Domenica 30 maggio 2021, Santissima Trinità
LA DIFFICILE ARTE DEL NON PIACERE A TUTTI: A QUALCUNO, VIENE SPONTANEO…
C’è chi fa di tutto per piacere a tutti e chi al contrario gioca di continuo a pettinare il prossimo contropelo. A me, francamente, non piace né l’uno atteggiamento, né l’altro. Il fatto è che, evidentemente, ispiro antipatia. Mi dispiace.
Per spiegarmi meglio, vi fornisco due esempi.
Il signor D.P., noto specialista in questioni vicino-orientali e polemista finissimo
INUTILE DISCUTERE CON CHI NON SA (E/O NON VUOLE) FARLO
Sul profilo ufficiale Facebook di Franco Cardini, dove settimanalmente vengono condivisi gli articoli pubblicati sul sito, sono apparsi in questi giorni alcuni commenti offensivi nei suoi confronti. L’articolo “incriminato” è l’editoriale dal titolo “Tregua” (Minima Cardiniana 328 di domenica 23 maggio) dedicato al riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese (Minima Cardiniana 328/2 | Editoriale (francocardini.it)).
Ricevo dal signor D.P. una missiva isterica, piena di menzogne e d’insulti. Secondo lui sarei un feroce anti-israeliano (e quindi, com’è ovvio, antisionista e antisemita) solo perché ho commentato i recenti fatti israelo-palestinesi sottolineando l’inferiorità politico-militare palestinese: e mi sono spinto fino a criticare Netanyahu e a definire “razzetti” i razzi lanciati su territorio israeliano. D.P. commenta che dovrei andare io a prendermeli in testa, quei razzi. Gli replico non già che allo stesso modo dovrebbe andar lui a prendersi le bombe nel centro di Gaza: mi limito a ribadire che, grazie al sistema Iron Dome, quei razzi – lanciati in alto numero – sono stati pochissimo efficaci: il che è un fatto. Sorvolo su altri argomenti toccati da D.P. data la loro inconsistenza: se e quando avrà imparato a sostituire agli insulti e alle menzogne dei pacati ragionamenti, ne riparleremo. Mi limito solo a ricordare tre cose:
1. Se D.P. si fosse preso la briga di studiarsi un po’ il mio curriculum vitae et studiorum si sarebbe reso conto di quanto io sia legato a Israele e alla Palestina e quanti cari Maestri ed Amici vanti sia tra gli israeliani, sia tra i palestinesi (mi limito ai nomi prestigiosi di Joshua Prawer, di Benjamin Z. Kedar, di Roberto Bonfil). Proprio in quanto ho la coscienza in ciò e in altre cose assolutamente tranquilla rivendico la mia libertà di sereno giudizio, il mio diritto di libera critica, e respingo tanto provocazioni quanto ricatti morali.
2. Se D.P. spera di intimidirmi “denunziando” i miei trascorsi missini, sappia che sono stato iscritto al MSI dal 1953 (avevo tredici anni) al 1965 e che, pur avendo poi lasciato quel partito, mi vanto di una militanza che fu onesta, pulita e coraggiosa e durante la quale contrassi splendide amicizie che durano ancora (va da sé che nessuno di noi era né è “antisemita”).
3. Legga D.P. quanto su Israele e sull’ebraismo ho scritto nei seguenti libri: Gli ebrei. Popolo eletto e perseguitato, Firenze, Bulgarini, 1995; Introduzione a Israele. Da Mosè agli accordi di Oslo, Bari, Dedalo, 1998, pp. 3-19; Gerusalemme. Una storia, Bologna, il Mulino, 2012. E impari quanto meno a capire quello che legge.
Sospendo quindi il giudizio su quando D.P. dice a proposito di Israele, che sarebbe generosa ospitante di arabi (laddove, argomenta lui, gli arabi non fanno altrettanto). Qui ignoro se si tratti di malafede o d’ignoranza. Inutile ripercorrere la storia vicino-orientale per spiegare come mai, dal 1948, non vi sono più ebrei nei paesi arabi. Ma, quanto a Israele, e ammettendo che D.P. sia soltanto un ignorante, è opportuno fargli notare che gli “arabi d’Israele” non sono affatto degli “ospiti” generosamente ospitati, bensì una delle due grandi comunità delle quali Israele stessa è costituita. In cifre arrotondate, i cittadini israeliani sono 7 milioni circa, dei quali uno è fatto di arabi. Almeno sul piano formale, gli uni e gli altri godono di pari diritti di cittadinanza: Israele è istituzionalmente uno “stato ebraico” (ma non possiamo dire che lo sia “costituzionalmente”, dal momento che essa non ha costituzione; e il non averla consente forse di non formalizzare doveri e diritti delle sue comunità compresenti). Non posiamo quindi sostenere che gli arabi israeliani siano arabi ospiti d’Israele più di quanto non si possa dire che i sudtirolesi di lingua tedesca siano austrotedeschi ospiti dell’Italia. Si tratta di cittadini, nell’uno come nell’altro caso. Basta un errore (menzogna) del genere a rappresentare e a qualificare perfettamente il signor D.P., col quale per il resto sia chiaro che non ho alcuna intenzione di discutere.
2. D’altra parte, non sono nuovo a sventure giornalistiche. Prendiamo una cosina di vent’anni fa. Nel 2001 mi cacciai in un pasticcio: insieme con de Benoist, Chomsky e qualcun altro sconsiderato, affermai che nella faccenda dell’11 settembre e delle “due torri” di New York c’era un sacco di cose che non tornavano. Continuano a non tornare, ma chi desiderava che credessimo alla “versione ufficiale” e ci mettessimo tranquilli c’è quasi riuscito. Sul momento, comunque, alcuni personaggi più o meno anonimi decisero che fosse l’ora di darmi una lezione: soprattutto perché dal 1982 al 1994 ero stato un collaboratore assiduo de il Giornale, che ormai aveva messo insieme parecchi motivi per avercela con me. Una volta deciso di castigarmi, fu scelta per farlo in modo tanto elegante quanto autorevole e spiritoso una delle firme di punta di quel quotidiano: C.L. (non scriverò il suo nome in extenso perché non faccio pubblicità gratis). Dato comunque il rilievo intellettuale dell’articolista, invito a indovinarlo: ricchi premi e cotillons a chi ci riesce. Basti sottolineare la sua versatilità: teologo, liturgista ed esteta del rito religioso i giorni dispari, enogastronomo i giorni pari, studioso del “dandysmo” la domenica. Ecco quanto scriveva vent’anni fa, quando eravamo tutti più giovani.
C.L.
LA PICCOLA SETTA DEGLI ISLAMOFILI D’ITALIA
Aveva cominciato scrivendo storie delle Crociate dal punto di vista cristiano, ha finito col dichiarare “tra la cultura della moschea e quella dei McDonald’s preferisco incommensurabilmente la prima”. È Franco Cardini, l’Umberto Eco della destra, il tradizionalista arcicattolico (ma che in un attimo di sbandamenti firmò per l’abortista divorzista eutanasista Emma Bonino “for president”), lo storico toscano, anzi toscanaccio che si compiace di aver vissuto una ribalda gioventù “catto-anarco-fascista”. Oggi è uno degli illustri islamofili d’Italia, a capo di una setta esclusiva dove per essere ammessi giova chiamarsi Franco, vedi Franco Battiato e Franco Freda. Un nome usurpato: Franco vuol dire appartenente al popolo dei Franchi che a sua volta significa “uomini liberi”, tanto liberi da non accettare il giogo islamico e da infliggere nel 732 una sconfitta epocale agli arabi che stavano per sommergere l’Europa. Uno scontro fra “scalzacani” revisiona Cardini, ma il valore di Carlo Martello a Poitiers (come quello di Don Giovanni d’Austria a Lepanto e di Eugenio di Savoia a Belgrado) consente tutt’ora a lui di gustarsi il suo Chianti senza rischiare la fustigazione, a Battiato di cantare le sue canzoni senza che a nessuno venga in mente di versargli piombo fuso nelle orecchie(folcloristico castigo talebano per i musicisti) e a Freda semplicemente di essere vivo perché se in Italia vigesse la sharia sarebbe già stato giustiziato nel lontano 1979, all’epoca della sua condanna per la strage di Piazza Fontana. L’islamofilia elitaria del serafico terzetto non va confusa con l’islamofilia da centro di accoglienza, il sentimento sventato e fiducioso di chi prende le parti dei seguaci del Corano senza avere mai letto una sola delle Sure di maledizione con le quali Maometto si scaglia contro ebrei e cristiani, colpevoli di non riconoscerlo come profeta. Invece Franco Primo, Franco Secondo e Franco Terzo, pur parecchio diversi tra loro, l’Islam lo hanno approfondito e ne sono rimasti ipnotizzati.
Ipnotizzati è troppo? Sostituire con affascinati, che il senso rimane quello. Per Cardini “senza apporto islamico l’Occidente non avrebbe conosciuto lo straordinario sviluppo intellettuale, scientifico e socioeconomico che gli ha consentito di decollare nel suo volo verso la conquista del mondo”. L’insigne medievalista si dimentica di spiegarci come mai il prodigioso apporto non abbia funzionato a casa propria, dove al contrario il mondo musulmano è via via affondato, fra datteri e cammelli, nelle sabbie del sottosviluppo. Franco Freda tra un soggiorno in carcere e l’altro ha avuto modo di dichiarare: “Io sono per la guerra santa”. Più precisamente? “Considero con molta attenzione la guerra santa islamica in Afghanistan” (erano i tempi dell’intervento sovietico). Se l’ideologo arianeggiante ha una virtù, questa è la perseveranza, per cui ancora oggi, tra Moschea e McDonald’s, sceglie di stare all’ombra del minareto. Confortato nella sua scelta da miti lontani (l’Himmler che sulla sua scrivania teneva il Corano a fianco de Mein Kampf) e amici vicini. Come Claudio Mutti, così prossimo a Freda da essere il fondatore dei comitati per la sua scarcerazione. Questo parmigiano folgorato sulla strada della Mecca, non pago di aver scritto un testo su nazismo e Islam (in cui esalta le gesta della 13a divisione SS musulmana della Bosnia-Erzegovina), ha appena pubblicato Il fascismo e l’Islam. Introduzione, guarda caso, dell’ottimo professor Cardini.
Certi cortocircuiti sono ancora oggi scatenati da una fantastica foto del 1937: un Mussolini in gran forma, malapartescamente a cavallo, che brandeggia la spada dell’Islam alla testa di 2600 cavalieri arabi. Per Benito, a cui di Maometto non importava ovviamente un baffo, era solo il tentativo di sobillare i musulmani contro il comunismo demo-giudo-plutocratico. Ancora nel giugno del 1942 sostò a lungo dalle parti di El-Alamein sognando di entrare trionfante ad Alessandria con in mano il famoso spadone, tra ali egiziane plaudenti. Si è visto com’è andata a finire.
Se il duce scimitarruto è l’icona degli islamofili estetizzanti, Franco Battiato è la loro colonna sonora. L’ineffabile cantante siciliano, pur dichiarando di non appartenere a nessuna religione, ha pubblicizzato con le sue canzoni un Islam del tutto immaginario, pullulante di dervisci e baiadere, di “profumi indescrivibili nell’aria della sera” e “desideri mitici di prostitute libiche”, allettante incrocio fra sala da tè, il bagno turco, la fumeria d’oppio, l’harem del Sultano. Per rendere più credibile la pittoresca messinscena ha appiccicato sulla carta pesta qualche frasetta sufi, massime così vaghe da sembrare anche buddiste o new age che piacciono tanto alle consumatrici di tisane che leggono i libri Adelphi. Che di sicuro ignorano il trattamento di favore che l’Islam maggioritario ha riservato a questi mistici influenzati da monachesimo cristiano.
Il santo sufi al-Hallag nella Bagdad degli Abbasidi subì il seguente trattamento: 500 colpi di frusta, taglio delle mani e dei piedi, crocifissione e poi, visto che non ne voleva sapere di rendere l’anima ad Hallah, strappo della lingua, taglio della testa e rogo finale dei pezzi che restavano. Ma Battiato continua a sognare e a far sognare l’Arabia felix che non c’è, se non nei fumi dell’hashish o nei quadri di Delacroix dove fra un turbante e un narghilè eccola che spunta, la tetta birichina della formosa odalisca. Nell’ultimo disco Ferro Battuto canta un verso rilevatore, stavolta non in arabo ma in siciliano: “Li turchi mi pigghiaru intra lu cori”. I turchi mi colpirono il cuore, muscolo al quale notoriamente non si comanda. Ovvio che anche lui, come Cardini e Freda, tra la cultura della moschea e quella dei McDonalds preferisca “incommensurabilmente” la prima. Più dietetica, d’accordo, ma perché prima di combinare guai non provano con la cultura della Madonna di Pompei e del salame piccante? Che sia meno elegante?
(il Giornale, 31 ottobre 2001)
Ovviamente risposi subito, il giorno dopo.
CONFESSIONI DI UN ISLAMOFILO SETTARIO
Dunque, m’avete smascherato. Su il Giornale del 31 ottobre scorso – e in prima pagina! – un solerte censor-delator-inquisitore inchioda alle nostre gravi responsabilità me e i miei omonimi Battiato e Freda (tre Franchi: e nemmeno svizzeri, ohimè, che messi insieme faremmo almeno un euro e mezzo…). Noi tre saremmo a capo de (recita il titolo dell’articolo) La piccola setta degli islamofili d’Italia.
Naturalmente, rispondo parlando per me. La setta non è organizzata, non ha né cariche istituzionali, né sedi, né uffici. Anzi, a dir la verità gli altri due membri del triumvirato di persona non li conosco. Io parlo per me e non posso assumermi le loro responsabilità. Vediamo le mie: e controlliamo l’identikit che il Solerte Censore passa alle stampe e magari a tutte le polizie d’Occidente (se le passa alla CIA, sto tranquillo: non mi troverà mai…).
Qualche rilievo sull’esattezza degli addebiti, comunque, è un mio diritto.
Primo. Non sono l’Umberto Eco della Destra. Tanto valeva definirmi lo Jacques Le Goff dei Poveri: sarebbe stato più pittoresco. Umberto Eco è unico, inarrivabile, ineffabile, insostenibile: e mi è carissimo. Ci accomunano la barba, la stazza, l’incipiente calvizie, una vecchia amicizia. Ma di Eco c’è solo lui. Basta e avanza. Un altro, sarebbe una sciagura di portata cosmica.
Secondo. È verissimo che ho un oscuro passato politico: e, anche se le mie posizioni non sono più quelle di allora, me ne vanto. Un passato onesto, vissuto alla luce del sole e a fronte alta. Ho anche scritto due libri al riguardo: la delazione giunge pertanto pleonastica e tardiva. Così come il fatto che abbia prefato un libro su Il fascismo e l’Islam. Certo: il lavoro di un giovane e valente orientalista, Enrico Galoppini. Edito da Claudio Mutti: un galantuomo e un ottimo insegnante, che da tempo nella sua Parma le sinistre perseguitano per delitto d’opinione (non siete voi liberali, o Solerte, che sareste pronti a morire pur di difendere il diritto di chicchessia a professar le proprie idee?). Se il Solerte avesse letto quel libro, si sarebbe reso anche conto che si tratta di un lavoro molto critico sulla politica arabo-islamica fascista. E, se conoscesse meglio la storia, nonché il lessico italiano, saprebbe che il Duce non è mai stato “scimitarruto” (la “spada dell’Islam” offertagli a Tripoli nel marzo del 1937 era a lama dritta), né ha mai “brandeggiato” l’arma. Qualcuno gli spieghi, visto che lui non deve aver uno Zingarelli in casa, la differenza tra “brandire” e “brandeggiare”.
Terzo. Nessuno sbandamento qualche anno fa, quando feci parte della “cordata” guidata da Indro Montanelli per la Bonino for president. Oggi non lo farei: ma se tornassi indietro – ai contesti politici di allora –, la mia scelta sarebbe la stessa.
Comunque, il Solerte e i lettori si rassicurino. Non sono islamofilo più di quanto non sia ebreofilo o buddhofilo. E non sono nemmeno islamista, né arabista, né orientalista. Mi occupo però da una quarantina di anni dei rapporti fra l’Europa e il mondo islamico nonché dell’immagine dell’Islam nella cultura europea: su questo, ho una discreta bibliografia scientifica oltre agli articoli di giornale che il Solerte ha consultato; e i miei pareri di storico sono tenuti in qualche considerazione dagli specialisti.
È in tale veste che posso serenamente tornar ad assicurare che i rapporti fra Europa e Islam, dall’VIII secolo ad oggi, sono stati tanto stretti quanto positivi. Vi sono senza dubbio state guerre e incursioni corsare; e sono state scritte anche – da entrambe le parti – pagine di efferata violenza. Cristiani e musulmani si sono comunque combattuti e odiati molto meno di quanto abbiano fatto tra loro i cristiani europei: basti pensare alle guerre (quelle sì, davvero, “di religione”) tra l’inizio della Riforma e le paci di Westfalia del 1648. E lasciamo perdere poi l’argomento della ferocia. Il Solerte richiama il martirio di al-Hallag: potrei confortarlo con altri episodi. Ma, di grazia, conosce i particolari dell’esecuzione esemplare di François Ravaillac? Se non sa chi fosse, non glielo svelerò: consulti l’enciclopedia, che gli fa bene.
Non sono uno storico revisionista. Parlando su un giornale della scarsa rilevanza dello scontro di Poitiers del 732 (che forse avvenne nel 733: si è incerti perfino sulla data) non ho fatto che richiamare un pubblico un po’ più ampio a una cosa che tutti gli studiosi sanno benissimo. Fu Edward Gibbon, nel Settecento, a inventarsi il mito di Poitiers, collocando una tessera importante nel falso mosaico dello “scontro secolare” tra Occidente e Islam che oggi tra i semicolti e i fondamentalisti va tanto di moda. Ribadendo che la battaglia navale di Lepanto nel 1571 (vinta da una flotta della lega ispano-veneziano-pontificia nel 1571, nel quadro della “guerra di Cipro”, che la lega perse) fu vanificata nei suoi esiti sia militari sia diplomatici, ripeto una verità da lungo tempo acclarata: né l’imperatore romano-germanico, né il re di Francia, né la regina d’Inghilterra presero difatti parte a quella vittoria “cristiana”, della quale sul serio gioì solo Tahmasp, shah di Persia (e musulmano). Del resto, si tranquillizzi il Solerte: anche se i turchi avessero vinto a Lepanto, non mi avrebbero impedito di bere Chianti. Come non proibivano l’eccellente vin di Cipro ai loro sudditi cristiani. Anzi, il sultano Selim III era un noto ubriacone. Visto quanti abbagli si prendono, a parlar di cose che non si conoscono? Al Solerte, dunque, l’auspicio di una futura carriera giornalistica ricca di successi. E l’augurio che don Benedetto Croce formulava ai giovani: invecchiare. Studiando, magari.
Un dato storico certo e concreto, dunque. La sostanziale e ininterrotta positività dei rapporti euro-musulmani, fino al Cinquecento. Ad essi molto deve l’Europa sotto il profilo economico, finanziario, culturale, scientifico, tecnico. Poi, l’espandersi repentino dell’Occidente cinquecentesco (già preparato nei tre-quattro secoli precedenti) e il dispiegarsi della ben nota “eccezione occidentale”. È su ciò che il presidente Berlusconi avrebbe dovuto semmai insistere, anziché impegolarsi nelle questioni della “superiorità” o della “preferibilità” della nostra cultura su altre. Non era mai successo prima che una società riuscisse, con le sue invenzioni e le sue scoperte, a spezzare i limiti dei “compartimenti-stagni” in cui fino ad allora le civiltà stavano rinchiuse; e a fondare un’“economia-mondo” che fu la prima fase della globalizzazione. Perché poi da allora l’Islam si sia ripiegato su se stesso, e come e perché si sia giunti alla situazione mondiale di oggi, è molto bene spiegato nel volume di David S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni (Garzanti), dove si chiarisce bene che superiorità e inferiorità non c’entrano nulla. Tutto dipende semmai dalla straordinaria, irripetibile storia dell’Occidente. E dal suo irrisolto conflitto tra umanitarismo e volontà di potenza, che sono la chiave del suo fascino, del suo successo storico, dell’amore e dell’odio (fortissimi entrambi, e magari compresenti) che esso ispira.
E adesso direte: ma come, Cardini apologeta dell’Occidente? Nient’affatto. Solo della verità storica. Vorrei ricordarvi che appena un anno fa, al tempo del Giubileo, fui uno dei pochi che non si unì al coro di condanna delle crociate. Quelle storiche, dico. Ch’erano altro da quel che sostenevano alcuni storici improvvisati di allora, così come l’Islam storico è altro da quel che pretendono certi autoreferenziati esperti di oggi. Un Islam che i fondamentalisti – pericolosi stravolgitori dì una fede religiosa in termini ideologici – non sono degni di rappresentare; così come i maldestri bombardatori a casaccio dei villaggi afghani rappresentano male la grande tradizione occidentale. Imperialisti, banditi e spoliatori lo siamo stati, senza dubbio: ma, vivaddio, alla grande.
Richiamo queste polemiche vecchie di vent’anni soprattutto per una cosa: ammetto che C.L. mi fece un piacere immenso avvicinandomi in qualche modo a Franco Battiato. Questa paginetta di “Amarcord” è un nuovo omaggio a un grande artista che fu altresì un grande Uomo dello Spirito.