Minima Cardiniana 330/4

Domenica 6 giugno 2021, Corpus Domini

PARLA IL GENERALE (MA CERCANO DI ZITTIRLO)
PIERO LAPORTA
GIOVANNI BRUSCA ASSASSINO DI FALCONE? SOLO LUI?
Svelate le menzogne su via d’Amelio. Anche su Capaci i conti non tornano. Poco prima della ratifica del trattato di Maastricht, l’Italia vittima della speculazione assistette agli attentati contro i simboli della lotta alla mafia. Vari depistaggi riuscirono a nascondere la verità. Articolo del 31 agosto 2018, ancora attuale per il clamore della scarcerazione di Giovanni Brusca.

Taluni assicurano che la speculazione contro l’Italia del 1992 – 60.000 miliardi di oro di Bankitalia per acquistare le lire – ebbe due picchi in corrispondenza di Capaci e via D’Amelio. Basterebbero le carte della Banca d’Italia per sincerarsi se quella connessione è vera? Per comprendere se la speculazione fu causa o effetto? Distinzione di non poco conto, dopo tutto.
Il tribunale di Caltanissetta certifica verità deviate per via D’Amelio da parte di pezzi dello Stato. Una novità? Lino Jannuzzi, giornalista vero, fu coperto di querele, avendo sostenuto dal primo istante l’inattendibilità di Vincenzo Scarantino – drogato e schizofrenico – quale autista della 500 Fiat esplosa in via D’Amelio. “Possibile che Cosa nostra affidasse a un simile individuo il compito di trasportare la macchina con l’esplosivo?”. Pioggia di querele eccellenti le cui motivazioni meritano approfondimenti, così come la pubblica informazione connivente. Si indaghino soprattutto i patrimoni di costoro, dei loro eredi, di quanti comunque potrebbero averne beneficiato. Tre poliziotti sono indagati: avrebbero imbeccato Scarantino. Tre poliziotti e basta? Suvvia, è arrivato il tempo di chiarire il ruolo di tutti su Scarantino. Occorre capire come il depistaggio avvenne, chi lo ordinò, a quale disegno rispose, quali illeciti guadagni determinò. Si dimentica un dettaglio altrimenti banale: un delitto di tale portata non avrebbe senso se non procurasse un guadagno adeguato. La favola dei mafiosi impegnati nelle vendette va bene per le fiction televisive. Risparmiatecela. Se la magistratura non è in grado di indagare su sé stessa, si nomini una commissione parlamentare con ampi poteri requirenti.
Per inquadrare il 1992 e quanto esso comporta per l’Italia, si riaprano anche le indagini su Capaci. Lo suggerisce – dopo la sentenza di Caltanissetta – una logica elementare: i pezzi sporchi dello Stato è verosimile che abbiano operato prima, durante e dopo l’attentato. Prima per propiziarlo; durante per assicurarne il successo; dopo per cancellare le tracce. Curioso che nessuno ne parli. Oppure si vuole far credere che si sono svegliati solo per Paolo Borsellino? Si riaprano le indagini su Capaci, dunque. D’altronde lo suggerisce anche una rilettura tecnica dell’attentato.
I mafiosi fecero numerose prove di velocità, al fine di stabilire come e quando dare l’impulso radiocomandato, presumendo che Giovanni Falcone viaggiasse a 160-170 chilometri orari. È il primo errore. La Croma blindata ben difficilmente raggiungeva e manteneva tali velocità. Non di meno i mafiosi posero un rottame di frigorifero sul margine della carreggiata a 30 metri dall’esplosivo per dare l’impulso esplosivo quando l’auto di Falcone vi si fosse allineata, tenendo conto della velocità di reazione di Giovanni Brusca.
Centosettanta chilometri all’ora corrispondono a 47 metri al secondo. L’auto di Falcone copriva gli ultimi 30 metri in 0,63 secondi. L’ipotesi di una velocità pari a 170 chilometri all’ora era sbagliata per tre motivi. Uno lo abbiamo già detto: quel modello di Croma (blindata per di più) raggiungeva molto difficilmente quella velocità. Il secondo motivo è che Falcone non oltrepassava mai i 120 chilometri quando viaggiava con la moglie. Infine Brusca, certamente poco a suo agio con la fisica, trascurò che la velocità era una variabile del tutto incontrollabile da parte dei malviventi e quel frigo ai margini della carreggiata non dava alcuna certezza. Eppure, come abbiamo detto, Falcone fu puntuale all’appuntamento con la morte. Perché?
Il convoglio di Falcone era di tre auto, la sua e due di scorta, una avanti, l’altra dietro, a distanza serrata. La prima auto, finita sull’esplosione, fu proiettata a 60 metri di distanza; gli occupanti morirono sul colpo. L’auto di Falcone impattò sul muro esplosivo e l’autista sopravvisse poiché non guidava, era seduto dietro, a 70 centimetri dal giudice. Nella terza auto sopravvissero tutti.
Giovanni Falcone guidava l’auto, ricordiamolo. Secondo la testimonianza del suo autista, dovendo dare alla moglie le chiavi di casa, poste nello stesso mazzo di chiavi della Croma, scambiò in corsa la chiave di accensione, 300 metri prima del punto di scoppio. L’auto andò a motore spento, in folle, passando da 120 chilometri all’ora (33 metri al secondo) a non più di 90 chilometri all’ora. Falcone pertanto non coprì gli ultimi 30 metri in 0,63 secondi – come avevano invece previsto i mafiosi – impiegando almeno 1,2 secondi. Quando Brusca schiacciò il pulsante, mancavano quindi almeno 17 metri all’esplosione.
Se davvero l’esplosione fosse avvenuta quando Falcone si trovava a 17 metri, chiunque si intenda di esplosivi sa che quella distanza gli avrebbe consentito la salvezza. Lo prova che il suo autista, lo ripetiamo, si salvò perché era seduto dietro, a 70 centimetri di distanza dal giudice.
Nonostante l’ulteriore ritardo, causato dallo scambio di chiavi, Falcone impattò invece puntuale sullo scoppio. In conclusione, se la morte fu puntuale con Falcone, nonostante la velocità più bassa, prima a 120 chilometri all’ora, poi a 90 chilometri all’ora, non fu quindi Brusca a dare il vero impulso esplosivo.
Tale ricostruzione è avvalorata da un altro dato di fatto. Il giorno precedente, il 22 maggio, intorno alle ore 12.32 furono notati un furgone Ducato bianco e alcune persone che eseguivano lavori sul luogo dello scoppio. Furono deviate le automobili di passaggio, furono usati birilli per indirizzare il traffico. Nessuna ditta risultò dagli accertamenti.
Che cosa e come successe? Qualcuno manipolò il circuito elettrico di Brusca, di scarsa o nulla affidabilità, come abbiamo visto. L’esplosione fu determinata o da un altro impulso esplosivo inviato da un “altro” gruppo meglio attrezzato, oppure da due antenne che si “guardarono”, una sul circuito dell’esplosivo, l’altra sull’auto di Falcone.
La seconda ipotesi appare più verosimile, poiché il ritardo dell’esplosione ci fu comunque. Il circuito era doppio: uno di sicurezza, chiuso via radio un momento prima che Falcone scambiasse le chiavi; il secondo che innescava l’antenna a terra in attesa di quella sull’auto di Falcone. Lo scambio di chiavi, imprevedibile, determinò comunque un ritardo, nonostante le due antenne si siano connesse fatalmente. Così la prima auto, avendo rallentato, fu sul fornello esplosivo e Falcone, in ritardo ma non abbastanza, impattò sull’esplosione dopo un terzo di secondo.
Sulla scena di Capaci intervenne l’Fbi, che secondo Rino Formica dava il ritmo anche a Mani pulite. D’altronde, Peter Semler, console statunitense a Milano, aveva una certa dimestichezza con Antonio Di Pietro. Si riparta dunque con le indagini dall’auto di Falcone nelle ore precedenti la sua partenza per Capaci.
(www.pierolaporta.it)