Domenica 30 maggio 2021, Santissima Trinità
EFFEMERIDI DELL’EPIDEMIA
L’INFLUENZA: PERCHÉ NON SI È USATO IL VACCINO?
Correva l’anno 1970 e il virus della pandemia denominato Hong Kong H3N2 imperversava in Italia e nel mondo, mietendo migliaia di vittime. Le analogie con quanto sta avvenendo oggi sono impressionanti e anche i reportage dell’epoca potrebbero essere stati scritti l’altro ieri. Grazie all’amico Maurizio Guidi, siamo in grado di riprodurre un lungo articolo apparso su Panorama il 15 gennaio del 1970. Leggere per credere (Alessandro Bedini).
ROBERTO TABOZZI
HA VINTO IL VIRUS
Ma perché? In Italia si possono produrre al massimo 300 mila dosi di vaccino antinfluenzale al mese, insufficienti per una vaccinazione totale della popolazione. Quest’anno, per l’epidemia dell’A2/Hong Kong/68, 13 milioni di italiani sono stati costretti a letto, 5 mila sono morti, i danni all’economia ammontano a oltre 250 miliardi di lire. In futuro si spera in un farmaco prodotto in laboratorio su larga scala e a basso prezzo.
Tredici milioni di italiani a letto con l’influenza, almeno 5 mila morti a causa di complicazioni broncopolmonari, un danno per l’economia, a essere ottimisti, di oltre 250 miliardi (le sole aziende di Stato – Sip, Finmare, Istituti di credito, Iri, Eni – denunciano una perdita di 32 miliardi per assenze dal lavoro. La direzione dell’Inam di Roma ha accusato un esborso straordinario di 60 miliardi per quella che è stata definita la spaziale). Queste le conseguenze dell’ondata del virus A2/Hong Kong/68 che ha colpito tutta l’Italia dalla fine di novembre del 1969.
Negli ospedali milanesi c’è stato un affollamento mai visto: a Niguarda, al Policlinico, al San Carlo, in un solo giorno, il 28 dicembre, ci sono stati 361 nuovi ricoverati. Gli ammalati sono stati ammassati su materassi per terra, perfino nei corridoi. Negli uffici della Montedison si è registrata la punta massima del 40% di assenze.
A Roma, 800 mila persone sono state colpite dalla spaziale. La squadra della Lazio, decimata dall’influenza, il 7 dicembre ha giocato con tre riserve e con quattro giocatori ancora febbricitanti. A Torino, oltre mezzo milione di persone sono state costrette a letto, la metà della popolazione. L’intera squadra mobile della questura è stata messa fuori combattimento. La Juventus ha avuto sette giocatori colpiti da febbre alta. Alla Fiat si è registrato il 25% di assenze su 120 mila lavoratori. La Croce Verde torinese ha avuto una media di 80 chiamate al giorno, e, decimata anch’essa dal virus, ha potuto rispondere soltanto alla metà.
Paese a letto. A Pavia, in un solo giorno, il 30 dicembre, sono morte 15 persone per complicazioni broncopolmonari conseguenti all’influenza. Un paesino della Carnia, Raveo, il 30 dicembre aveva l’80% della popolazione (750 abitanti) a letto. A Napoli 400 mila persone sono state colpite dalla spaziale.
È stata una ventata di malattia che ha investito tutta l’Italia, indiscriminatamente: si poteva fare qualcosa per evitare danni così gravi alla salute dei cittadini e all’economia del Paese già abbastanza scossa dell’autunno caldo? “In Italia non c’è un’organizzazione sanitaria efficiente”, dice il professor Tullio De Sanctis Monaldi, 74 anni, direttore del centro di virologia degli ospedali riuniti di Roma, che ha isolato per primo in Italia il virus dell’A2/Hong Kong/68 il 2 dicembre scorso. “Il Consiglio superiore della Sanità (organo scientifico consultivo del ministero) non funziona, il ministero della Sanità non dispone di un bilancio che gli consenta di procurarsi e distribuire gratuitamente grosse scorte di vaccino, le ditte private non hanno interesse a produrne. Si continua a considerare la influenza una malattia lieve”.
Anche i parlamentari non risparmiano le loro critiche. “Il ministero della Sanità”, dice Ado Guido De Mauro, 47 anni, deputato del Pci, vicepresidente della commissione Sanità alla Camera, medico chirurgo di Chieti, “ha mancato al suo compito. D’altra parte, i fondi a sua disposizione sono irrisori. Nel suo magro bilancio (164 miliardi all’anno), solo un miliardo e 800 milioni figurano per l’azione profilattica. Quando si farà il conto dell’epidemia, ci accorgeremo che sarà elevatissimo, superiore alle pur pessimistiche previsioni di oggi”. “L’immediata preparazione del vaccino”, dice Ferruccio De Lorenzo, 66 anni, deputato liberale, membro della commissione Sanità alla Camera, direttore dell’ospedale per malattie infettive Cotugno di Napoli, “avrebbe potuto mitigare la gravità del fenomeno. Ma per far questo ci vuole una grossa organizzazione sanitaria e in Italia non c’è: l’Istituto superiore di Sanità è in crisi, il ministero è carente”. “Il governo ha affrontato il problema con i metodi tradizionali, con il consueto senso di fatalità”, dice Gianni Usvardi, 40 anni, deputato socialista, ex-sottosegretario alla Sanità, “rivelando una fallimentare capacità di azione preventiva. Bisognava fare una vaccinazione di massa, cominciando dalle scuole e dalle fabbriche”.
Al ministero della Sanità respingono tutte le accuse. “Una vaccinazione di massa”, dice un alto funzionario del ministero, “è assolutamente impensabile. Nessun Paese del mondo l’ha fatta, neanche gli Stati Uniti, che hanno una organizzazione sanitaria esemplare. Come potevamo pensare di farla noi che non siamo stati in grado di fare al 100% neppure le vaccinazioni obbligatorie come l’antipolio e l’antidifterica? Inoltre, se avessimo voluto farla, gli istituti sieroterapici italiani non sarebbero mai stati in grado di produrre gli oltre 50 milioni di dosi necessarie. La verità è che noi abbiamo fatto tutto quello che si doveva fare. Siamo senza dubbio l’unico Paese al mondo che, all’arrivo dell’influenza, avesse tante scorte di vaccino”.
Preavviso. Quello che è certo è che si sapeva da tempo che l’ondata di influenza stava per abbattersi sull’Italia. La si poteva attendere fin dal 14 luglio 1968, quando a Hong Kong era scoppiata un’epidemia di influenza che aveva messo a letto mezzo milione di persone, un quinto della popolazione. L’influenza era descritta con sintomi benigni: “Forte cefalea, temperatura sui 38°, durata di tre o quattro giorni”.
La dottoressa W.K. Chang, virologa del centro sull’influenza di Hong Kong, riuscì a isolare 83 campioni del responsabile dell’influenza: un virus non più grande di un milionesimo di millimetro. I campioni furono spediti in Inghilterra, al Centro mondiale per gli studi sull’influenza di Mill Hill, presso Londra (l’altro centro mondiale si trova a Atlanta, in Georgia, Stati Uniti). Il dottor Helio G. Pereira, direttore del centro, riscontrò nel virus caratteristiche così diverse da quelle delle epidemie asiatiche del 1947 e 1957 da rendere inutilizzabili i vaccini esistenti: e avvertì immediatamente l’Organizzazione mondiale della Sanità, Oms, con sede a Ginevra.
Il primo allarme ufficiale sull’epidemia di influenza che minacciava il mondo venne data dall’Oms sul bollettino del 2 agosto 1968. Il virus veniva classificato: A2/Hong Kong/68. Con centro a Ginevra, l’Oms coordina l’attività di 85 centri dell’influenza distribuiti in 55 Paesi (in Italia il centro nazionale per l’influenza è presso l’Istituto superiore di sanità).
Alla fine di agosto il primo vaccino antinfluenzale era già pronto a Londra. Ma l’influenza, nata in Cina, dove pullulano allo stato brado animali di ogni sorta, specie quelli più sensibili agli agenti epidemici polmonari, i suini, galoppava nel mondo. In un mese furono colpiti Singapore, le Filippine, la Nuova Zelanda, l’Australia, Formosa, l’India, gli Stati Uniti (30 milioni di persone a letto, 1.700 morti in una settimana in 122 città), l’Iran, il Giappone, l’Inghilterra (“Quando Mao starnuta”, scrissero i giornali inglesi, “ii mondo si ammala”), l’Unione Sovietica (il 70% della popolazione venne vaccinata con un vaccino attivo che si inocula nel naso).
L’Italia nel 1968 venne risparmiata, ma nessuno si nascondeva che le premesse per un attacco del virus rimanevano valide. “Se il ruolino di marcia della Hong Kong è uguale a quello delle altre epidemie influenzali”, disse allora il professor Cesare Chiarotti, direttore generale per l’igiene pubblica al ministero della Sanità, “presto anche noi dovremmo essere attaccati da questo virus A2/Hong Kong/68”.
Senza virus. Il ministero della Sanità nel settembre 1968 convocò a Roma i rappresentanti dei quattro produttori italiani di vaccino (l’Istituto sieroterapico milanese Serafino Belfanti, l’istituto sieroterapico Achille Sclavo e il laboratorio Luigi Pozzi di Siena, la Richardson-Merrel di Napoli). Chiarotti chiese quanto vaccino si poteva produrre per un’influenza attesa quello stesso inverno. I quattro istituti promisero 150 mila dosi ciascuno, ma soltanto il laboratorio Pozzi (lo stesso Luigi Pozzi, intuendo la gravità della situazione, lo aveva richiesto a Londra ai primi di settembre e ne aveva cominciato la produzione) aveva il virus (in termine scientifico, ceppo) su cui lavorare. Egisto Falchetti, 62 anni, direttore della Sclavo, andò anche lui a prenderselo personalmente a Londra. Alla fine di settembre tutti i produttori di vaccino italiani poterono cominciare la produzione di un vaccino monovalente, specificamente indicato per combattere l’A2/Hong Kong/1968.
Nell’inverno del 1968 il virus non attaccò l’Italia. Il ministero della Sanità comprò le dosi fino allora prodotte, circa 500 mila, rifiutando poi quelle che gli istituti avevano continuato a fabbricare. Per questo l’Istituto Sclavo di Siena si vide costretto a smaltire il suo eccesso (circa 80 mila dosi di vaccino monovalente) vendendolo all’Argentina nel giugno 1969.
Di queste 500 mila dosi di vaccino monovalente (si inietta per via intramuscolare: si fa una prima iniezione e 15 giorni dopo l’altra), nel 1968 ne erano state inoculate ai dipendenti dei servizi pubblici, ai vecchi, ai bambini, ai malati di cuore e all’apparato respiratorio, circa 300 mila dosi. Ne restavano, quindi, nei magazzini del ministero e dei medici provinciali sparsi in tutta Italia circa 200 mila dosi. Nella primavera del 1969 il ministero aveva poi approvato la produzione di un vaccino polivalente, valido oltre che contro il virus del ceppo A anche contro quello del ceppo B dell’influenza.
Il 23 luglio del 1969 il ministero della Sanità comperava 200 mila dosi di vaccino polivalente e altre 100 mila dosi di quello monovalente: nei suoi magazzini c’erano 500 mila dosi da distribuire gratuitamente attraverso i medici provinciali di tutta Italia alle categorie interessate. Inoltre, per il rifornimento privato delle farmacie esistevano ancora abbondanti dosi di vaccino presso gli istituti produttori.
“Il vaccino non si trova?”, dice Luigi Pozzi, direttore dell’omonimo laboratorio di Siena, “ma io ne ho scorte enormi, scrivetelo pure. La verità è che le farmacie non lo chiedono, perché la gente non vuole vaccinarsi”.
Perché la gente non vuole vaccinarsi? “Da anni vado predicando”, dice Tullio De Sanctis Monaldi, “che occorre rendere obbligatoria per legge la vaccinazione antinfluenzale soprattutto nelle comunità, mettendo subito al riparo del contagio gli addetti ai servizi pubblici, il personale degli ospedali, i vecchi, i bambini. Bisogna che in futuro il ministero promuova campagne di educazione sanitaria sulle varie vaccinazioni preventive, oltre che quelle contro la polio e il vaiolo”.
Il rifiuto della vaccinazione non è soltanto italiano. “Anche nella nostra organizzazione”, dice Fernand Tomiche, uno dei dirigenti della sede di Ginevra dell’Oms, “molte impiegate non si sono volute vaccinare”.
Mea culpa. Quest’anno, inoltre, si poteva sapere con buona approssimazione quale sarebbe stato il virus dell’influenza che avrebbe attaccato. “Aspettavamo l’A2/Hong Kong/68 già l’anno scorso”, dice il professor Italo Archetti, 56 anni, capo della sezione di virologia del laboratorio di microbiologia dell’Istituto superiore di sanità, “era quindi molto probabile che lo stesso virus arrivasse presto o tardi anche da noi. Sarebbe stato opportuno accingersi a fronteggiarlo preparando forti dosi dello stesso vaccino, prodotto l’anno scorso in limitata quantità. Non è stato fatto e dobbiamo recitare un po’ tutti il mea culpa”.
Si accusa il ministero della Sanità di non aver fatto un’azione adeguata di propaganda per la vaccinazione contro l’influenza. Non una campagna allarmistica, ma una campagna discreta fra i medici privati e provinciali. Il ministero si giustifica: “Si rischiava di scatenare il panico fra la gente. Tutti avrebbero dato l’assalto alle farmacie alla ricerca di un vaccino introvabile”. Il ministero porta un’altra giustificazione: il vaccino, secondo esperimenti condotti negli Stati Uniti, darebbe un’immunità all’influenza del 60-70%. Inoltre, alcune persone non possono prenderlo: chi è raffreddato, chi soffre di allergia alle uova e alle piume, per esempio.
“Io ho compiuto esperimenti su vasta scala, per esempio nelle caserme, e i risultati sono sempre stati soddisfacenti”, dice De Sanctis Monaldi. “Nell’autunno ’68 e in quello ’69 ho vaccinato circa 300 bambini di un collegio milanese”, dice Annamaria Vacchi Calvi, 45 anni, primario di malattie infettive all’ospedale d’isolamento Agostino Bassi di Milano. “Durante l’ultimo controllo effettuato alla vigilia delle feste natalizie, nessuno dei vaccinati aveva preso l’influenza e eravamo nel pieno dell’epidemia. In un altro collegio di non vaccinati si è avuto il 25% di influenzati”.
Il vaccino ha quindi buone possibilità di immunizzare contro l’influenza. Ma bisogna produrlo in grosse quantità e a prezzi accessibili. Per preparare il vaccino sono necessarie uova all’undicesimo giorno di incubazione. In queste uova viene inoculato il virus e dopo due giorni viene raccolta la parte dove il virus ha attecchito. C’è un processo di purificazione e poi la preparazione finale del vaccino che l’Istituto superiore di sanità deve controllare (ci mette circa un mese a dare la risposta). In media si può calcolare che, considerando le uova da scartare, ci vogliono due uova per ogni dose.
Dei quattro istituti che producono vaccino antinfluenzale, il Belfanti (30 dipendenti addetti esclusivamente alla produzione del vaccino) ha una capacità massima di produzione di 100 mila dosi di vaccino al mese; lo Sclavo (500 dipendenti, attrezzature modernissime, produce vaccini e sieri di ogni tipo) può produrne 80 mila; il Pozzi (10 dipendenti, produce esclusivamente vaccini antinfluenzali) 75 mila; la Richardson-Merrel ha una produzione leggermente inferiore.
In tutto circa 300 mila dosi mensili, cioè, lavorando a ritmo continuo, 3 milioni 600 mila dosi all’anno, tanto da vaccinare poco più del 7% della popolazione. Attualmente in farmacia (lo si trova facilmente in quelle milanesi, quasi inesistente in quelle romane) il vaccino monovalente costa 880 lire per fiala; quello polivalente 1.800 (agli enti pubblici quest’ultimo costa 1.150 lire e al ministero della Sanità, il maggior acquirente, 1.080 lire).
“La vaccinazione totale è impossibile”, dice Giuseppe Pettenella, vicedirettore della divisione immunologica del Belfanti. “Anche ammesso che si potesse portare il costo per dose a 500 lire, per 50 milioni di cittadini il costo sarebbe di 25 miliardi di lire. Ma in questa cifra non si tiene conto dello sforzo che dovrebbero fare i produttori di siero: un investimento enorme in attrezzature. Quando poi avessero preparato il vaccino non è detto che il virus non cambi”.
Vaccinista. “Nessun Paese del mondo”, dice Egisto Falchetti, direttore dello Sclavo, “può produrre vaccino antinfluenzale a sufficienza per le proprie esigenze. Lo stesso istituto Pasteur di Parigi ha una produzione mensile più o meno come la nostra”. Dice Enea Suzzi Valli, medico capo dell’ufficio d’Igiene di Milano: “Sono un vaccinista convinto, ma la stessa organizzazione mondiale della Sanità afferma che nessun Paese del mondo è in grado di vaccinare tutta la popolazione”.
Un Paese all’avanguardia nel campo delle vaccinazioni antinfluenzali è l’Urss. Nel 1968 il 70% della popolazione è stato vaccinato. Quest’anno, in cui l’attacco del virus è stato più blando, è stata annunciata la vaccinazione di 30 milioni di persone, circa il 15% della popolazione. In Urss usano un vaccino vivo attenuato, a basso costo, che si inocula nel naso (esperimenti di questo genere sono condotti anche in Giappone e in Gran Bretagna), ma che presenta alcuni svantaggi: è difficile attenuare il virus influenzale vivo e si corre il rischio, inoculandolo, di provocare nel soggetto malattie ben più gravi, per esempio broncopolmoniti. Per questo il 10 ottobre 1969 a Atlanta negli Stati Uniti, si è svolta una riunione dell’Oms dove è stato deciso che, almeno per il momento, il virus vivo contro l’influenza non dava ancora le garanzie di sicurezza sufficienti come quello ucciso.
I vaccini monovalenti e polivalenti non sono prodotti a sufficienza in tutto il mondo, il vaccino vivo sovietico presenta dei pericoli: l’influenza (“Molti la prendono sottogamba, ma è la malattia che uccide più di tutte, più del cancro e delle malattie cardiocircolatorie”, sostiene Luigi Pozzi) riuscirà un giorno a essere vinta?
“Noi speriamo di trovare non un vaccino, ma un prodotto farmaceutico capace di fermare la moltiplicazione dei virus dell’influenza”, dice il professor D.A.J. Tyrrell, capo della divisione delle ricerche sull’influenza all’Istituto nazionale per la ricerca medica di Londra. Due sono i prodotti antivirali finora allo studio: una sostanza chiamata amantidina (a Lugano molti milanesi sono andati a comprare un farmaco americano, il Symmetrel, a base di cloridrato di amantidina. “Serve a poco, però”, dice il professor Ernesto Bonomo, primario all’ospedale di circolo di Rho) che sembra possa prevenire l’influenza di tipo A. L’altra ha finora un nome convenzionale: U.K. 2371, appartiene alla famiglia chimica delle isochinoline, è stata scoperta in Gran Bretagna, sembra sia efficace anche contrò l’influenza di tipo B.
“In avvenire”, dice Tyrrell, “cercheremo di scoprire qualche prodotto antivirale, che si possa produrre in laboratorio senza eccessive difficoltà e a basso prezzo”. Bisognerà forse cercare non un rimedio universale contro l’influenza ma qualcosa che impedisca di trasformare un raffreddore leggero in qualcosa di più grave.
Mucca e corvo. Ci sono troppi virus dell’influenza (“Ne esistono almeno cinque grandi ceppi”, dice Tyrrell, “che fra loro si rassomigliano come una mucca e un corvo”), è poco probabile che si possa produrre un vaccino capace di dare l’immunità contro tutti. È l’opinione anche del professor Helio G. Pereira, direttore del centro mondiale contro l’influenza di Mill Hill, presso Londra. “In pochi anni”, dice, “avremo dei prodotti farmaceutici efficaci che guariranno da questa malattia. Allora non avremo più bisogno di vaccini antinfluenzali”.