagliarne i suoi legami con la popolazione, convincere la gente che i nemici della pace non vanno aiutati.
Il punto è capire se davvero, intenzioni a parte, le due compagini israeliana e palestinese sono in grado di risolvere da sole un problema che a questo punto coinvolge tutto il mondo. Il conflitto israelo-palestinese sta mettendo ormai da oltre mezzo secolo in pericolo la pace mondiale e viene assunto a pretesto da troppe forse estremistiche palesi od occulte. Lo stesso fatto che troppe volte gli Stati Uniti d’America siano intervenuti unilateralmente a sostenere scelte discutibili o internazionalmente illegittime di alcuni governi israeliani, e che d’altra parte su troppi stati membri dell’ONU gravi il sospetto, non sempre lieve né generico, di sostenere direttamente o indirettamente il terrorismo palestinese, non può non generare apprensione.
Ma le scelte dei leaders non necessariamente corrispondono sul serio agli umori della gente. Nell’aprile del 2010 il Premio Nobel Elie Wiesel, dall’America, sciolse un inno entusiasta e commosso all’ebraicità di Gerusalemme, nel quale giungeva a difendere la politica governativa degli insediamenti. Gli risposero un centinaio di studiosi e intellettuali, tutti ebrei israeliani, accusandolo di vivere nella “Gerusalemme celeste” mentre loro, risiedendo in quella “terrena”, vedevano lo scempio ambientale, l’ingiustizia e l’insicurezza che quella politica stava provocando.
Gerusalemme resta uno scandalo e un enigma. Quel che vi succede, da sempre, finisce con l’essere ancora più importante di quel ch’è accaduto ad Atene o a Roma, per non parlare di Washington o di Pechino. È una verità difficile da capire e più ancora da accettare. Ma impossibile da negare.

E adesso?
Sono ancora in molti – anche se ormai sempre meno – a sperare che la crisi israeliano-palestinese si possa risolvere prima o poi, quando vi saranno le condizioni necessarie a far sì che tra stato ebraico d’Israele e territori internazionalmente ritenuti come pertinenti a una Authority palestinese che l’ONU riconosce solo come entità “osservatrice” alla sua assemblea si stabilisca un’intesa necessaria a una convivenza sulla base di confini ben determinati e sicuri e del principio “due popoli – due stati”. Tale soluzione, semplicissima sulla carta e internazionalmente auspicata, appare ancora lontana in quanto per tradurla in pratica il governo d’Israele sostiene che sarebbe necessaria al sicurezza della definitiva cessazione di ogni sorta di attentato o di ostilità da parte palestinese: garanzia che non può essere assicurata da nessuna delle due concorrenti leadership che si contendono i territori palestinesi che la comunità internazionale definisce “occupati” (ma Israele, che li ha cinti di un muro e di altre installazioni di controllo, si rifiuta di definirsi “occupante”: il che le consente di non assumerne le relative responsabilità), vale a dire la OLP (quel che resta del vecchio partito di Arafat) che gestisce la Cisgiordania con le città di Betlemme ed è composta di musulmani e di cristiani, Gerico e Ramallah, e il partito Hamas che è esclusivamente musulmano-sunnita (ma appoggiato dagli Hezbollah libanesi, sciiti) e che controlla la “striscia di Gaza”. Inoltre l’attuale governo israeliano insiste affinché le trattative suscettibili di condurre alla soluzione “due popoli-due stati” vengano portate avanti esclusivamente dai rappresentanti ufficiali sia degli israeliani, sia dei palestinesi, trascurando però l’importante particolare che i due soggetti da chiamare in causa non hanno affatto struttura omogenea e confrontabile, poiché da una parte esiste un governo ufficiale, internazionalmente riconosciuto e alla guida di uno stato che è ormai una potenza diplomatica, industriale e nucleare di portata si può dire internazionale, mentre dall’altra parte c’è solo un’entità labile, dagli scarsi e fragili poteri, divisa in due gruppi discordi fra loro e non dotata di piena legittimità internazionale.
Questo il quadro odierno, al quale è da aggiungere – qui arrotondo le cifre – che lo stato ebraico d’Israele governa 7 milioni circa di cittadini (dei quali 6 ebrei e 1 tra cristiani e musulmani), mentre l’Authority palestinese rappresenta 2 milioni di arabi musulmani e cristiani in Cisgiordania e 1 milione nelle “striscia di Gaza”. Il territorio che dovrebbe andar a far parte del futuro stato palestinese, intanto, non esiste in pratica più: i numerosissimi insediamenti di sempre nuovi coloni ebrei, insediati per unilaterale volontà del governo israeliano, hanno in pratica dissolto e fagocitato quasi per intero quella che teoricamente dovrebb’essere l’area appartenente a uno stato del quale c’è appena un confuso e contraddittorio embrione. Quanto a qualche decina di migliaia di arabi gerosolimitani che dopo la conquista di tutta l’area urbana di Gerusalemme da parte delle truppe italiane non hanno voluto lasciare le loro case, rifiutandosi di emigrare in terra palestinese, il governo israeliano riconosce loro al qualifica di “residenti in Gerusalemme”: praticamente non hanno alcun diritto di cittadinanza, non hanno alcun passaporto, sono stranieri ospiti di un paese – Israele appunto – che ha occupato una parte di Gerusalemme la sovranità sulla quale le viene contestata dalla comunità delle Nazioni Unite (l’ONU), al quale con la risoluzione 242 ancora vigente ingiunge allo stato d’Israele di rientrare nei confini anteriori alla guerra del giugno 1967, cioè di continuar a detenere legittimamente l’area ovest della Città Santa ma di abbandonare quella est. In pratica, gli arabi di Gerusalemme non sono nemmeno “palestinesi”, nel senso che non rispondono all’Authority: sono ostaggi di un governo che, sul piano internazionale, non ha diritto di governare la porzione di città ch’essi abitano.
Ancora peggiore la situazione del milione di arabi (musulmani nella maggior parte, con alcuni cristiani che Hamas non ha mai visto troppo di buon occhio) letteralmente ammassata nella “striscia di Gaza”, la quale dovrebbe andar a costituire parte integrante del futuro stato palestinese ma che non ha alcuna soluzione di continuità territoriale con esso: circondata dal territorio israeliano a parte uno stretto e labile confine con l’Egitto che il governo di al-Sisi sempre meno sopporta, non vede al suo interno – qui il governo israeliano ha perfettamente ragione – neppure un soldato israeliano; mentre lo stesso non si può dire della Cisgiordania nella quale il “muro” israeliano è irto di casematte, posti di guardia e presìdi mobili che hanno libertà di sconfinamento, anche vista la presenza dei coloni. Ma il fatto è che le forze israeliane controllano Gaza e dintorni: non solo l’assediano con il loro potente ed efficiente armamento, ma gestiscono le sue forniture di acqua, luce elettrica, gas.
Ecco il quadro del mondo israeliano-palestinese: che Donald Trump ha di recente aggravato con una dichiarazione che contraddice l’intera politica statunitense dell’ultimo mezzo secolo. Difatti la risoluzione 242 dell’ONU, che impone a Israele di rientrare nei confini anteriori al 1967 (quindi anche di sgombrare la metà est di Gerusalemme, l’area nella quale è compresa fra l’altro la città storica, con tutti i santuari delle tre fedi abramitiche), è come tutte le risoluzioni di quell’Assemblea votata a maggioranza e quindi perfettamente legittima: la sua esecuzione (che potrebbe comportare anche l’uso, in extremis, della forza militare) è subordinata al diritto di veto delle cinque potenze (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) membri permanenti del “consiglio di sicurezza” al vertice dell’ONU stessa). Ebbene, gli USA, nel momento stesso nel quale hanno riconosciuto la piena validità della 242, ne hanno sospeso a tempo indeterminato l’esecuzione opponendo ad essa il suo veto. Ma il discorso di Trump dinanzi alla Knesset, che riconosce al contrario il pieno diritto a considerare Gerusalemme – com’essa ha dichiarato esplicitamente – “eterna e indivisibile capitale d’Israele”, contraddice cinque decenni di vita e di attività non solo delle Nazioni Unite, ma anche della diplomazia statunitense: e dà piena e totale ragione al governo israeliano.
Ciò apre in teoria una nuova fase di stallo: ora, il mondo intero è stato chiamato a prender posizione sulla scelta del presidente Trump. Ma, dal momento che pochissimi sono gli stati che l’hanno appoggiata, tutto resterà come prima: l’ambasciata statunitense e quella di pochissimi stati abbandoneranno Tel Aviv per trasferirsi a Gerusalemme, ma nulla cambierà: i territori palestinesi continueranno a languire salvo qualche sempre più debole sussulto di resistenza che i media occidentali attribuiranno magari al “terrorismo islamista” o “all’estremismo jihadista”, i coloni ebrei continueranno a sbocconcellare altri pezzetti del territorio teoricamente palestinese, a Gaza si continuerà a morire e chi può farà di tutto per andarsene.
Come si esce da questa situazione? Solo obbligando stato d’Israele e Authority palestinese a riprendere sul serio le trattative per giungere alla soluzione “due popoli – due stati”: ma Israele non ha alcuna intenzione di arrivarci e si limita ad aspettare che i palestinesi accettino di vivere sine die divisi in due tronconi della Cisgiordania e di Gaza, sotto i due rivali ed egualmente impotenti governi dell’OLP e di Hamas; mentre ormai l’unica vera speranza dei palestinesi stessi sarebbe quella di diventare cittadini (sia pure “di serie B”) dello stato ebraico per pura annessione dei loro territori a Israele (ma a ciò gli israeliani sono indisponibili perché sarebbe un suicidio: “caricarsi” di 3 milioni di arabi musulmani e cristiani (che per la verità ormai sono arrivati a 4 e sono in via di aumentare) significherebbe per loro vivere in uno stato di 10-11 milioni di persone di cui 6 milioni ebrei e a bassissimo tasso d’incremento demografico e 4-5 arabi a un tasso viceversa altissimo), oppure quella di emigrare, cosa che tutti quelli che possono fare fanno.
Poiché la comunità internazionale non può obbligare Israele a risolvere un problema che ad esso non interessa se non nella misura in cui costituisce un marginale e transitorio fastidio, potremmo forse intanto concentrarci – lasciando in sospeso la questione israelo-palestinese – almeno su quella di Gerusalemme. L’idea di “internazionalizzare” l’area dei “Luoghi Santi” lasciando per il resto la piena e totale sovranità della Città Santa potrebb’essere praticabile: l’ha proposta il Vaticano, richiamando proprio l’attenzione sul modello del 1929 che dette origine al suo stato. Ma i partiti estremisti religiosi che sostengono Netanyahu non vogliono sentirne parlare: nemmeno un metro di Gerusalemme va ceduto ai goim. Usare la forza sarebbe improponibile: bastò una sola risoluzione dell’ONU, nel 2003, per armare contro l’Iraq una coalizione guidata dagli USA; ma cento risoluzioni non sarebbero in grado di produrre analogo risultato contro Israele, sia per ragioni legate al clima che negli ultimi decenni si è andato creando attorno a tutto ciò che riguarda il mondo ebraico, sia perché governo e forze armate d’Israele non hanno mai fatto mistero di esser disposti, in caso di bisogno, a rispondere con i mezzi anche più estremi, e sappiamo bene che hanno sia gli strumenti tecnici sia la lucida determinazione necessari a farlo.
E allora? Lo diceva bene mastro William Shakespeare: A much Ado about nothing, cari miei. “Molto rumor per nulla”. A Gaza si continuerà a morire, le periodiche sassaiole e magari qualche bomba continueranno a turbare ancora per qualche anno Gerusalemme, si tenterà qualche sempre più debole e più malintesa Intifada e l’opinione pubblica mondiale, passato lo scalpore ogni volta più breve e più debole e passate le solite polemiche nelle quali a torto o a ragione entra sempre la Shoah, continuerà a disinteressarsi alla questione.
Ma allora chi può risolverla? Ecco il punto: ed è di un’irrisolvibile semplicità. Qual è l’unica forza al mondo che può obbligare il governo israeliano ad aprire, lealmente e liberamente, una trattativa con le disperse forze palestinesi chiedendo al tempo stesso l’appoggio della comunità mondiale? Chi è in grado di compiere questo miracolo?
Non i capi di stato del mondo, non l’ONU, tanto meno il presidente degli Stati Uniti e neanche il papa. Non i leaders musulmani, divisi tra loro e restii a proporre soluzioni accettabili. Non i paesi arabi, perduti dietro alla loro fitna, la “guerra civile” tra sunniti e sciiti, e che dei palestinesi hanno abbondantemente mostrato di fregarsi. Non gli ambienti di punta del mondo ebraico della “diaspora”, egemonizzata dal sionismo più estremista e refrattario alle ragioni altrui.
Solo il popolo d’Israele: solo questi 7 milioni di persone che da settant’anni lavorano e combattono, e con ciò si sono conquistati il pieno diritto a una loro patria che faccia parte della comunità internazionale; ma che negli ultimi anni hanno riversato le loro simpatìe sui movimenti di destra in quanto sono preoccupate e in parte addirittura spaventate per il terrorismo e forse anche disorientate da tendenziose campagne mediatiche; ma che dal canto loro vorrebbero a loro volta solo pace e sicurezza.
L’opinione pubblica israeliana, fra l’altro, esprime anche molti cittadini coscienti e coraggiosi, come i movimenti pacifisti quali Peace Now i quali da anni si battono con coraggio, sfidando anche la prigione, per un domani che veda israeliani e palestinesi, ebrei e arabi tanto musulmani quanto cristiani, convivere e lavorare concordemente in una terra ch’è loro, sia o meno distinta in due stati. Solo i cittadini israeliani, scegliendo liberamente domani un governo più sensibile e meno disposto a cavalcare l’odio e la paura, potranno risolvere il problema israeliano-palestinese. La parte di loro che ormai si è risvegliata a questa verità, e che combatte ogni giorno per essa, è ancora minoritaria e i nostri media quasi la ignorano: eppure l’unico possibile domani di pace, per la loro terra e forse per tutto il mondo, riposa sulle loro ginocchia.

Da allora, molta strada si è fatta. Come vedete.