Domenica 23 maggio 2021, Domenica di Pentecoste
DUE VOCI SU ISRAELE E PALESTINA
Proponiamo di seguito due articoli pubblicati online, in questi giorni, sulla rivista “il Mulino”.
MARINA CALCULLI
LA VILTÀ LIBERALE E IL PARADOSSO DI ISRAELE
Su un contesto normativo internazionale dovremmo fondare il giudizio morale collettivo sul comportamento degli Stati, soprattutto quando utilizzano la violenza: lo Stato di Israele non dovrebbe costituire una eccezione.
Spesso Israele e i suoi (molti) sostenitori internazionali si lamentano del fatto che la discussione sulla violenza israeliana abbia un’eccezionale rilevanza in seno alle Nazioni unite e in altri fora multilaterali. Ma quello che rappresenta davvero un’eccezione nella società internazionale contemporanea è piuttosto la neutralizzazione e la criminalizzazione sistematica di ogni tentativo di richiamare il governo di Israele alle sue responsabilità giuridiche internazionali. In altri termini, a essere eccezionali non sono tanto i crimini di Israele, che hanno purtroppo paralleli nel passato e nel presente, quanto la capacità di Israele di commettere crimini con un’esclusiva garanzia di impunità. La certezza del veto statunitense al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite su qualsiasi risoluzione critica verso Israele è solo la punta dell’iceberg di una delle più complesse forme di ipocrisia del cosiddetto “ordine liberale internazionale”.
Si pensi soltanto al susseguirsi degli eventi che negli ultimi giorni hanno riportato Israele e Palestina al centro dell’attenzione globale. Il racconto della stampa liberale si è concentrato sulla presunta “riapertura del conflitto israeliano-palestinese” i cui imputati principali sono i razzi di Hamas lanciati da Gaza. L’amministrazione Biden, in linea con una lunga tradizione statunitense, è corsa a sostenere il “diritto di Israele di difendersi”. Ma ci sono un problema fattuale e un problema giuridico in questa narrazione.
A voler guardare i fatti con onestà intellettuale, non c’è alcuna “riapertura del conflitto”, né alcuna “nuova” violenza. I razzi di Hamas, sono semmai una sporadica risposta alla sistematica, quotidiana violenza dell’occupazione coloniale israeliana della Palestina. Compresa quella avvenuta negli ultimi giorni nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme e alla Spianata delle Moschee, dove l’esercito israeliano ha fatto irruzione all’interno della moschea Al Aqsa sparando proiettili di gomma e picchiando i fedeli durante la preghiera.
La centralità del “conflitto tra Israele e Hamas” nella narrazione dalla stampa liberale ha l’obiettivo di elidere la violenza dell’esercito israeliano sui civili a Gerusalemme, oltre che l’ennesimo bombardamento su Gaza, dal contesto storico in cui questi eventi si collocano. In sostanza, la centralità del “conflitto tra Israele e Hamas” nella narrazione dalla stampa mainstream ha l’obiettivo di elidere la violenza dell’esercito israeliano sui civili a Gerusalemme, oltre che l’ennesimo bombardamento su Gaza, dal contesto storico in cui questi eventi si collocano: quello della colonizzazione israeliana della Palestina che ha come obiettivo ultimo la sostituzione etnica del popolo palestinese con il popolo ebraico, eliminando fisicamente ed espellendo i palestinesi dalla loro terra. Questo progetto ha raggiunto soltanto un nuovo picco con l’ordine di “sfratto” (di fatto un’espulsione forzata) che la Corte suprema israeliana ha dato a sei famiglie palestinesi residenti a Sheikh Jarrah (Gerusalemme Est) all’inizio di maggio 2021 – descritto da diversi ministri israeliani come il risultato di una “disputa sulla proprietà privata”. Il tentativo di mascherare un progetto etno-nazionalista con una patina liberaleggiante (evocando la sacralità della “proprietà privata”) è tuttavia debole: la legge in questione dà diritto agli ebrei di reclamare proprietà possedute prima del 1948, ma non accorda lo stesso diritto ai palestinesi. Anche perché, se così fosse, alla luce delle confische delle proprietà palestinesi dal 1948 a oggi, ai palestinesi dovrebbe essere restituita buona parte del territorio che pure la comunità internazionale riconosce come loro, ma che è sotto occupazione militare israeliana da decenni. Questa legge rappresenta inoltre solo uno dei tanti tasselli dell’ordinamento giuridico israeliano che di fatto già rendono Israele uno Stato dell’apartheid, come Human Rights Watch ha documentato nel 2021.
C’è poi un problema giuridico relativo alle modalità attraverso cui si traduce puntualmente il presunto esercizio di Israele alla “difesa” del suo territorio. I bombardamenti su Gaza hanno provocato in tre giorni già 113 vittime civili, tra cui molti bambini – un bilancio destinato a salire – mentre secondo alcune fonti Israele sarebbe in procinto di lanciare un’offensiva di terra, mantenendo il confine bloccato per gli abitanti di Gaza: questo non è solo un massacro annunciato, ma un crimine di guerra. Ancora una volta negli ultimi giorni, Israele ha colpito palazzine e aree residenziali a Gaza, affermando esplicitamente di volerne colpire e abbattere ancora. La deliberata vittimizzazione dei civili è un’aberrazione per il diritto umanitario internazionale. Eppure Israele ha il lusso di annunciare i suoi crimini persino prima di commetterli. Nessuna condanna dei bombardamenti su Gaza è giunta finora da alcun governo occidentale, dando de facto a Israele esplicita legittimazione a continuare ad agire impunemente.
La restituzione del contesto normativo internazionale è importante perché è su di essa che dovremmo fondare il giudizio morale collettivo sul comportamento degli Stati, soprattutto quando utilizzano la violenza. È in questo contesto che si collocano i canti israeliani di “morte agli arabi” che, sebbene non nuovi, hanno raggiunto una portata senza precedenti nelle ultime settimane. Così come le ronde condotte dagli israeliani per fare irruzione violenta nelle case dei palestinesi, o marchiare le case dei palestinesi in modo da identificare e colpire più facilmente i suoi abitanti. Tutto ciò ricorda quei traumi storici che proprio il cosiddetto “ordine liberale internazionale”, creato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si è proposto di arginare per sempre dall’orizzonte dell’umanità.
La restituzione del contesto normativo internazionale è importante, perché è su di essa che dovremmo fondare il giudizio morale collettivo sul comportamento degli Stati, soprattutto quando utilizzano la violenza. Questo vale soprattutto per i sostenitori di un ordine “governato dalle norme”, che il nuovo presidente americano Biden si è detto deciso a ripristinare e proteggere dopo l’apparente deviazione del mandato di Donald Trump. Come si concilia tutto questo con il sempre più esplicito proposito di sostituzione etnica che è al centro della mentalità dello Stato di Israele? In nessun modo, se non attraverso la sua sanitizzazione e il suo oscuramento.
Se nelle sue Note sul nazionalismo nel 1945 George Orwell notava come “il nazionalista non solo non disapprova le atrocità commesse dalla sua parte, ma ha un’incredibile capacità di non venirne neppure a conoscenza”, nella società internazionale post-1945 potremmo dire che l’impunità del progetto etno-nazionalista israeliano si fondi piuttosto sulla capacità del resto del mondo di rifiutare di riconoscerlo come tale, in modo da congelare i dilemmi morali che da esso inevitabilmente derivano. Come Israele possa continuare a essere considerato un pilastro e non un’aberrazione di quest’ordine internazionale rappresenta la più grande impresa di equilibrismo della politica contemporanea.
Il paradosso è che questa narrazione si fonda non tanto sulla convinzione di politici, giornalisti e intellettuali (spesso disposti in privato a condividere e accettare narrazioni più equilibrate), ma piuttosto sulla banalità della viltà liberale, sorretta da un clima di intimidazione istituzionale che tende a mettere a tacere e criminalizzare ogni critica verso Israele come “antisemita”. Così, incastrati nella viltà di non riuscire a chiamare la violenza coloniale di Israele con il suo nome, siamo costretti a criminalizzare le sue vittime.
(Rivista il Mulino, 14 maggio 2021)
SIMON LEVIS SULLAM
UNA TERRA CONDIVISA E CONTESA. E UN’IPOTESI BINAZIONALE PER IL FUTURO
Fin dalla fine degli anni Venti è stato coltivato il progetto di uno Stato binazionale ebraico e arabo: una sorta di tradizione nascosta, che merita di essere valorizzata proprio in questo momento, se non altro per la statura dei suoi proponenti
È difficile riflettere a mente e cuore sgombri sulla situazione in Israele e Palestina, mentre in queste ore risuona il fragore dei missili dai due lati, si contano centinaia di morti e forse non si sono ancora del tutto placati gli episodi di violenza tra ebrei e arabi israeliani in alcune città dello Stato ebraico. La spirale di una guerra sproporzionata e asimmetrica ha ripiombato le diverse parti in causa del conflitto mediorientale in una situazione apparentemente senza via di uscita e di tragico, ripetitivo stallo che risale in questi schemi e forma almeno ai tempi del precedente conflitto tra Israele e Gaza del 2014. E che nuovamente radicalizza, per motivi e con finalità diverse, i due principali contendenti in primo piano: l’Israele di Netanyahu (capo del governo de facto da quasi un decennio) e la Gaza di Hamas, ma anche la West Bank di Mahmud Habbas, con sullo sfondo gli altri decisivi giocatori: dagli Stati Uniti, all’Iran e alla Turchia, ma anche la Russia, la Cina, l’Egitto e i firmatari degli accordi di Abramo, Emirati Arabi e Bahrein, non esclusa l’Arabia Saudita che formalmente non ne fa parte.
Nonostante tutto, vale la pena provare a fermarsi e riflettere – anche in questi giorni drammatici e senza che ciò costituisca una via di fuga dalla realtà o una mancata ferma critica della violenza da entrambi i lati – su quello che i principali contendenti, israeliani e palestinesi, hanno in comune – che è anche ciò che profondamente li divide. E allo stesso tempo riflettere sulle possibili vie di uscita, almeno teoriche e affidate dall’immaginazione politica, a proposte alternative allo scontro frontale, tra quelle che sono state formulate nell’ultimo secolo a proposito di quella regione e dei suoi storici, viscerali conflitti. Non solo per ricordarsi, nel momento in cui ogni possibilità di dialogo e convivenza pare nuovamente impossibile, che queste idee sono state formulate. Ma anche per coltivare la speranza che – quando le armi finalmente taceranno di nuovo – si possa cominciare a ricostruire relazioni e nuove forme di convivenza senza partire solo dalla tragica conta dei morti e senza ricostruire cominciando esclusivamente dalle macerie: sia degli edifici distrutti, sia dei tessuti politici e sociali lacerati tra israeliani e palestinesi, tra ebrei e arabi cittadini israeliani.
Un tema concreto e simbolico drammaticamente condiviso da palestinesi e israeliani, e prima da arabi ed ebrei, è quello della terra: della terra di origine, promessa, contesa e condivisa. Come condivisa – o, almeno, idealmente ed emotivamente condivisibile – è stata ed è l’esperienza che ha preceduto la conquista della, o ha seguito l’espropriazione e il possibile ritorno alla madrepatria: cioè l’esilio. Ma è sulla terra che particolarmente vorrei fermarmi, proprio per rilevare il problema dell’attaccamento simbiotico alla madrepatria, come è stato coltivato ed espresso ad esempio sul piano letterario da palestinesi e israeliani. Penso alle dense pagine del racconto del noto scrittore palestinese Ghassan Kanafani, Uomini sotto il sole (1962, trad. it. Sellerio, 1991) e a quelle oggi non tra le più note dell’israeliano David Grossman, nel suo reportage nei Territori occupati, uscito alla viglia della prima Intifada (Il vento giallo, trad. it. Mondadori, 1988). Durante una visita al campo profughi palestinese di Deheisha non lontano da Betlemme, Grossman riflette su ciò che egli ha in comune con gli abitanti del campo che incontra:
“Io come ebreo li posso capire benissimo. ‘Quando un uomo è esule dalla sua terra’ [ha scritto uno scrittore ebreo americano a un suo collega di Ramallah] comincia a pensare a quella sua terra in forma di concetti simbolici, proprio come fanno quelli che ricorrono alla pornografia. E anche noi ebrei siamo diventati pornografi molto esperti, e la nostra nostalgia per questa terra [Israele/Palestina] è intessuta di simboli fino a non poterne più” (ibidem, pp. 22-23).
In quelle pagine lo scrittore israeliano parallelamente riflette con un altro interlocutore palestinese che incontra nel proprio percorso, il quale gli “confessa che lui stesso era stato, in giovinezza un pornografo dei panorami. Dei panorami di Giaffa e della pianura costiera, di cui aveva sentito raccontare storie e leggende”. Scrive Grossman a proposito dell’avvocato scrittore con cui gli avviene di dialogare:
“Ancora oggi, quando passeggia sulle colline presso Ramallah, gli capita di dimenticare per un attimo se stesso, e in quel momento può godere del contatto con la terra e del profumo del timo, può guardare un ulivo – e allora si rende conto che sta guardando un ulivo, ed ecco che quell’ulivo cambia d’aspetto e diventa un simbolo, il simbolo della lotta, il simbolo della perdita, ‘e in quello stesso momento l’olivo mi è rapito’ [gli dice l’avvocato scrittore], ‘e al suo posto c’è un vuoto in cui confluiscono dolore e ira’”.
Certo, il tema della terra e della sua condivisione non può essere romanticamente idealizzato, dato che proprio lo scontro sulla comune e contesa madrepatria è al centro del conflitto anche oggi, in queste ore drammatiche. E al cuore dello stesso vi è, inoltre, il problema – anch’esso concreto e simbolico e da cui gli avvenimenti del conflitto in corso sono ancora una volta scaturiti – di Gerusalemme, una delle culle delle tre religioni monoteistiche. La città è stata, ricordiamolo, nel corso del XX secolo: ottomana, sotto mandato inglese, divisa tra giordani e israeliani dal 1948, infine sotto sovranità israeliana dal 1967 e, sempre nei secoli, motivo di disputa per la presenza di alcuni dei principali luoghi sacri dell’umanità. C’è da chiedersi oggi – anche di fronte al fatto che Gerusalemme è stata unilateralmente dichiarata capitale dello Stato ebraico da Netanyahu e Trump, del resto senza il riconoscimento di larga parte della comunità internazionale – se in futuro ogni soluzione possibile del conflitto israelo-palestinese e mediorientale non dovrà necessariamente passare, dato il peso dei luoghi e dei simboli che vi si addensano, per una fase di internazionalizzazione della città (non potendo tra l’altro trascurarsi il significato che essa ha anche per il mondo cristiano). Prima, cioè, che Gerusalemme non divenga una capitale condivisa – se mai sarà possibile – da israeliani e palestinesi.
Sulla condivisione e sulle ipotesi o proposte politiche di condivisione vorremmo indugiare qui ulteriormente. Seppure possa apparire ora, mentre infuria nuovamente il conflitto, un’ipotesi puramente teorica, quasi utopistica anche domani e dopodomani e forse in seguito, fin dalla fine degli anni Venti è stato coltivato il progetto di uno Stato binazionale ebraico e arabo: una sorta di tradizione nascosta, che merita di essere valorizzata proprio in questo momento, se non altro per la statura dei suoi teorici e proponenti.
Si trattò del progetto, elaborato inizialmente da un gruppo di intellettuali ebrei per lo più tedeschi, solo alcuni dei quali si trasferirono in seguito in Palestina: tra di essi lo storico della mistica Gershom Scholem, il rabbino Jehuda Magnes, il filosofo Martin Buber, lo storico dei nazionalismi Hans Kohn e – aderendo a questa prospettiva negli anni Quaranta – la filosofa Hannah Arendt. Nel 1926 lo stesso Scholem proponeva di “giungere a una comprensione tra Ebrei e Arabi circa la forma delle reciproche relazioni sociali in Palestina, sulla base di un’assoluta eguaglianza politica di due popoli culturalmente autonomi, e di determinare le linee della loro cooperazione per lo sviluppo del Paese”. In anni molto più recenti, l’ipotesi di uno Stato binazionale è stata proposta da intellettuali come lo storico Tony Judt e la filosofa Judith Butler (T. Judt, Israel: the alternative, “New York Review of Books”, 23 ottobre 2003, ora in Id, Quando i fatti (ci) cambiano, Laterza, 2020, pp. 116-125; J. Butler, Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo, trad. it. Cortina, 2013).
Ma – ciò è altrettanto importante – l’idea è stata condivisa da intellettuali palestinesi di assoluto rilievo come il critico letterario Edward Said, che nel 2000 dichiarò al giornalista israeliano Ari Shavit: “Perché pensi che io sia così interessato allo Stato binazionale? Perché voglio un ricco tessuto di un certo tipo, che nessuno possa veramente comprendere e nessuno completamente possedere. Non ho mai capito l’idea del ‘questo è il mio posto, e tu sei fuori’. Non apprezzo il ritorno alle origini, alla purezza” (E. Said, Il mio diritto al ritorno, trad. it. Nottetempo, 2007). Oppure il poeta Mahmoud Darwish (v. A. Raz Krakotzkin, Exile and Binationalism. From Gershom Scholem and Hannah Arendt to Edward Said and Mahmoud Darwish, Fritz Stiffen Stiftung, 2012, pp. 88, 120, 126), che rifletté nelle sue poesie anche sul tema della convivenza tra palestinesi e israeliani, mettendo a fuoco allo stesso tempo la relazione tra colonizzato e colonizzatore. Ad esempio nei versi:
“Tu che stai sulla soglia, vieni, /Bevi del caffè arabo con noi. / Ti renderai conto che sei umano come noi. / Tu che stai sulla soglia / Vattene dalle nostre mattine, / Allora saremo rassicurati che siamo umani come te”.
Di recente, e particolarmente dagli anni Novanta, questi progetti intellettuali sono stati sottoposti al vaglio di analisi politologiche che hanno concluso come il binazionalismo, in una “forma prescrittiva” potrebbe forse offrire la possibilità di “un’entità politica basata su principi di giustizia ed equità, facilitare l’approccio all’ingiustizia storica e immaginare passati, presenti e futuri alternativi, basati sulle relazioni arabo-ebraiche”. Più concretamente il binazionalismo potrebbe realizzarsi nell’ipotesi di una confederazione tra Israele e Palestina – progetto su cui pure esiste una crescente letteratura scientifica, che ha soppesato concrete varianti giuridiche, costituzionali e politiche – con due Parlamenti nazionali e la condivisione di alcune funzioni di governo e infrastrutture comuni.
[Nota. Sullo stallo dello scontro tra Israele e Gaza, ho letto A. Pinkas, Israel had no strategy or endgame for Gaza, and now it’s paying the price, “Ha’aretz”, 16 maggio 2021. Si veda inoltre: B. Bashir and R. Busbridge, The Politics of Decolonisation and Bi-Nationalism in Israel/Palestine, “Political Studies”, 67, n. 2/2019, pp. 388-405.]
[Post scriptum. Spiace che l’intervento di Marina Calculli, pubblicato qui nei giorni scorsi, non dimostri, anche da parte di una studiosa, interesse a riflettere sul tema delle condivisioni, certo laceranti, e sulle forme di possibile convivenza in Medio Oriente. Mentre pronunci già unilateralmente sentenze – che in sé non appartengono evidentemente al dibattito culturale e scientifico – di “crimini di guerra” (che certamente riguardano semmai entrambe le parti, nonostante la sproporzione dello scontro), di “apartheid” (tema legittimamente sollevato da Human Rights Watch, modellato sull’esperienza del Sud Africa che ne uscì però – non dimentichiamolo, giusto o sbagliato – con la Truth and Reconciliation Commission). E infine, soprattutto, parli di “sostituzione etnica” a proposito del pur esecrabile progetto di colonizzazione ebraica della West Bank. Utilizzando così, nella propria analisi e nella legittima critica di Israele, una “teoria” della destra razzista e cospirazionista: teoria che, in effetti, non ci saremmo attesi nemmeno di trovare ospitata, anche tra le Opinioni, nelle pagine de “il Mulino”.]
* * *
Rispondo al post scriptum di Simon Levis Sullam, dal momento che chiama in causa la rivista e il mio operato di direttore. Lo faccio con rammarico, perché è doloroso rendersi conto di aver urtato, sia pure involontariamente, la suscettibilità di qualcuno, ma anche perché mi trovo a ribadire quelle che dovrebbero essere premesse condivise del dibattito intellettuale. Ho pubblicato, dopo averlo letto con attenzione, un intervento di Marina Calculli, una studiosa di relazioni internazionali che si occupa di Medio Oriente, e ha già scritto in passato per la rivista e la nostra casa editrice. Calculli avrebbe certamente potuto riflettere sulle “forme di convivenza” nell’area mediorientale. Ma non era quello il tema che mi aveva proposto. Su questo tema ho chiesto un intervento a Simon Levis Sullam, che abbiamo pubblicato e che potete leggere qui sopra. Di Medio Oriente ci siamo occupati in passato, e continueremo a farlo in futuro, cercando di dare voce a uno spettro di opinioni ampio, come è nella nostra tradizione, ma nel rispetto degli standard di una discussione informata e ragionevole.
Confesso che trovo sconcertante che si possa considerare l’opinione di una studiosa che interviene in un dibattito, all’interno di una società pluralista, come una “sentenza unilaterale”. Discutere criticamente delle politiche, delle leggi, delle sentenze è da sempre il compito di intellettuali e studiosi, che non emettono sentenze, ma esprimono valutazioni argomentandole. Le espressioni che impieghiamo per descrivere e valutare la storia, il diritto, la politica, non sono quasi mai designatori rigidi: “Napoleone” si riferisce sempre allo stesso individuo, “Bonapartismo” si riferisce a un fenomeno politico, e può essere legittimamente impiegato in contesti diversi. Gli storici discutono da decenni sull’estensione del termine “fascismo”, e tra filosofi politici c’è un vivace dibattito sui diversi sensi di parole come “libertà”, “eguaglianza” e così via. Nel caso di “apartheid” c’è un caso paradigmatico: il Sud Africa. Ma questo non impedisce di usare il termine in modo legittimo in riferimento a pratiche di discriminazione sistematica che avvengono altrove. A proposito delle politiche di Israele, oltre a Human Rights Watch, lo ha fatto tra gli altri Richard Falk, professore emerito di Diritto internazionale a Princeton e special rapporteur per la situazione dei diritti umani nei territori occupati in Palestina. Ovviamente, usare l’espressione “apartheid” per descrivere una politica di Israele non equivale a dire che la situazione in Israele sia identica a quella del Sud Africa di qualche decennio fa. Israele è una democrazia costituzionale, la società israeliana è caratterizzata da un pluralismo di corpi intermedi e di opinioni che si esprime attraverso una stampa libera e il lavoro di tanti nostri colleghi che lavorano in istituzioni accademiche di grande prestigio. Se si ricorre al termine apartheid per descrivere una politica del governo israeliano lo si fa per segnalare un problema, non per affermare un’identità tra realtà politiche e sociali diverse tra loro. Veniamo infine alla questione della “sostituzione etnica”. Anche in questo caso valgono le considerazioni di metodo che ho già esposte. Che questo sintagma sia stato impiegato in ambienti dell’estrema destra francese non fissa una sorta di relazione esclusiva tra quegli ambienti e le parole che lo compongono. Altrimenti dovremmo concludere che se qualcuno usa l’espressione “spazio vitale” per descrivere o criticare le politiche degli Stati Uniti o del Regno Unito nel XIX secolo sta affermando che queste grandi democrazie sono state dei regimi nazionalsocialisti. Somiglianza non è identità. Segnalare un problema serve a far progredire il dibattito democratico, non a emettere sentenze.
[Mario Ricciardi]
(Rivista il Mulino, 19 maggio 2021)