Domenica 6 giugno 2021, Corpus Domini
TORNA IL GRANDE LIBRO DI UN GRANDE STUDIOSO
LUNEDÌ 7 P.V., UNA SERATA PISANA IN MEMORIA E IN ONORE DI MARCO TANGHERONI
Lunedì 7 giugno p.v. alle ore 18,45, al Giardino Scotto di Pisa, si presenta in nuova edizione a cura del “Corriere della Sera” uno dei più famosi e importanti libri di Marco Tangheroni, Commercio e navigazione nel medioevo, n. ed., Milano, Il Corriere della Sera, pp. 467, euri 8,90 con il quotidiano (collana Medioevo, n. 8). Saranno a presentarlo la dottoressa Martina Tonfoni, del “Corriere”, editor della collana Medioevo, e Franco Cardini coordinatore della collana stessa.
Marco Tangheroni (1946-2004) è stato e resta uno dei massimi medievisti e studiosi del Mediterraneo a livello europeo e mondiale: come tale riconosciuto da specialisti illustri quali Fernand Braudel e David Abulafia. La sua biografia è incredibilmente ampia, varia e sempre di altissimo livello. È stato studioso, docente, polemista limpido e coraggioso. Fu eccellente come studioso, migliore ancora come insegnante, straordinario come cittadino esemplare, ineccepibile come padre di famiglia, inarrivabile per generosità e bontà d’animo. Entrato in blocco renale all’età di circa vent’anni, visse eroicamente i restanti della sua purtroppo non lunga vita come dializzato, trovando il tempo tra cure dolorose e lunghe degenze ospedaliere di animare anche accettando di sobbarcarsi pesanti incarichi direzionali le università prima di Cagliari e poi di Pisa, senza mai dimenticare la sua prediletta Barcellona e la sua adorata Aragona-Catalogna. Dal momento che questo è l’Anno Dantesco, va aggiunto che fu anche cultore raffinato e rigoroso della Commedia e rimarchevole dantista: sarebbe forse opportuno raccogliere in volume i suoi studi al riguardo.
Tra i suoi amici – ne ebbe di carissimi, e di tutti i possibili indirizzi politici e culturali – quelli che sono anche suoi fratelli in Cristo si chiedono se non sarebbe il caso di avviare seriamente un discorso che potrebbe portarlo alla canonizzazione.
Di lui offriamo un breve profilo.
Marco Tangheroni, nato a Pisa nel 1946, si affacciò alla ricerca universitaria ancora studente, in Sardegna dove allora risiedeva, alla severa scuola di Alberto Boscolo. Stampò appena ventenne e non ancor laureato il suo primo saggio, riguardante appunto la grande isola mediterranea; si laureò due anni dopo, e dalla sua tesi uscì un breve ma importante volume dedicato a un’indagine genealogico-prosopografica il taglio del quale risultò, per i tempi, originale e innovativo.
Già con questi primi studi, e attraverso di essi, s’andava delineando il profilo di quelli che sarebbero rimasti i costanti principali oggetti d’interesse scientifico del Tangheroni: Pisa e la Toscana, la Sardegna, la Corona d’Aragona – e quindi la Spagna catalano-aragonese –, il Mediterraneo. Era tutt’altro che un giovane studioso borné: e l’avrebbe dimostrato più tardi, nel suo lungo periodo pisano, insegnando in vari anni accademici non solo la “sua” Storia medievale, ma anche, a più riprese, discipline che andavano dalla Storia del commercio mediterraneo alla cultura letteraria: era, fra l’altro, raffinatissimo dantista e organizzatore di belle Lecturae Dantis. Ma, al di là dei suoi vasti interessi e della sua insaziabile curiosità, sosteneva con rigore inflessibile la necessità che uno studioso disponesse d’un suo campo di studi specialistici preciso e analiticamente approfondito.
Aveva da poco terminati gli studi universitari e si era appena sposato quando, nel dicembre del 1969, fu colto dalla crisi renale che avrebbe segnato l’avvìo della sua lunga malattia dalla quale non gli fu possibile uscire mediante una cura chirurgica. Ma, a considerare la sua biografia, non s’indovinerebbe mai il suo stato di sofferenza. Dal 1968 al 2004 si susseguono trentasei anni durante i quali non c’è un anno in cui egli non abbia pubblicato un volume, o saggi, o rassegne, o non abbia curato un’opera a più mani o gli Atti di un convegno o un catalogo di esposizione. Si precisava intanto, con il passaggio nell’Università di Pisa e l’avvìo della collaborazione con colui che della medievistica pisana era da tempo l’indiscusso dominus loci, Cinzio Violante, del quale egli fu a lungo prima allievo e quindi collega, la sua particolare visione della storia.
Non si può dire che seguisse, sul piano della critica storica, una “scuola” precisa: e tantomeno una qualche “ideologia”. Era anzi molto avverso a qualunque dimensione propriamente ideologica, dalla quale si sentiva estraneo come cattolico e che gli sembrava pericolosa in quanto le ideologie condizionano e compromettono il lavoro dello storico, la “libertà dello storico”, a dirla con un’espressione cara a un illustre studioso che del Tangheroni fu amico ed estimatore, Mario Del Treppo. Tale lontananza dalle ideologie lo teneva fra l’altro al sicuro rispetto a tentazioni da tesi deterministiche e teleologiche di sorta: convinto che la storia avesse uno scopo e una logica di tipo metafisico e trascendente, le negava qualunque “fine” e “ragione” di tipo immanente. Al tempo stesso, era fiero avversario di qualunque proposta “attualizzante”: sosteneva anzi che condizione preliminare alla comprensione della complessità storica era accettarne la distanza temporale, la diversità del passato rispetto al presente, la specificità irripetibile di ciascun periodo e la necessità di analizzarlo in sé e per sé e di per se stesso, con la piena coscienza della sua irriducibilità. Il Tangheroni puntava non già alla costruzione più o meno arbitraria di un “progresso” storico, bensì alla comprensione di un “processo” che andava compreso – come avrebbe detto David S. Landes – con tutti i suoi “se” e i suoi “ma”, in quanto nulla era “necessario” nella storia prima di essere in affetti accaduto.
La ricerca sulle famiglie pisane e sui loro affari commerciali lo indusse presto a passare allo studio della politica comunale e della civiltà comunale nel suo complesso: ne scaturì, nel 1973, il libro Politica, commercio e agricoltura a Pisa nel Trecento, nel quale si coglie netta l’influenza da una parte di un altro Maestro che egli aveva incontrato a Pisa, Emilio Cristiani, e dall’altra dello storico italiano al quale si può dire che egli più debba sul piano metodologico e concettuale: Gioacchino Volpe. Del grande storico abruzzese egli ritenne soprattutto la lezione di concretezza, di adesione spregiudicata ai documenti, di sensibilità per la complessità e la mutevolezza delle strutture sottostanti alle istituzioni storiche, di attenzione alle dinamiche, ai rallentamenti, alle accelerazioni. Riguardo a ciò, per quanto l’autocitazione sia riprovevole, credo non inopportuno ripetere un mio giudizio di qualche anno fa, al quale mi sembra di poter ancor aderire: “Il ‘volpismo’ tangheroniano recuperava in effetti con molta libertà la grande lezione della scuola economico-giuridica: ma l’arricchiva grazie al costante impegno esegetico e storiografico in una direzione molto responsabilmente ed esplicitamente impegnata in senso cattolico, su una linea che molto doveva ad autori come Gilson e Marrou”. Sappiamo che Cinzio Violante gradì molto il fatto che Ruggiero Romano, citandolo come felice eccezione positiva nel contesto d’un ben poco pietoso pamphlet dedicato agli storici italiani, avesse detto che si trattava certo di uno studioso cattolico, che però quando scriveva di storia non mostrava affatto la sua appartenenza religiosa. Romano aveva inteso in tal modo elogiare Violante, che naturalmente l’aveva capito e ne era rimasto soddisfatto e orgoglioso; credo che Marco Tangheroni, se un apprezzamento del genere fosse mai stato rivolto a lui, non lo avrebbe accolto altrettanto bene.
D’altronde, l’ambiente pisano gli proponeva anche molti altri stimoli. Limitandoci solo ad alcuni tra i suoi colleghi ed amici più stretti, vanno ricordati oltre al Cristiani e a Maria Laura Cristiani Testi almeno Bruno Casini, Chiara Frugoni, Michele Luzzati, Mario Nobili, Gabriella Rossetti, Amleto Spicciani, Mario Mirri, cui si sarebbero più tardi aggiunti Giuseppe Petralìa, Maria Luisa Ceccarelli Lemut, Mauro Ronzani, Silio P.P. Scalfati, Simone Collavini e tanti altri (cito alla rinfusa, scusandomi per i molti che non riesca adesso a ricordare); ma accanto al Tangheroni si disponeva tutto un ampio, vivacissimo ambiente di allievi a loro volta destinati a far ingresso ai differenti livelli dell’insegnamento universitario. I nomi da ricordare, tra allievi propriamente suoi, scolari del prestigioso team dei docenti ordinari pisani compresenti nell’ultimo trentennio circa e altri che si erano giovati del suo insegnamento prima pisano, quindi sassarese e poi nuovamente pisano nonché per lunghi periodi barcellonese, sarebbero molti: vanno ricordati quanto meno i “fedelissimi”, collaboratori preziosi ma anche amici prediletti, da Gabriella Graziella a Olimpia Vaccari, da Laura Galoppini a Cecilia Iannella, ai sardi come Maria Eugenia Careddu, Giuseppe Meloni, Giuseppina Simbula. È bene che l’elenco si fermi qui, ad evitare dimenticanze anche gravi: perché Marco Tangheroni ebbe moltissimi allievi, alcuni condivisi anche da altri Maestri; e a dover render conto sul serio delle sue relazioni sia scientifiche, sia intellettuali, sia umane – ma per lui le cose andavano quasi sempre di pari passo – si dovrebbe ricordare gran parte del mondo accademico non solo pisano, ma anche italiano ed europeo del lungo periodo compreso tra i primi Anni Sessanta e l’inizio del nuovo millennio. Tuttavia, non si possono tacere almeno i colleghi di Barcellona, che per lui era davvero, e profondamente, una seconda patria: da Salvador Claramunt a José Enrique Ruiz Doménec a Rafael Conde.
Era, e si vantava di essere, uno storico eclettico, addirittura “impuro” sotto il profilo dei referenti metodologici e delle “scuole”. La celebre frase di Marc Bloch, “lo storico è come l’orco della fiaba: dovunque senta odore di carne umana, sa che lì c’è il suo pasto”, era tra i suoi aforismi preferiti: e per le teorie e per i metodi storici, come per gli amici, era del tutto spregiudicato: sceglieva quelli che voleva lui e che gli piacevano ascoltando sempre i pareri di chiunque, ma senza accettare che nessuno di essi limitasse la sua libertà di scelta. Certo, le nuove tendenze storiografiche affioranti tra anni Sessanta e Anni Settanta in Europa e negli Stati Uniti lo avevano interessato e incuriosito, per quanto egli fosse per temperamento e per convincimento profondo aperto a tutte le istanze, ma refrattario alle mode: tuttavia, come tutti i giovani storici di quegli anni, non fu sordo alla voce della “scuola delle Annales” e ampliò i suoi interessi fino a introdurvi con decisione l’archeologia – da qui la sua amicizia e la sua collaborazione con un altro straordinario studioso anch’egli purtroppo scomparso immaturamente, Riccardo Francovich – e la demografia storica, una disciplina che gli consentì un approccio nuovo rispetto all’area mediterranea, specie in rapporto alla crisi di metà Trecento con la sua problematica (le dinamiche del popolamento, i “villaggi abbandonati”, le oscillazioni dei prezzi, la vita quotidiana e via discorrendo). Va anche citata la sua amicizia, fondata soprattutto su reciproca stima, per uno studioso molto diverso da lui per indole, gusti, indirizzi e interessi, Giuseppe Sergi. Le loro conversazioni erano sempre animate ma anche cordiali, salvo su un punto. Sergi era ed è, come diciamo dalle nostre parti, Gobbo”, vale a dire juventino. Su ciò Tangheroni non scherzava e non concedeva nulla: casa sua era esplicitamente “dejuventizzata” e sulla porta del suo studio faceva bella mostra di sé uno scudo juventino a righe bianco-nere correttamente trattato “alla medievale”: cioè rovesciato, con la punta all’insù, come si faceva dopo i tornei o le battaglie per gli scudi dei cavalieri che si fossero dimostrati vili o felloni.
Importante per Marco Tangheroni fu il 1980: un anno bisestile, e pertanto da lui – non insensibile a qualche suggestione scaramantica – abbastanza temuto, e che in effetti si sarebbe risolto in parecchi di quelli che egli definiva “momentacci”: in uno di essi, molto duro sotto il profilo dei suoi problemi medici, gli fu sostegno affettuosissimo, tra gli altri, Gabriella Rossetti, una delle personalità a lui costantemente più vicine. Ma appunto il 1980 fu l’anno in cui egli vinse la cattedra di Storia medievale in un concorso non facile: e una dei commissari, Gina Fasoli, si sarebbe poi a lungo vantata di essere stata sua grande sostenitrice. Ma alle difficoltà che la malattia l’obbligò ad affrontare in quel periodo si aggiunse il disagio dell’obbligo di raggiungere la sua nuova sede. Sarebbe in effetti stata libera una cattedra fiorentina, ch’era stata bandita ma dove colui che si sarebbe potuto ritenere il “candidato locale” non aveva superato la prova concorsuale. Senonché la Facoltà fiorentina depositaria di quella cattedra, dopo una decisione difficile – alla quale non furono affatto estranei poco onorevoli e men ancora corretti motivi extrascientifici; e nonostante fosse ben conosciuto anche il suo stato di salute, che una destinazione come quella fiorentina avrebbe alleviato – preferì al Tangheroni uno studioso peraltro a sua volta di grande valore, Paolo Delogu. Di conseguenza, al Tangheroni non restava che ripiegare sulla per lui disagiata cattedra sassarese. D’altronde, va detto che la destinazione sarda a lui, che in Sardegna aveva risieduto e studiato, non dispiacque: non solo vi si trovò bene ma, appena arrivato, si vide affidare – a trentaquattro anni! – la presidenza della Facoltà, che tenne in modo esemplare lasciando un’ottima memoria del suo passaggio.
La residenza sassarese lo ricondusse a quegli studi sardi che peraltro non aveva mai del tutto abbandonato, seguendoli magari attraverso l’osservatorio della storia pisana e di quella aragonese. Le competenze nel campo degli studi archeologici e insediativi, che aveva frattanto messo a punto, gli consentirono di affrontare una ricerca di storia veramente à part entière che approdò a uno dei suoi libri più felici e più celebri: la ricerca sulla città di Iglesias e le sue miniere argentifere, il nucleo dell’idea originaria della quale si deve forse ricercare nel saggio del Volpe sulle miniere di Montieri nelle “Colline metallifere” del sud-ovest toscano.
L’ampiezza, la varietà e al tempo stesso la coerenza delle sue esperienze di ricerca gli consentivano ormai di superare in breccia qualunque residuo pericolo di tipo localistico, nel quale aveva temuto per lungo tempo d’incappare: si era ormai affermato a livello non solo italiano ma europeo come uno dei pochi studiosi in grado di padroneggiare con lucidità e ampiezza di orizzonti il complesso intreccio di storia istituzionale, politica, economica e culturale. L’oggetto dei suoi studi era ormai il Mediterraneo in tutta la sua ampiezza, per quanto continuasse a privilegiarne le aree centro-occidentali. Era comunque entrato in quell’àmbito di studiosi nei quali si potevano annoverare personalità quali Eliyau Ashtor, Roberto S. Lopez, David Herlihy, David Abulafia – tutti concordi infatti nello stimarlo altamente – e non moltissimi altri. Dalla sua meditazione ormai di ampio raggio e di lungo periodo uscirono quasi a ruota due nuovi libri: quello dedicato al Medioevo tirrenico e l’ariosa, robusta sintesi del 1996 sul commercio e la navigazione nel medioevo, un libro di straordinarie lucidità e chiarezza, nel quale il severo e rigoroso studioso riesce a dimostrare anche eccellenti qualità di scrittura e a far passare nella severa pagina scientifica anche un po’ di quello humour che chi aveva assistito alle sue lezioni e alle sue relazioni congressuali ben conosceva.
Viste le sue difficili condizioni fisiche, ci si sarebbe aspettati – e sarebbe stato comprensibile – di vederlo gradualmente ritirarsi quanto meno dagli aspetti più gravosi della vita pubblica per dedicarsi magari con migliore riserva d’energia allo studio. Invece, sempre lottando con la malattia, non si risparmiava: ed era generosissimo quanto al suo tempo, che poneva costantemente al servizio dei colleghi e degli studenti. Fu prorettore e membro del consiglio d’Amministratore dell’Università di Pisa e per due volte direttore del Dipartimento di Medievistica. Intanto, si dedicava anche – sia pure à sa manière – alla vita politica: candidato sindaco alle elezioni amministrative del 1994, quindi consigliere comunale di minoranza e al tempo stesso, per delega comunale, amministratore del Teatro Verdi. Pochissimi giorni prima della crisi che lo avrebbe condotto a lasciare questa vita, era stato eletto direttore dell’unificato Dipartimento di storia, con notevole e unanime soddisfazione dei colleghi: e, per quanto ormai dovesse servirsi sempre più spesso del supporto della sedia a rotelle – alla quale guardava con ironia quasi amichevole –, era assiduo nel lavoro ed entusiasta della nuova sfida. Come del resto sembra càpiti a tutti i grandissimi, il silenzio e la vita appartata giovavano certo ai suoi studi: ma più ancora giovavano loro gli stimoli d’una vita intensa e attiva, che sottraeva tempo moltiplicando però in cambio interessi, informazioni, sollecitazioni. In queste impegnative e sovente dure circostanze gli fu sempre di grande conforto l’affettuosa vicinanza della moglie Patrizia, delle figlie, dei molti familiari e degli amici più cari.
Comunque gli ultimi mesi del 2003, dopo un’estate trascorsa in una lunga degenza ospedaliera, furono per lui pesantissimi: e forse decisivi nel determinare la sua precoce dipartita. Ma pieni d’interesse e di passione. Gli era stato affidato il coordinamento della grande mostra storica su Pisa e il Mediterraneo: davvero “un lavorone, in un momentaccio”, com’egli soleva dire; ma anche un grande successo, del quale sono testimonianza sia l’imponente catalogo, sia una quantità di studi preparatori e accessori alla mostra che uscirono in quell’anno e anche nel successivo, a firma sua o di alcuni suoi allievi e collaboratori, qualcuno purtroppo ormai postumo.
In quest’ultima categoria, un posto a parte spetta ad un discorso che definire “di circostanza” sarebbe formalmente corretto, ma metodologicamente impreciso e concettualmente ingeneroso. Si tratta del testo, ignoro se redatto in forma definitiva, del discorso d’apertura del seminario Il Mediterraneo occidentale nell’alto Medioevo (secoli VIII-X): recenti acquisizioni e nuove prospettive di ricerca, che si svolse a Pisa tra il 17 e il 19 gennaio del 2003 in evidente concomitanza con la preparazione della grande mostra. Cecilia Iannella, che aveva rintracciato – ignoro se da sola o con l’aiuto di altri – il manoscritto Della Storia tra le carte inedite del suo Maestro, lo pubblicò facendolo precedere da una sobria, breve nota della quale richiamo la parte conclusiva che ne esprime come sarebbe difficile far meglio il senso e il significato: “…un prezioso ed inatteso memorandum, profondamente pervaso dalla straordinaria personalità dell’Autore come uomo e come storico, che ci permette di ritrovare le molte sfumature dell’umanissimo spirito di Marco Tangheroni: l’apertura culturale e intellettuale, la curiosità, l’affetto senza preclusione per coloro che aveva incontrato (i maestri, i colleghi, gli allievi), l’ironia con cui sempre guardava alla vita e svolgeva l’amatissimo lavoro. Di ciò Marco Tangheroni ha vissuto, anche di ciò queste pagine parlano”.
Avevo letto – e credevo di averlo fatto con la massima attenzione – questo prezioso inedito mentre, insieme con l’amica Maria Luisa Ceccarelli Lemut e grazie alla disponibilità d’un altro grande amico mio e di Marco, l’editore Pierfrancesco Pacini, stavo organizzando i due volumi in memoriam dell’Amico scomparso. L’avevo trovato straordinariamente denso e interessante, animato da una forte, quasi ardente volontà di sintetizzare i risultati raggiunti e di programmare gli obiettivi futuri: ma ora, riletto a distanza di parecchi mesi e nelle prospettive delle ricerche intanto avanzate (qualcuna già pubblicata) sulla base di quelle sollecitazioni o ad esse comunque collegate, esso mi appare qualcosa di ben più importante, oserei dire decisivo.
Il richiamarne qualche aspetto mi sembra fondamentale. Certo, bisogna tener conto che si è dinanzi a un testo che, nelle intenzioni dell’Autore, era forse ancora provvisorio e che sarebbe stato suscettibile di parecchi cambiamenti forse profondi. Ma lo stile è quello di qualcosa che va avviandosi alla conclusione e alla stampa, non di un insieme di appunti: ritengo pertanto non avventate né illegittime alcune considerazioni che lo trattano come uno studio già concluso nelle sue linee di fondo.
Abituato a convivere con una malattia tanto grave quanto dolorosa fin da quando aveva poco più di vent’anni, Marco Tangheroni non mancava mai di porsi, in qualunque cosa facesse, dicesse o scrivesse, il problema del momento nel quale avrebbe dovuto lasciare la sua attività: il che vuol dire, per uno studioso, abbandonare a metà strada o comunque imperfetto o inconcluso un qualche lavoro; e più profondamente ancora significa doversi in ogni istante porre il problema dell’eredità che avrebbe lasciato ai colleghi e agli allievi, del messaggio definitivo che avrebbe dovuto affidare a chi avrebbe proseguito il suo lavoro e a quanti dopo di lui sarebbero venuti. È una sorta di “preventivo-consuntivo” che tutti gli studiosi cominciano prima o poi a fare, con l’avanzar dell’età: e che in parecchi casi (non, purtroppo, nel suo) prosegue per moltissimi anni.
Nelle pagine pubblicate dalla Iannella si ritrova intatto il Marco Tangheroni scientificamente più maturo, accademicamente più autorevole, umanamente più ironico e simpatico: non senza, e va detto, quella punta di cara, amabilissima civetteria che metteva sempre nelle cose che faceva e che forse – in quella morale cristiana ch’egli con grande austerità e coerenza seguiva – sarà anche stata un peccato veniale, ma che certamente faceva parte della sua straordinaria umanità. La prolusione al seminario del 2003 era un punto d’arrivo di un lavoro di ricerca da lui avviato quasi quarant’anni prima e quindi fedelmente proseguito senza soluzioni di continuità, e non c’erano state fasi di peggioramento (frequenti) della sua malattia né periodi d’intenso impegno civico o amministrativo in grado di fargli abbandonare quella ch’era, insieme con l’affetto profondo per la moglie e le figlie, la principale ragione della sua vita. Ma essa costituiva anche un momento di sintesi e di riflessione per ulteriori ricerche, l’occasione per un preventivo denso e ambizioso. Per questo egli ricordava come la ragione per quel nuovo seminario gli fosse stata fornita da un altro, da lui condotto nel 1995 insieme con Giuseppe (“Pino”) Petralìa: il tema di quel seminario, organizzato – a giudizio del Tangheroni stesso – in modo forse fin troppo informale, riguardava l’influenza del commercio a lunga distanza sullo sviluppo delle economie regionali del tardo medioevo, e partiva da un’articolata e approfondita riflessione sulle tesi di Lorenzo Epstein della London Economic School sulla perdita d’importanza del commercio a grande distanza a partire dalla metà circa del Trecento e sullo sviluppo delle economie regionali nonché sulla capillarizzazione delle economie di scambio. Su tali tesi, ricorda il Tangheroni, “personalmente non ero d’accordo, sulla base del magistero indiretto di Federigo Melis e delle mie personali ricerche”. Lo sviluppo delle reazioni provocate nel Tangheroni dalle tesi dello Epstein sarebbe stato davvero esemplare, sotto il profilo del metodo scientifico e dell’onestà intellettuale: ripetuti dialoghi fra i due studiosi, qualcuno anche originato dal caso; quindi un’occasione di lavoro comune tra i due e altri colleghi, sollecitata ma neppure troppo curata sul piano organizzativo e formale. Al seminario erano intervenuti Immanuel Wallerstein, proprio lui, quello dell’“economia mondo”, nonché specialisti del valore di Michel Balard, David Abulafia, Maurice Aymard, Pedro Chalmeta, Michel Zimmermann, Cristina La Rocca, Marco D’Agostino, Stefano Medas, Gherardo Ortalli, Stefano Bruni, Gian Maria Varanini, Gabriella Rossetti ed altri. Accanto a loro, un gruppo di allora giovanissimi studiosi pisani o comunque di formazione pisana dei quali avremmo sentito più tardi parlare e più ancora sentiremo parlare in futuro: tra loro, Ignazio Del Punta, Elisa Soldani, Alma Poloni, Giovanni Ciccaglioni, Francesca Frugoni, Michele Campopiano, Michela Diana e altri; oltre naturalmente a Catia Renzi Rizzo, corresponsabile in prima persona del seminario.
Così, quasi per caso, attorno al Tangheroni e al Petralìa si era riunito il Gotha degli studiosi più noti della società e dell’economia mediterranee del medioevo e della prima età moderna, insieme con un bouquet di giovani che si affacciavano al “mestiere” di storico: solo per scambiarsi opinioni scientifiche e per migliorare il lavoro rispettivo e quello comunitario, senz’altra preoccupazione né accademica, né editoriale. Un modello di che cosa potrebb’essere l’Università, di che cosa potrebb’essere la ricerca, di come si dovrebbe lavorare se tutti i membri della respublica studiorum condividessero questi livelli di serietà, di probità scientifica, di reciproca disponibilità, d’intelligenza: e non oso nemmeno pensare a quanto la generalizzazione di questi modi d’agire e di pensare avrebbe giovato a tutti, e quante e quali siano state le occasioni andate perdute a causa della miopìa e della stupidità di troppi fra noi.
Nei nostri colloqui della fine del 2003, a poco tempo dalla sua scomparsa – ma eravamo talmente abituati a saperlo sofferente che in realtà nessuno di noi pensava sul serio alla possibilità effettiva d’una sua prossima dipartita –, il Mediterraneo era il centrale protagonista. La nuova fase dei drammatici rapporti internazionali, avviatasi all’indomani degli attentati di New York e di Washington dell’11 settembre 2001 – eventi che peraltro, come ho ricordato, interpretavamo in modo molto differente tra noi –, gli faceva sentire prossimo il momento nel quale il mare sulla cui riva era nato e che amava tanto sarebbe tornato a imporre la sua presenza anche nel quadro geopolitico internazionale: per questo dedicava grande attenzione al lavoro della Conférence Permanente des Villes Historiques de la Méditerranée, un sodalizio all’interno del quale si erano situati i rapporti tra Pisa e la città algerina di Bejaïa, l’antica “Bugia”, nella quale Leonardo Fibonacci aveva soggiornato e imparato i segreti del calcolo custoditi dagli arabi. Aveva seguito con affetto il mio lavoro, tanto più modesto del suo, sui rapporti politici e culturali tra Europa e mondo musulmano e molto amichevolmente mi rimproverava per aver disertato, sia pure perché impegnato altrove, gli incontri da lui organizzati e nei quali quei rapporti, esaminati dal punto di vista socioeconomico (ma non solo), erano sovente centrali. La nostra collaborazione aveva avuto momenti di grande intensità: insieme avevamo dato vita alla collezione di fonti diaristiche di pellegrinaggio denominata “Corpus Italicarum Peregrinationum”, pubblicata dall’Editore Pacini, con il quale avevamo edito anche due grossi volumi sulla guerra e le istituzioni militari toscane tra medioevo e Rinascimento. E ho il vanto di essere tornato a lavorare intensissimamente al suo fianco durante il lavoro preparatorio della grande mostra pisana che fu davvero il suo “canto del cigno”, e che forse tolse, per la fatica e le preoccupazione, qualche giorno alla sua già breve esistenza. Ma il catalogo di quell’evento è lì, monumentum aere perennius al suo valore di studioso e alla sua passione di cittadino (“Viva il popolo di Pisa, per la vita e per la morte!”).
I progetti erano ancora molti, dopo quel traguardo: ma il suo tempo si andava accorciando, ed egli lo avvertiva. L’ultima volta che ci vedemmo, e non sapevamo fosse tale, mi disse una cosa che mi colpì: “Sono stanco”. Non l’avevo mai sentita da lui. Certo, poteva ben dire – e gli capitava di dirlo spesso, come càpita a tutti di dire cose del genere – di avvertire la stanchezza di un certo troppo gravoso impegno, di una troppo lunga indagine. Ma quella volta, era diverso. Me ne resi conto alcune settimane dopo, ripensando a quel colloquio mentre lo accompagnavo fino al luogo nel quale adesso riposa, alle pendici dei suoi monti pisani, quel pomeriggio del febbraio 2004. Ora, si tratta di proseguire il suo lavoro.