Minima Cardiniana 329/5

Domenica 30 maggio 2021, Santissima Trinità

A PROPOSITO DELLA PENTECOSTE
Della Pentecoste abbiamo parlato la scorsa settimana: e io sono incorso in un grande errore liturgico-calendariale. Con l’aiuto del collega Fassò, mi correggo.
UNA LETTERA DI ANDREA FASSÒ
Caro Franco,
scusa se intervengo ancora con la mia pignoleria. È una malattia professionale, della quale ormai non mi libero più.
Sono perfettamente d’accordo con quello che scrivi in MC 328/0 a proposito della Pentecoste. Tranne su un punto: non vale per la Pentecoste, ma per l’Ascensione, che ricorreva sette (o dieci) giorni prima.
La Pentecoste – pentekosté heméra, cinquantesimo giorno – cade cinquanta giorni dopo Pasqua, dunque dopo sette settimane (alla maniera antica si conta anche il giorno di partenza, ossia appunto Pasqua, più 49 giorni = 50), immancabilmente di domenica.
Ricordo anch’io la legge del 1977 che, in nome della produttività e su pressione della Confindustria (l’Italia attraversava una crisi economica e la colpa era tutta degli italiani che non avevano voglia di lavorare…), eliminò – o meglio spostò alla domenica più vicina – le festività dell’11 febbraio, del 19 marzo, dell’Ascensione, del Corpus Domini, del 2 giugno (Festa della Repubblica), del 29 giugno (Santi Pietro e Paolo) e del 4 novembre (anniversario della vittoria del 1918). Nella busta paga figurano appunto come “festività soppresse”.
L’anniversario dei Patti Lateranensi, 11 febbraio, non era particolarmente popolare; il 19 marzo era San Giuseppe (pian piano declassato a “festa del papà”), anche lui secondario; al 29 giugno non teneva nessuno, tranne naturalmente i romani, che ovviamente ce l’hanno ancora in quanto festa dei patroni.
Santa Sede e “laici” dovevano cedere ancora su qualcosa. Furono spostate alla domenica le feste civili del 2 giugno (non molto sentita; però una ventina d’anni fa il presidente Ciampi l’ha voluta ripristinare) e del 4 novembre (giornata delle Forze Armate, sentita solo da queste ultime; per il resto si celebrava la vittoria di una guerra che non si sarebbe mai dovuta fare e che era ormai lontana, superata da un’altra guerra ancora più sciagurata e disastrosa). Il Vaticano tenne duro sull’Immacolata Concezione: quasi nessuno sa che cosa significa, e si tratta comunque di un dogma abbastanza ostico, ma da un lato è celebrata in molti luoghi d’Italia (qui a Bologna la “fiorita” per la statua della Vergine in piazza Malpighi), dall’altro è una bandiera identitaria per la Chiesa cattolica. Furono sacrificati invece l’Ascensione e il Corpus Domini, che fra l’altro avevano il torto di cadere sempre di giovedì e di incoraggiare così il nostro popolo di fannulloni ad assentarsi dal lavoro il venerdì (ferie? permesso? altro?…), facendo il “ponte” fra il giovedì e il sabato-domenica, allo scopo – riconosciamolo – non di celebrare una ricorrenza religiosa, ma di godersi un week-end più consistente. Produttivismo da una parte, consumismo dall’altra.
E dal canto loro i “laici” non mollarono il 25 aprile e il 1° maggio, per ragioni facilmente intuibili.
Sul 25 aprile sono d’accordo con te. Anche prescindendo dal fatto che una parte degli italiani non lo sente come una festa (e qui il discorso si farebbe lungo), non ci sarebbe nulla di male a portarlo alla domenica successiva, anche perché la Liberazione (ossia la fine della guerra nell’Italia settentrionale) non è avvenuta dappertutto nello stesso giorno: il 25 (meglio: fra il 25 e il 28) a Milano, ma a Bologna il 21, a Modena il 22, a Genova il 26, a Piacenza il 29… Ma immagina il putiferio che si scatenerebbe oggi dall’una e dall’altra parte se qualcuno proponesse lo spostamento. Anche questa è una bandiera identitaria.
Il 1° maggio invece secondo me è giusto mantenerlo. Senza faziosità, ma è la festa del lavoro, ed è molto sentito, credo, anche in questi tempi sfilacciati.
In conclusione, dài, dobbiamo essere felici. Abbiamo stimolato la crescita, la produzione e i consumi. Non è questo l’essenziale?
Andrea Fassò