Minima Cardiniana 332/3

Domenica 20 giugno 2021, San Metodio

MA INSOMMA, CHE COS’È IN REALTÀ (E CHE COS’E OGGI) L’ISLAM?
FRANCO CARDINI
L’ISLAM NEL XXI SECOLO (E ANCHE UN PO’ PRIMA)
Visto il desolante spettacolo offerto da troppi tra i partecipanti alla Tavola Rotonda di “Rete 4”, che ha fornito sull’ignoranza e la malafede generalizzate a proposito dell’Islam un quadro allarmante e desolante, richiamiamo qui alcuni dati di fondo, dal Profeta (570-632) all’attentato contro la redazione di “Charlie Hebdo” (2015). Nei prossimi numeri, Vi proporremo qualche altra “scheggia” relativa alla storia di quella città e di quella cultura che alcuni luminari della nostra politica e alcuni fini esponenti della nostra cultura hanno definito “infame”, “vergognosa”, “barbarica”.

Le basi della questione
Noi diciamo l’Islam. Più corretto sarebbe forse parlare degli Islam. D’altra parte, anche il cristianesimo e l’ebraismo si potrebbero e forse si dovrebbero declinare al plurale. Vanno comunque anzitutto richiamati, nell’interesse della chiarezza di queste brevi note, alcuni dati fondamentali. La comunità dei fedeli musulmani, l’umma, si è scissa fino dal VII secolo in tre fondamentali confessioni – la sunnita, la sciita e la kharigita – a loro volta distinte in scuole e in sette.
Oggi la maggioranza dei musulmani, pari a circa l’85% dei credenti, si dichiara “sunnita”: si riconosce cioè nella sunna, la “tradizione”, i cui strumenti canonici sono il Corano – il “Santo Libro” contenente la Parola di Dio: increato e coesistente con Lui – e le migliaia di hadith, cioè di “racconti” relativi ai dicta e ai facta del profeta Muhammad, raccolti da numerosi testimoni. Gli “sciiti” traggono invece la loro origine dalla shi’a, il “partito” di ‘Ali, genero e cugino di Muhammad – considerato imam infallibile e capostipite di una serie di imam a loro volta infallibili mediatori tra Dio e gli uomini –; essi riconoscono il Corano ma rifiutano l’autorità degli hadith e attendono la rivelazione dell’ultimo imam, quello nascosto (il mahdi), alla fine dei tempi. Dalla shi’a si separò all’indomani della battaglia di Siffin del 657 la fazione puritana dei kharig, i “quelli che sono usciti”: secondo i “kharigiti” il ruolo di khalifa, “califfo”, capo spirituale della comunità dei credenti e vicario del profeta, va egalitariamente attribuita al migliore fra i credenti, qualunque siano la sua razza e il suo rango.
I sunniti si distinguono in quattro principali scuole giuridico-teologiche: i “malikiti”, forti soprattutto nel Maghreb; gli “shafi’iti”, localizzati nell’Africa orientale; gli “hanbaliti” nella penisola arabica; gli “hanafiti” tra Vicino Oriente e Asia centrale. Ma da un’antica scuola giuridica originariamente definita come “razionalista” e viva nel IX secolo, i “mu’taziliti”, è derivato tra XIX e XX secolo il movimento riformista-radicale della salafyya (da salaf, “ritorno alla religione delle origini”), che nello scorcio tra i due secoli si coagulò attorno all’imam Muhammad ‘Abduh e al suo riformismo (ishlah) espresso dall’università coranica di al-Azhar in Egitto e mirante alla restaurazione della purezza della fede. Vanno inoltre tenuti presenti i “wahhabiti”, così chiamati dal loro fondatore Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792), che preferiscono definirsi al-muwahidùn (“seguaci dell’unicità divina”), insistono sulla necessità di un’adesione letterale al Corano e agli hadith e combattono radicalmente qualunque forma di cedimento nei confronti del carattere rigorosamente monoteista dell’Islam, secondo un atteggiamento dottrinale affine agli almohadi maghrebino-iberici (la parola che designa il quale è, appunto, l’ispanizzazione di al-muwahidùn). I wahhabiti avversano altresì, considerandoli un cedimento al politeismo e all’idolatria, qualunque tipo di culto dei santi, di musica e di danza.
Nonostante il suo originario carattere rigorosamente misoneista, il wahhabismo è fino dal Settecento collegato alla dinastia fondata dall’emiro Muhammad Ibn Sa’ud e perciò in Occidente detta “saudita”, che dagli Anni Venti del secolo scorso domina l’Arabia detta appunto “saudita” e che spregiudicatamente utilizza gli strumenti della tecnologia e della finanza moderne.
Gli sciiti, dal canto loro, si riconoscono principalmente nella corrente “duodecimimana”, che riconosce una serie di dodici imam (da ‘Ali fino alla figura messianica di Muhammad al-Mahdi, scomparso nell’874, mai morto e che tornerà alla fine dei tempi), forti soprattutto in Iran (il 90% della popolazione) e in Iraq (più del 50%). I “settimimani” ammettono invece una serie di soli sette imam precedenti il mahdi: tra essi vanno ricordati gli “zaiditi” dello Yemen, gli “ismailiti” che divinizzano la figura dell’imam e lo considerano il depositario del senso segreto (batin) del Corano. Tra i movimenti “ismailiti” più noti vanno ricordati i “carmati” del X secolo; i “fatimidi” fondatori di un califfato sciita nei secoli XI-XII; i “nizari”, molto noti anche in Europa tra XII e XIII secolo come “setta della Assassini” e guidati oggi dall’agha khan che ha la sua sede privilegiata nella vallata dello Humza tra India e Pakistan ed è leader riconosciuto di circa 300.000 fedeli presenti principalmente nel subcontinente indiano. Collegati agli “ismailiti” sono i “drusi” il capostipite dei quali, il califfo fatimide al-Hakim, si presentò quale incarnazione della Divinità ed è venerato come mahdi: le loro credenze presentano forti elementi neoplatonici (ad esempio l’idea di metempsicosi) e le loro comunità sono oggi sparse tra Siria, Israele e soprattutto Libano. Dall’imamismo duodecimano si separò fino dal IX secolo il movimento dei “nusayri”, o “alawiti”, caratterizzato da una dottrina a carattere iniziatico che contiene elementi desunti dal cristianesimo e dallo zoroastrismo. Insediati in Siria soprattutto attorno alla città di Lattakia, gli “alawiti” vi fondarono nel 1922 uno stato autonomo riconosciuto sino alla fine del “mandato” francese su quella regione e ancor oggi vi hanno un ruolo (“alawita” è la famiglia del rais Assad). Comunità sciite, per la maggior parte duodecimimane, sono presenti in Azerbaigian, nel Bahrein, in Libano, nello Yemen e nella comunità degli hazara in Afghanistan (due milioni e mezzo circa di persone, di origine etnica uraloaltaica, insediate nelle montagne del centro del paese). Quanto ai kharigiti, essi sono ancora presenti soprattutto nel Maghreb (a Tlemcen e in Algeria).
L’Islam contemporaneo è passato tra XX e XXI secolo attraverso una serie di mutamenti – e, in qualche caso, di sconvolgimenti – che possono essere identificati prima in un tutto sommato breve periodo a cavallo tra secondo e terzo decennio del Novecento, quindi in due avvenimenti-chiave: anzitutto l’immediato primo dopoguerra, quando da una parte le “rivoluzioni laiche” ed “occidentalizzanti” nell’impero ottomano e in quello persiano, trasformatisi rispettivamente in Turchia e Iran (in Turchia la ferrea volontà di Mustafa Kemal impose l’abolizione del califfato sunnita tenuto dagli osmanli), dall’altra il radicalizzarsi a cominciare dall’Egitto e dall’India di movimenti a carattere pietistico-politico (che dagli Anni Settanta si prese l’abitudine d’impropriamente definire come “fondamentalisti”, mentre oggi si preferisce il termine “islamisti” ) che chiedevano il “ritorno al puro Islam”, determinarono una nuova forma di divisione all’interno dell’umma tra “estremisti religiosi” e “moderati” che andò a sommarsi a quella, plurisecolare, tra summa e shi’a diffondendosi in entrambi quegli àmbiti e in parte mutandone i reciproci rapporti; poi la “rivoluzione islamica” iraniana proclamata a Teheran nel febbraio del 1979 dall’ayathollah Ruhullah al-Musavi Khomeini; infine gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti d’America, segnatamente a New York e a Washington, che segnarono l’inizio dell’epoca dominata nella politica e nella propaganda americana dal war against terror, con episodi drammatici come gli attentati a Londra e a Madrid e le invasioni in Afghanistan e in Iraq condotte da due differenti coalizioni militari in entrambi i casi decise e guidate dal governo della Casa Bianca, in quegli anni guidato dal presidente George W. Bush jr.
Già nel corso del Novecento, ma con maggior chiarezza dal 1979 e ancor più dal 2001 in poi, si era avuta l’impressione – in una qualche misura corrispondente a una pur semplificata realtà – che il mondo musulmano si andasse scindendo tra quanti ritenevano che ormai, dopo un complesso secolare dialogo caratterizzato da scambi e da scontri, si potesse avviare attraverso un rinnovato e più franco dialogo tra l’Occidente/Modernità e l’Islam un pur lento e difficile processo di confronto e di osmosi che avrebbe condotto all’affermazione di un Islam “liberale”, e quanti invece erano convinti che solo tornando a guardare a se stessa e a riscoprire i suoi antichi e originali caratteri la compagine dei credenti nella Legge coranica avrebbe saputo attingere a un’autentica rinascita, risollevandosi da quell’eclisse avviata nel Sei-Settecento e da molti ritenuta irreversibile.
Si era intanto verificato un altro fenomeno lento ma qualificante, radicato nei secoli ma oggetto di una forte accelerazione negli ultimi decenni: il deep core del mondo musulmano, nato tra Vicino Oriente e mondo mediterraneo, si era andato spostando verso l’Asia, mentre anche parte del continente africano (totalmente il suo nord, meno profondamente il centro) era stato coinvolto in un’islamizzazione l’avvìo della quale si era presentato a partire dalla metà del Novecento anche in Europa e nei continenti americano e perfino oceanico a causa della diaspora dai paesi musulmani in quei continenti e la fondazione di molte comunità di migranti, alcune delle quali caratterizzate da una più meno pronunziata carica missionaria. Proselitismo e incremento demografico hanno favorito e incoraggiato tale dinamica, che ai nostri tempi prosegue. Oggi, per quanto l’idioma arabo continui ad essere la “lingua sacra” dell’Islam e il suo fondamentale supporto linguistico sotto il profilo teologico e giuridico, la maggior parte dei fedeli non è più etnicamente araba: dalla Turchia all’Iran alla vasta area eurasiatica che si estende dal Caucaso all’Indo Kush sino al sudest asiatico e all’Africa equatoriale si è affermata una realtà islamica etnicamente parlando “nuova”, alla quale vanno aggiunti i circa 16 milioni di musulmani presenti in Europa su circa 500 milioni di abitanti (cioè il 3% della popolazione globale) e i circa 3 milioni e mezzo di musulmani negli Stati Uniti (cioè l’1% della popolazione). Oggi il primo paese musulmano del mondo è l’Indonesia, con 203 milioni di abitanti: ma è sintomatico che, fino a pochi decenni fa, questo paese veniva indicato come un modello di convivenza tra cristiani, musulmani, induisti e buddhisti che lo abitavano, mentre più tardi si è imposto come uno dei più violenti e pericolosi focolai di scontro etnoreligioso.
Questi dati, evidentemente arrotondati e approssimativi sotto il profilo quantitativo, si riferiscono al 2012 e sono soggetti a una forte dinamica in termini sia assoluti, sia relativi. Teniamo infatti presente che, se il cristianesimo è la religione ancor oggi più diffusa nel mondo con più di 2 miliardi di fedeli ripartiti nelle varie Chiesa e l’Islam lo segue con più di 1 miliardo e mezzo (mentre la terza religione più praticata al mondo dopo queste prime due, l’induismo, sta su 1 miliardo di aderenti), il trend attuale – abbiamo arrotondato beninteso le cifre – presenta una tendenza al ristagno nel mondo cristiano connessa sia con la regressione demografica e la crescente “laicizzazione” del mondo occidentale sia con la crescente ondata di forme varie di pressione, intimidazione e persecuzione in Asia e in Africa, mentre si registrano una crescita di quello musulmano per ragioni demografiche e proselitistiche e una sostanziale stabilità di quello induista che demograficamente a sua volta tende alla crescita, ma non fa proselitismo. Non va dimenticato il rapporto tra diffusione dei differenti culti e standard socioeconomico: una buona metà dei cristiani vivono tra Europa, America settentrionale e Australia, vale a dire in aree nei quali si concentra quella parte del genere umano, calcolabile in un numero non troppo superiore al 15% circa della popolazione mondiale (vale a dire a poco più di un miliardo di persone su ormai quasi sette), che gestisce il 90% circa della ricchezza del globo terraqueo, mentre gran parte dei musulmani e tutti gli induisti sono insediati tra Asia e Africa, continenti che appartengono all’area nella quale vive il restante 85% degli abitanti del globo, quelli che ne gestiscono il 10% circa. Tale sperequazione viene di solito sottovalutata se non ignorata o, peggio ancora, nascosta dagli osservatori che s’impegnano nell’interpretare il fenomeno delle nuove forme di “intolleranza” e di aggressività presenti nell’umma musulmana, addebitandone il carattere alla sostanza o alla genesi della fede coranica e dimenticando l’incidenza sui suoi fedeli del disagio socioeconomico e il senso di rancore e di rivalsa generato dalla conoscenza – sia pure spesso oscura e lacunosa – del processo di globalizzazione che dal Cinquecento in poi hanno determinato la straordinaria sperequazione oggi presente appunto tra chi detiene, gestisce e sfrutta le risorse del globo e chi ne è invece solo oggetto.

Il “risveglio islamico”, il “fondamentalismo-islamismo-jihadismo”, il terrorismo, le reazioni in Occidente
Un aspetto della “crisi” cristiana dei giorni d’oggi – caratterizzata da una forte ondata di agnosticismo in Occidente, da varie forme di pressione e di persecuzione delle quali sono soggette le comunità cristiane in Asia e in Africa – riguarda proprio i rapporti con l’Islam: per quanto una certa tensione, in passato sfociata anche in numerose guerre, sia sempre stata caratteristica della loro storia, essa è stata accompagnata nei secoli da molti esempi di libera e serena convivenza che appare oggi compromessa e minacciata dall’attività di vari gruppi radicali musulmani che hanno determinato l’esodo dei cristiani locali da paesi nei quali le loro comunità erano antiche, prestigiose e rispettate: ciò è recentemente accaduto dall’Egitto al Sudan, all’Africa centrale, alla Turchia, alla Siria, all’Iraq, al Pakistan.
Le vicende musulmane dei primi tre lustri del XXI secolo appaiono in sintesi dominate da quattro componenti: la tensione tra un Islam “liberale” e occidentalizzante, incline all’accettazione del confronto con la Modernità (che passa però spesso attraverso una mediazione autoritaria, espressione della quale è di solito l’esercito: come ben si vede nei casi turco ed egiziano), e le istanze radicali rappresentate prima dalla “costellazione” di organizzazioni politico-militari “fondamentaliste” di al-Qaeda – che è stata definita attraverso un neologismo, “ipersetta” – e dalla loro attività terroristica, quindi dal radicalismo del “jihadismo” salafita; il continuo esodo di migranti soprattutto dall’Africa verso l’Europa (non tutti musulmani, ma in buona parte tali) e le difficoltà connesse sia con il mantenimento e la libertà d’espressione da parte di essi della propria identità religiosa e culturale, sia con il proselitismo e le reazioni da esso provocate; il permanere della questione israeliano-palestinese e la progressiva islamizzazione della causa palestinese con la correlativa emarginazione dei cristiani di quell’area (arabi cattolici di rito geco, detti “melkiti”, e ortodossi); infine, la fitna sunnito-sciita, strettamente legata allo sviluppo della politica iraniana come nuova potenza regionale e alle politiche degli emirati del Golfo egemonizzati dall’Arabia saudita ma attualmente segnati dalla crisi diplomatica saudito-qatariota.
Un sia pur arduo e faticoso orientamento nel complesso panorama dell’Islam odierno richiede anzitutto che si tenga sempre a mente che l’organizzazione istituzionale e strutturale dell’Islam non ha nulla che si possa paragonare alle Chiesa cristiane. Essa è costituita di comunità autocefale agenti sulla base dell’autoreferenzialità garantita da un esperto, direttore “spirituale” e teologo-giurista (o da un gruppo di tali specialisti); ma nei paesi che in diversa misura hanno comunque adottato forme di governo e di aggregazione civile ispirate all’Occidente l’attività delle comunità religiose e delle pie associazioni è regolata di solito da un “ministero dei culti” (in genere il consigliere religioso della famiglia o dell’élite di governo) incaricato di vegliare su di esse. Ciò si risolve in un controllo più o meno stretto sui gruppi religiosi presenti nei singoli paesi da parte dell’autorità civile e politica: a differenza di quel che si ama ripetere, l’Islam non dà ordinariamente luogo ad esperienze teocratiche ma, al contrario, a fenomeni di asservimento delle comunità religiose rispetto al potere politico.
Comunque, pur senza lasciarsi troppo affascinare da coincidenze e “simmetrie” cronologiche, bisogna pur osservare che fu proprio il tournant del secolo (e del millennio) a dar l’impressione che nel mondo musulmano stessero avvenendo qualificanti e sconvolgenti novità. Esse erano maturate, talora in modo evidente e rumoroso, più spesso in silenzio, già nel secolo precedente. Ancora negli Anni Settanta del secolo scorso, difatti, nel quadro generale di quella che il sociologo Sabino Acquaviva aveva denominato, in un suo celebre saggio, L’eclisse del Sacro nella società contemporanea, l’Islam era ritenuto una religione in crisi se non addirittura in via di disfacimento sotto l’assalto congiunto di più forze: l’avanzare dello scetticismo e dell’agnosticismo religioso in tutto il mondo, sostenuto dal progresso tecnologico-scientifico e dalla grandi ideologie politiche laiche e materialiste; la modernizzazione e l’occidentalizzazione che si era andata affermando nell’umma con la rivoluzione kemalista in Turchia, quella palhevica in Iran e quelle dei “socialismi arabi” dall’Egitto nasseriano alla Libia del primissimo Gheddafi al Maghreb ai regimi del partito “baath” in Siria e in Iraq. In Occidente, era allora opinione diffusa – in gran parte ereditata dal romanticismo, dal colonialismo e dalla cultura orientalista che era (e resta) parte costituente fondamentale delle strutture mentali tipiche appunto della Modernità occidentale e ne rappresenterebbe anzi (secondo l’opinione di Edward W. Said) la “sovrastruttura” – che l’Islam corrispondesse ormai a un complesso di consuetudini cultuali di natura residuale e folklorica.
La “rivoluzione islamica” iraniana di Khomeini, nel 1979, fu un autentico giro di boa. Dinanzi alla Modernità occidentale, lo ayatollah proponeva una “via musulmana al futuro” che non coincideva affatto con un salto all’indietro ma che, al contrario, si proponeva di edificare sulla base dell’Islam un domani politicamente, economicamente, finanziariamente, tecnologicamente e scientificamente alternativo. Se gli Stati Uniti di Ronald Reagan scorgevano nel nuovo Iran uno “stato-canaglia” che si andava affiancando e quasi gradualmente sostituendo all’URSS come “impero del Male”, l’Iran di Khomeini individuava in cambio il “grande Satana” nel materialismo edonistico e consumistico dell’Occidente, del quale il governo e la società statunitensi erano l’incarnazione.
D’altra parte, quello che i musulmani consideravano un “altro Occidente”, un altro materialismo, quello sovietico, stava nei medesimi anni minacciando l’Afghanistan: e, per i musulmani sunniti afghani che avevano preso le armi contro l’Armata Rossa occupante e il regime collaborazionista di Kabul, il vicino Iran si profilava –, per quanto sciita come un prezioso alleato. Gli Stati Uniti non potevano dal canto loro consentire che fossero gli iraniani a sostenere la guerra di liberazione afghana: risposero pertanto appoggiando i guerrieri-missionari sunniti provenienti soprattutto dall’Arabia saudita e dallo Yemen, che guidarono il jihad contro i sovietici e riuscirono a imporre il regime sunnita puritano dei “talibani”.
D’altronde, la scoperta dei nuovi grandi giacimenti di gas e di petrolio in Asia centrale, verso la metà degli Anni Novanta, mutò di nuovo i rapporti di forza: i pipelines che avrebbero dovuto portare quelle ricchezze fino all’Oceano Indiano, quindi fino ai porti pakistani (dal momento che l’ostilità nei confronti dell’Iran preludeva vie più brevi e rapide) sarebbero dovuti passare per forza dall’Afghanistan. Ma i “talibani”, che diffidavano ormai degli Stati Uniti e delle multinazionali Unocal e Halliburton che avrebbe dovuto gestire l’impresa, stavano guardando altrove in cerca di nuovi partners. E gli americani, che pur avevano gradito che i fondamentalisti avessero eliminato il comandante Ahmed Shah al-Massud – il “leone” del nord-ovest, eroe del jihad contro i sovietici, sunnita ma sospettato di essere troppo incline a guardar con qualche simpatìa all’Iran sciita –, si resero conto che era necessario eliminare anche il potere talibano: non restava che occupare direttamente l’Afghanistan. Da qui l’aggressione a quel paese, giustificata dal rifiuto del governo talibano di consegnare lo sceicco Usama bin Laden, colui che aveva fatto eliminare Massud: egli, ospite in Afghanistan, era accusato di essere il mandante degli attentati dell’11 settembre 2001 senza però che sussistessero prove sufficienti per sorreggere tale accusa.
Da allora prese avvìo, da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, la war against terror, diretta soprattutto contro la fantomatica organizzazione al-Qaeda della quale bin Laden era considerato il capo. Si sono dal 2001 in poi si sono addebitati con eccessiva e non innocente disinvoltura ad al-Qaeda praticamente tutti gli attentati di segno “fondamentalista” o sospetti di esser tali; e d’altra parte molti gruppi e gruppuscoli, sovente altrimenti ignoti, si sono appropriati del nome di al-Qaeda per conferire alle loro gesta una sinistra credibilità. Nel luglio del 2014 il centro Human Rights Watch ha diffuso un rapporto fondato sulle ricerche del Dipartimento di Risorse Umane della Columbia University di New York, nel quale si legge che in molti dei 500 casi di complotto o di azione a carattere terroristico dei quali si sono occupati i tribunali statunitensi dopo l’11 settembre 2001 “il Dipartimento di Giustizia e l’FBI hanno coinvolto musulmani americani in operazioni antiterroristiche clandestine, in modo che rappresenta un abuso, fondato sull’appartenenze religiosa ed etnica”: in altri termini, si è trattato dell’organizzazione di una rete di infiltrati, di provocatori, e della costruzione di false prove tendenti a sostenere assunti complottistici poi rivelatisi falsi o inconsistenti.
Oggi, l’interpretazione più autorevole diffusa tra gli specialisti del settore e gli osservatori più competenti è che in realtà al-Qaeda fosse – e, nella misura in cui il suo nome continua a circolare, sia tuttora – un’organizzazione acefala, tentacolare, polimorfa, priva però di un vero e proprio “centro” direttivo né politico, né tattico-strategico: per cui troppo presto, all’indomani della morte di bin Laden ucciso a quel che pare nel maggio del 2011 in Pakistan nel corso dell’azione di un commando statunitense (un’altra pagina sulla quale, come su quella della morte del libico Muammar Gheddafi cinque mesi dopo, si addensano fitti gli interrogativi), si è parlato di “fine di al-Qaeda” se non addirittura di “soluzione del problema terroristico”.
Ben più complessa appare la realtà. Dopo gli attentati del 2001 negli Stati Uniti, altri drammatici e spettacolari tennero loro dietro (segnatamente a Londra e a Madrid) dando l’impressione che si fosse davvero giunti a un sistematico jihad contro l’Occidente cui non poteva non rispondere una “crociata contro il terrorismo”. Nel corso del primo assalto terroristico di al-Qaeda o supposta tale sul territorio europeo, quello della stazione madrilena di Atocha l’11 marzo 2004, morirono 191 persone: ma le reazioni scomposte, se non irresponsabili, furono numerose. Da ricordare quella del presidente José Maria Aznar che, in un discorso ufficiale tenuto il 21 settembre successivo alla Georgetown University, dichiarava che la Spagna era stata “recentemente invasa dai Mori” e che era stata colpita in quanto “aveva rifiutato di diventare un altro pezzo del mondo islamico” e “aveva ricominciato una lunga battaglia per recuperare la sua identità”. Uno scrittore spagnolo di successo dette a un suo libro del 2004 un eloquente titolo: Espaňa frente al Islam. De Mahoma a Ben Laden. Vero è tuttavia che queste posizioni allucinate e allucinanti provocarono le reazioni che meritavano, e che fu denunziata con preoccupazione la crescita di un’indiscriminata islamofobia; si ricordò definire tout court l’Islam una religione “incline alla violenza”, come si andava facendo, equivalesse di fatto a una legittimazione del terrorismo presentato come fenomeno fisiologicamente intrinseco ad essa anziché aberrazione avversata e condannata dalla grande maggioranza delle scuole coraniche e della popolazione musulmana del mondo.
Si andò comunque da allora diffondendo in tutto l’Occidente una forte psicosi, abilmente alimentata dai media, che dette addirittura luogo a fenomeni paraideologici reattivi, come quelli dei gruppi statunitensi (presto imitati in Europa) neoconservative e teoconservative, i quali ostentavano la loro islamofobia fino a spingersi ad auspicare nuove “crociate”. In Italia si diffuse il termine “cristianista” per indicare, in analogia e in contrapposizione a quello “islamista”, il cristiano fiero della sua identità e delle sue radici e ben deciso a contrapporsi a un Islam avvertito come eterno e irriducibile nemico. Si parlò perfino di un disegno di occupazione e di islamizzazione dell’Europa e dell’Occidente, del quale i migranti clandestini sarebbero stati le avanguardie e i primi organizzatori, e le richieste dei quali – fossero pure la semplice apertura di una moschea o di una “sala di preghiera” – dovevano essere contrastate in quanto parte della loro tattica di destabilizzazione culturale nei confronti della tradizione cristiana. Si giunse a parlare di una “terza ondata” dell’aggressione musulmana all’Europa, dopo quella che tra VII e VIII secolo aveva portato i guerrieri dell’Islam sotto Costantinopoli e oltre i Pirenei e quella che tra XIV e XVVII aveva fatto più volte temere che i sultani ottomani volessero invadere il continente cristiano. D’altro canto, bisogna dire che anche in certi ambienti estremistici dell’“islamismo” (termine usato per indicare la degenerazione politico- ideologica della religione musulmana) si è parlato un linguaggio uguale e contrario: per esempio nell’ottobre del 2001 al-Zawahiri, portavoce di al-Qaeda, ricordava con accenti revanscistici la tragedia di al-Andalus, la Spagna musulmana cancellata alla fine del Quattrocento dalle forze castigliano-aragonesi e dalla quale, nei decenni successivi, erano tristemente stati espulsi quei musulmani che pure avevano cercato di adattarsi alla nuova situazione e addirittura si erano convertiti o avevano finto di convertirsi al cristianesimo, i moriscos. Il sogno di una riconquista di Granada è stato e resta, per gli islamisti radicali, quel che quello di una nuova battaglia di Lepanto è per i cristianisti radicali: il centro cioè di un mito riguardante un futuro tanto insperabile quanto auspicabile alla luce appunto dei loro opposti ma paralleli sistemi mitologici sostenuti da un atteggiamento pseudostorico e rivendicazionistico, nutrito di superficiale erudizione e di autentica intolleranza.
Sono quindi stati in molti, in un recentissimo passato che qua e là ancor oggi riaffiora, a esorcizzare l’immagine da incubo di un’Europa futura i “bei panorami” della quale, ora punteggiati dei nostri “cari vecchi campanili”, potrebbero venir deturpati e profanati dai “minareti delle moschee”: una Europa islamizzata secondo i disegni di alcuni imam fondamentalisti che il “buonismo” di certi islamofili occidentali “buonisti”, permissivi e financo sincretisti, starebbe favorendo. La giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, nei suoi ultimi libri, ha accreditato queste paure e questi pregiudizi fornendo loro una veste letteraria e pubblicistica efficace e autorevole: ed è stata lei, insieme con altri di lei molto meno presentabili, a parlare del pericolo di un’Europa futura, che gli extracomunitari clandestini starebbero trasformando in “Eurabia”.
D’altronde, è ormai un fatto che la religione musulmana si stia imponendo in Europa come la seconda dopo quella cristiana; che i centri culturali e i luoghi di culto islamici si stiano moltiplicando; che in taluni di questi centri si stia svolgendo un’attività missionaria e proselitistica anche intensa, di tipo nuovo (dal momento che tradizionalmente l’Islam non è mai stato troppo incline a favorire campagne proselitistiche: siamo, in ciò, dinanzi a un Islam nuovo, “mutante”); che ai fedeli del Corano provenienti dall’Asia e dall’Africa si stiano aggiungendo europei convertiti in un numero difficile da computare e da percentualizzare data la recenziorità del fenomeno, comunque non trascurabile. Un intellettuale discusso ma senza dubbio intelligente e raffinato, lo svizzero d’origine egiziana Tariq Ramadan la famiglia del quale è legata al fondatore della sètta islamista sunnita dei “Fratelli Musulmani”, ha contribuito con serietà alla legittimazione di un “Islam europeo” dotato di tutte le caratteristiche di serena convivenza con la società civile del nostro continente e in grado tanto di “modernizzare se stesso” quanto di “islamizzare la Modernità”.
Molte sono le organizzazioni musulmane europee che raccolgono fedeli provenienti dai paesi del dar al-Islam insieme con europei convertiti: per esempio in Francia l’Association des Étudiants Islamiques de France (AEIF), la Ligue Interculturelle Islamique de Bruxelles (LIIB), la Islamische Gemeinschaft in Deutschland (IGD), la Muslim Association of Britain (MAB) e, in Italia, la Comunità Religiosa Islamica (COREIS) e l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII), tra loro concorrenti. Alcune di queste organizzazioni sono state a lungo più o meno insistentemente accusate di simpatie radicali e addirittura di connivenza con gruppi terroristici: ma in ciò va detto che, nel biennio 2010-2011, si è assistito a un profondo mutamento sia dell’Islam nella sua interna compagine, sia nei rapporti tra Occidente e mondo musulmano.

Le “Primavere arabe”: speranze ed equivoci
Il movimento forse troppo precipitosamente denominato delle “Primavere arabe”, avviato nella Tunisia del 2010 dove ha determinato la rapida caduta del violento e corrotto regime di Ziin al-Abidin Ben Ali e dove un ruolo centrale è stato assunto dal partito en-Nahda (“Rinascita”, parola-chiave fino dall’Ottocento della riscosse civile nei paesi arabi) ha suscitato interesse, speranze e simpatia in quanto interpretato come l’esito di una spinta delle giovani generazioni (e va tenuto conto del fatto che i paesi a maggioranza musulmana sono anche caratterizzati da popolazioni anagraficamente “giovani”, dato l’incremento demografico e la moderata lunghezza di “speranza di vita” al loro interno) aspiranti a modelli politici più decisamente “democratici” e a modelli esistenziali maggiormente orientati in senso “occidentale” (specie su temi cruciali e delicati come i diritti delle donne e perfino la problematica sull’omosessualità). In realtà le “Primavere arabe” hanno fornito esiti pratici diversi: in Tunisia hanno causato l’esperienza di governo dell’equilibrato Hamadi Jebali, che è stato premier fino al febbraio 2013 ma ha datole dimissioni in quanto non in grado di arginare il disordine e la violenza che stanno montando nel paese a causa della tensione tra “integralisti” e “laici”; in Egitto hanno contribuito a rovesciare l’anziano e ammalato presidente-dittatore Hosni Mubarak ma anche ad aprire una fase convulsa della vita politica, con un’esperienza di governo fondamentalista e tendenzialmente autoritario degli al-Ikhwan al-Muslimin (“Fratelli Musulmani”) guidata da Muhammad Morsi, presto sostituita – nonostante fosse riuscita vittoriosa in una competizione elettorale corretta e legittima – da un governo militare di tendenza nasseriana presieduto dal generale Sisi; in Marocco e in Giordania sono state parzialmente accolte contribuendo all’avvìo di caute riforme e portando nel primo di questi due paesi al governo a partire dal luglio 2013 del premier Abdallah Benkiran, “islamista” a capo di una coalizione politica che comprende il partito conservatore Istiqlal ma che si presenta come fragile, nel secondo a un avvicinamento tra le forze più vicine alla corona hashemita e gli islamisti sia legati al Jabhat al-‘Amal al-Islamì (“fronte d’Asione Musulmana”), sia simpatizzanti con i “Fratelli Musulmani”; in Algeria e nella penisola arabica sono state rapidamente e duramente represse; in Libia e in Siria si sono andate evolvendo verso esiti violenti che hanno causato autentiche guerre civili. In tali occasioni abbiamo assistito a un nuovo, interessante fenomeno: il graduale attenuarsi se non lo scomparire non tanto della pericolosità del terrorismo e dei sodalizi che in vario modo lo sostengono, quanto della loro insistente presenza nei nostri media. Ne è stata un esempio al-Qaeda: mai davvero seriamente analizzata da politici e da pubblicisti, nebulosamente fatta segno di sospetti dai servizi d’intelligence, ma dal 2001 a circa il 2010 per un lungo decennio sistematicamente accusata di misfatti e in più occasioni demonizzata prima che – con l’uccisione di bin Laden e quindi con il massiccio contributo dei gruppi islamisti alla lotta contro Gheddafi in Libia e contro Assad in Siria, entrambe sostenute da alcuni governi occidentali (segnatamente la Francia di Hollande e l’Inghilterra di Cameron) – si assistesse a una sorta di “rovesciamento delle alleanze” e, com’era accaduto nell’Afghanistan degli Anni Ottanta e dell’inizio degli Anni Novanta, i “fondamentalisti” sunniti tornassero a presentarsi in più occasioni come alleati dell’Occidente: il che peraltro non stupirà troppo, se si considera che quei gruppi hanno in genere potuto avvalersi del sostegno finanziario, propagandistico e anche militare di alcune “monarchie del Golfo”, segnatamente l’Arabia saudita e l’emirato del Qatar, integraliste e conservatrici sul piano religioso ma sicure alleate e partners commerciali e finanziarie deli USA e del mondo occidentale per quanto entrate di recente in rotta di collisione tra loro. In Libia il regime di Gheddafi – che dopo aver mutato più volte i suoi connotati politici aveva assunto posizioni che avevano preoccupato governi e lobbies occidentali (avvicinamento diplomatico e tecnologico-commerciale ai russi e addirittura ai cinesi, intenzione di dar vita a una banca e a una telefonia interafricane e così via) – è stato così abbattuto con il consenso e il contributo della NATO, mentre in Siria si è rischiata l’instaurazione di un governo islamista paventato dalle stesse Chiese cristiane di quel paese, che il regime autoritario ma “laico” del partito “Baath” e della “dittatura familiare” degli Assad (alawiti e quindi appoggiati dall’Iran sciita) aveva sempre rispettato e tutelato. Nei confronti della Siria di Bashar al-Assad, fatta segno a partire dal biennio 2010-11 di durissimi attacchi anche da parte di politici e intellettuali francesi come Bernard-Henri Lévy riuniti nel sodalizio Amis de la Syrie, la propaganda occidentale è stata particolarmente intensa, contribuendo in modo decisivo alla riabilitazione e alla legittimazione dell’attività dei gruppi islamisti sunniti, tra i quali si è registrata una consistente presenza di europei convertiti, soprattutto giovani: i servizi di sicurezza occidentali hanno rilevato come dall’inizio del 2014 circa 2000 jihadisti occidentali abbiano combattuto come volontari nelle fila dell’”armata di liberazione” contro Assad, dove in tutto gli stranieri (cioè i non-siriani) sarebbero tra i 6000 e i 12.000 (i conti in questi casi sono sempre molto ardui e mai precisi).
Il fenomeno di una “legione straniera” jihadista con volontari provenienti da ogni parte del mondo è stato più volte segnalato, dalla pianura balcanica all’Afghanistan al Pakistan all’Africa. Quanto ai “volontari” non già musulmani europei neofiti, bensì originari di paesi islamici ma approdati a un qualche teatro di jihad attraverso l’Europa, si sono rilevati casi di “reclutamento” avvenuti nelle carceri tra giovani detenuti che, una volta scontata la loro pena, sono partiti volontari per difendere una causa islamista.
Per contro l’Israele del premier Netanyahu, pur esplicitamente delusa e irritata dinanzi al riavvicinamento diplomatico tra USA e Iran avviato dal presidente Obama, si è tenuta in disparte nel corso della crisi siriana non certo per simpatia nei confronti di Assad – dagli israeliani costantemente ritenuto un nemico –, bensì in quanto certa che la rivendicazione alla Siria delle alture del Golan (ormai stancamente e in pratica solo formalmente perseguita dal governo assadista) potrebbe venire ripresa con energia da un eventuale futuro governo siriano in cui fossero presenti le forze jihadiste. In altri termini Israele, pur continuando a identificare nell’Iran il suo principale nemico e la più forte minaccia alla sua sicurezza e avversando pertanto sia il movimento palestinese Hamas sia quello libanese Hezbollah in quanto entrambi sostenuti dagli iraniani, preferisce che Damasco resti in mano a un governo pur avverso, ma che persegue una linea politica “laica”, piuttosto che non a uno troppo condizionato dai jihadisti sunniti. Ciò pone il governo di Gerusalemme in contrasto obiettivo con un suo vecchio amico, quello di Ankara retto dai “fondamentalisti moderati” del partito AKD del premier Tayyip Erdoğan, che sulla Siria ha assunto una posizione decisamente ostile nei confronti di Assad. D’altronde, Turchia e Siria, paesi confinanti, sono geopoliticamente avversari a causa sia dei numerosi motivi di attrito geoantropico sulle linee comuni di confine, specie nell’area curda, sia delle questioni legate alla gestione e allo sfruttamento del fiume Eufrate; ma si trovano adesso entrambi coinvolti nei problemi suscitati dall’evoluzione politica, religiosa e militare del vicino Iraq.

Antijihadismo o filojihadismo? Le incertezze e le ambiguità della politica occidentale
Sappiamo d’altro canto che Hamas, appoggiata dalla sciita Hezbollah libanese, non disdegna nemmeno il sostegno dell’emiro sunnita del Qatar; mentre non va dimenticato che l’antijihadismo dei politici e dei media occidentali, indiscriminato dopo l’11 settembre 2001 ma quindi attenuato se non nascosto o addirittura rinnegato in coincidenza con le questioni libica e siriana, resta vigile invece a proposito sia della guerra civile che oppone il governo irakeno di Nuri al-Maliki (gestito – con paradossale esito dell’aggressione e dell’occupazione statunitense – da sciiti che guardano con simpatia all’Iran e alla Russia, pur restando collegati alla tutela statunitense e sostenuti dai “consiglieri militari” inviati da Obama) ai ribelli sunniti – tanto jihadisti quanto saddamisti (un’alleanza a sua volta paradossale) – che tra Iraq settentrionale e orientale hanno proclamato lo “stato islamico” ed eletto califfo il loro leader al-Baghdadi, sia della situazione determinatasi in alcuni paesi africani. Vediamo un po’ più da vicino questi due casi.
La notizia della “restaurazione del califfato” (o meglio, dell’instaurazione di un nuovo califfo) da parte dei cosiddetti mujahidin – vale a dire “impegnati in uno sforzo gradito a Dio” – dell’area di confine fra Turchia, Siria e Iraq, è stata diffusa alla fine del giugno 2014. I “jihadisti” che hanno la loro roccaforte nelle province sunnite dell’Iraq settentrionale (a diretto contatto con i curdi, sunniti anch’essi, ma non arabi) vi hanno fondato una Dawla Islamiyya fi Iraq wa Shark, espressione grosso modo traducibile in inglese come Islamic State of Iraq and Levant e da allora conosciuto dai media occidentali con le incerte sigle di ISIL o ISIS (a seconda che vi si privilegi la parola inglese Levant o quella araba Shark). Il “Levante” iraqeno corrisponde, piuttosto, all’area nordorientale, con i centri di Mosul (occupata nei primi di giugno dai jihadisti), Erbil (in mano alle forze governative del governo di Baghdad) e Kirkuk (difesa dalle milizie curde peshmerga). Mosul e Kirkuk sono importanti centri di estrazione petrolifera. I miliziani jihadisti, che nella prima metà di giugno avevano occupato anche Tikrit e che, presa Mosul la quale non è lontana né dal confine siriano né da quello turco, minacciano anche la Siria e la Turchia, hanno quindi unilateralmente fondato una vera e propria Dawla Islamiyya (cioè un Islamic State, IS, definito tout court tale), che nelle intenzioni dovrebbe raccogliere tutti i fedeli musulmani del mondo e ricostituire l’umma, la comunità musulmana nel suo complesso: in altri termini, hanno fondato un califfato. Il nuovo califfo porta il nome del primo califfo dell’islam, Abu Bakr, suocero del Profeta in quanto padre della di lui prediletta moglie A’isha: si tratta difatti di Abu Bakr al-Baghdadi, appunto leader dell’IS. Lo speaker dell’organizzazione, Abu Muhammad al-Adnani, ha sottolineato l’importanza di questo evento, che conferirebbe un volto nuovo all’Islam, e ha esortato i buoni fedeli ad accoglierlo respingendo la “democrazia” e gli altri pseudovalori che l’Occidente proclama. Alcuni “esperti” hanno commentato che siamo dinanzi al più importante sviluppo del jihad musulmano dopo l’11 settembre del 2001 e che il nuovo califfato potrebbe addirittura travolgere gli equilibri vicino- e mediorientali e rappresentare un’effettiva minaccia per la leadership di al-Qaeda. Il che appare alquanto improbabile se non surreale, dal momento che quella galassia di organizzazioni radicali che convivono sotto la denominazione, appunto, di al-Qaeda, e che se ne disputano accanitamente la gestione, trova appunto nell’IS a tutt’oggi una delle sue espressioni più coerenti e meno aleatorie.
Dal canto suo il governo ufficiale irakeno, guidato da Nuri al-Maliki e a tutt’oggi in una posizione alquanto ambigua – resta nell’orbita degli Stati Uniti che ne hanno determinato la nascita con la loro aggressione del 2003 all’Irak di Saddam Hussein, ma è espressione delle comunità irakene sciite che in quanto tali guardano con simpatia alla Siria di Assad e all’Iran – è impegnato in una controffensiva tesa a recuperare i territori che gli uomini dell’IS gli hanno strappato con l’offensiva del 9 giugno scorso e si sta per questo coordinando con trecento “consiglieri militari” statunitensi; intanto però ha accettato dalla Russia una fornitura di dodici cacciabombardieri Sukhoi che gli consentirebbero di contrastare concretamente i guerriglieri dell’IS, mentre l’aviazione siriana ha già avviato alcuni raids contro gli uomini del nuovo califfo e l’Iran ha provveduto o sta per provvedere il governo di al-Maliki di alcuni droni. È ovvio che lo sciita al-Maliki non sia scontento di questo appoggio russo-siro-iraniano; e il quadro è chiaro e perfetto se si aggiunge che l’esercito dello IS è appoggiato da equipaggiamenti e da finanziamenti degli emirati del Golfo. La situazione, che allarma per motivi differenti i governi di Ankara, di Damasco e di Baghdad i quali d’altronde non sono affatto in buoni rapporti reciproci, è complicata dalla posizione di al-Nusra, il più forte movimento jihadista siriano, che sta lottando nel suo paese contro il governo di Assad ma che ha creato faticosamente un sistema di alleanze locali che rischia di saltare a causa della strategia “globalista” del califfato irakeno il quale dal canto suo aspira a un peraltro improbabile riconoscimento più ampio.
La conquista di Mosul da parte delle milizie jihadiste dell’Iraq nordorientale ha rappresentato un evento molto grave: non solo in quanto quella città ha una determinante importanza sul piano dell’estrazione petrolifera, ma anche in quanto si tratta di un’antica, colta città di tradizione sunnita, abitata sia da arabi sia da curdi e sede di una fiorente comunità cristiana “caldea” (vale a dire cattolica di rito arabo), che nel 2003 – all’atto cioè dell’aggressione statunitense contro l’Iraq di Saddam Hussein – contava ben 35.000 fedeli, mentre nel decennio successivo è scesa a 3.000 (diminuendo cioè di oltre il 90%). I cristiani locali hanno abbandonato tutti le loro case di Mosul, ma sono stati fatti oggetto da parte degli jihadisti di furti e di angherie. Il 21 luglio 2014, a Baghdad, è stata celebrata una messa per chiedere a Dio di proteggere le comunità cristiane profughe e minacciate: vi hanno preso parte anche molti musulmani che inalberavano cartelli e indossavano T-shirts recanti la scritta di solidarietà “Sono un irakeno, sono un cristiano”. D’altronde, il fenomeno dell’esodo cristiano si sta producendo dappertutto nel Vicino e Medio Oriente. A Gaza, dove esiste un’ottima scuola cristiana guidata da un sacerdote argentino, padre Jorge Fernandez, i cristiani locali (tra cattolici e greco-ortodossi) erano 3000 nel 2009, ridotti nel 2014 a 1300.
Diverso da quello irakeno, ma non meno drammatico, il caso della Nigeria, un paese diviso tra le province nordoccidentali confinanti col Benin, col Niger e col Tchad, più povere e a maggioranza islamo-sunnita, e quelle sudorientali, meno povere e a maggioranza cristiana, confinanti con il Camerun a sudest e largamente affacciantesi sul Golfo di Guinea a sud. Nel nord si distinguono fondamentalmente quattro tendenze, che si contendono l’egemonia sui credenti: le confraternite sufi, che praticano la meditazione e cercano la salvezza nell’estasi; i movimenti salafiti influenzati dal wahhabismo saudita; quelli messianici, che attendono la rivelazione del mahdi; gli “islamisti” moderati, fra i quasi si distinguono quelli influenzati dai “Fratelli Musulmani” e un gruppo sciita che guarda all’Iran. Il movimento “Boko Haram”, a metà strada tra i salafiti e gli “islamisti” moderati, è stato fondato ai primi di questo secolo dal giovane Mohammed Yusuf, il quale tuttavia non condivideva gli atteggiamenti misoneistici e antiprogressisti di alcuni gruppi nigeriani, ma reclutava i propri adepti tra gli strati subalterni d’una popolazione già di per sé povera e sviluppava una specie di “teologia della liberazione” che respingeva i valori del progresso occidentale non perché negativi in sé e per sé, ma in quanto suscettibili di generare un orgoglio antropocentrico dimentico dell’onnipotenza divina. Il movimento, il nome del quale gioca sull’assonanza tra la parola inglese book e due parole nella lingua haoussa, cioè boka (“stregone”) e boko (“menzogna”), significa in sintesi “Proibizione del libro cattivo”, cioè “della mnzogna”), ma i suoi adpeti preferiscono definirsi Jama’atu Ahlis-Sunnah Lidda’wati Wal Jihad (“Seguaci del Profeta per la Propagazione dello Sforzo Gradito a Dio”). Il gruppo di distingue per un acceso rifiuto del sapere scolastico non in sé, ma in quanto espressione di una scienza priva di fondamento divino. Dopo l’uccisione del fondatore, nel 2009, il movimento si è disperso ma sopravvive per gruppi isolati e ha mantenuto il carattere antintellettuale. È stata opera sua il rapimento, nel 2014, di 276 studentesche cristiane che la setta intendeva sottrarre agli studi “occidentali” e avviare alla conversione musulmana. Ma, più che una qualche forma di rigorismo teologico, quel che sembra affiorare nelle azioni del “Boko Haram”, come negli anni recentemente trascorsi in Sudan, è la reazione a una sperequazione socioeconomica che coincide con aree latitudinarie e con osservanze religiose differenti: sembra cioè che quella sia giudicata la conseguenza diretta del rapporto esistente tra queste e che insomma l’ingiustizia sociale derivi dalla diversità di fede. Con tutto ciò, va sottolineato che i casi più duri di militanza, fino all’attentato suicida, non si registrano all’interno dei ceti subalterni bensì in quello delle classi mediamente più agiate e colte: secondo quella che, peraltro, è una tipologia ben nota nei movimenti e nei momenti rivoluzionari.

Osservazioni conclusive
In altri e più chiari termini, per comprendere qualcosa del “garbuglio islamico” è necessario che l’opinione pubblica dei nostri paesi abbandoni decisamente i pregiudizi collegati con la sua superbia occidentocentrica che la conduce a ritenere dogmaticamente che il nostro – “occidentale” e “moderno” – sia il migliore dei mondi possibili e che tutte le altre culture desiderino ad esso adeguarsi: che è errore non meno grave dell’altro, in certo senso opposto, consistente nel ritenere che sia oggi in atto uno “scontro di civiltà” i protagonisti del quale sono condannati a combattersi senza comprendersi e senza potersi reciprocamente integrare.
La miopìa dei politici e dei media ci ha per esempio condotto, sull’inizio delle “Primavere arabe”, a ritenere che chi scendeva in piazza contro il governo del loro paese lo facesse in quanto desiderava riforme democratico-parlamentari, in quanto esigeva l’instaurazione dello stato di diritto e magari del perfezionamento – ad esempio attraverso il processo dell’adeguazione dei diritti della donna a quelli dell’uomo – della natura egalitaria dello stesso Islam. Al contrario, ci si è accorti come proprio in Tunisia e in Egitto il rovesciamento di un sistema autoritario e corrotto, ma per molti versi “occidentalizante”, ha coinciso con la legittimazione e l’affermazione dei gruppi ispirati al radicalismo religioso, cioè a quel che per noi è, all’interno dell’Islam, l’elemento più lontano possibile dalla Modernità. Ma anche sulla natura di quel radicalismo noi ci sbagliamo: siamo abituati a ritenerlo qualcosa di lontano, d’irrimediabilmente superato, di qualitativamente opposto all’Occidente moderno. Viceversa, con nostra grande sorpresa, scopriamo spesso che alla base di esso non ci sono lontane leggende e remote profezie, bensì cose e persone a noi molto vicine. Il pensatore al quale lo ayatollah Khomeini s’ispirava, considerandolo un maestro, non era un antico mistico persiano bensì Alì Shariati, esponente di una corrente di pensiero molto vicina al marxismo. Tra Otto e Novecento il misticismo sufi ha raccolto la lezione illuministico-esoterica della cultura diffusa nelle logge massoniche (in Egitto fondate e diffuse fino dai tempi della spedizione del Bonaparte, nel 1798), come si vede bene nell’esperienza dell’eroe ottocentesco dell’indipendenza algerina, Abd el-Khader. La conversione all’Islam della poetessa italiana d’Egitto Leda Rafanelli (1880-1971) matura nel clima degli anarco-socialisti che in Alessandria si riunivano nella “baracca rossa” di Enrico Pea e di Giuseppe Ungaretti. A differenza del dogmatismo atavico e misoneista dei wahhabiti – una setta i capi della quale però, i sauditi, hanno mostrato di sapersi benissimo adattare agli orizzonti tecnologici e finanziari della Modernità –, l’islamismo radicale è semmai un movimento di natura modernista, che non intende affatto “politicizzare la religione” ma semmai, al contrario, “religionizzare la politica”.
Un altro punto sul quale è necessario far chiarezza riguarda la penisola arabica, i suoi stati emirali, il suo stato-guida ch’è il regno saudita e il principato emirale del Qatar che da alcuni mesi sta cercando una sua strada politica e diplomatica nuova e libera dall’ipoteca del più potente vicino. Una unione di tutti gli stati sorti a partire dagli Anni Venti del XX secolo – e modellati, allora, soprattutto in funzione delle esigenze colonialiste e imperialiste di Sua Maestà britannica, vittoriosa della prima guerra mondiale e desiderosa di mantenere un ordine da essa gestito attorno al canale di Suez e sulle vie che la collegavano al suo impero indiano – rafforzerebbe le prospettive di fitna antisciita portate avanti anzitutto dall’Arabia saudita in due direzioni: interna l’una, relativa al fragile equilibrio tra i governi emirali sunniti e le popolazioni della penisola, nella quali sono forti i gruppi sciiti; esterna l’altra, relativa all’inimicizia nei confronti del vicino, confinante e concorrente Iran, che in quanto “repubblica islamica” sciita raccoglie le simpatìe di tutti gli sciiti duodecimimani del mondo. La posta in gioco è altissima: riguarda la libertà di navigazione sul Golfo persico, accesso navale privilegiato dell’Iran all’Oceano indiano e specchio marino letteralmente pieno di pozzi di petrolio, di raffinerie e di petroliere. Nelle sue prospettive antiraniane, il progetto saudita trova alleati obiettivi tanto gli Stati Uniti d’America quanto Israele, ma si tratta di una sorta di “alleanza” molto problematica dal momento che in primo luogo le relazioni irano-statunitensi dopo la caduta del premier iraniano Ahmedinejad sono sensibilmente migliorate, mentre in secondo luogo quelle tra Israele ed emirati arabi restano caratterizzate da diffidenza e freddezza reciproche. Da ciò il ruolo dinamico del Qatar, che come piccolo emirato letteralmente immerso nel centro delle acque del Golfo ambirebbe a sviluppare una sua politica autonoma, che Arabia saudita e gli altri emirati vedono con sospetto e antipatia. Ma all’interno della penisola arabica si muovono anche altri progetti, altre divergenze: se il Qatar tende a sostenere i “Fratelli Musulmani” in Siria più di quanto gli altri emirati non ritengano opportuno, tanto Abu Dhabi e Dubia quanto Oman esprimono dubbi a proposito di una linea politica troppo decisamente antiraniana.
Se la fitna sunnito-sciita è pertanto degli elementi che minano alla base la solidarietà interna all’umma musulmana, un altro di essi è costituito dall’opposizione, ora dura ed esplicita ora più flessibile e implicita, tra le forze che all’interno di essa mirano a uno sviluppo in vario modo “occidentalizzante” (in una prospettiva che per alcuni sarebbe propriamente “liberale”, mentre altri preferiscono e ritengono più realistiche vie fondate sull’autoritarismo, specie se gestito dalle forze armate) e quelle che viceversa aspirano a cercare formule sociali e civili fondate su un recupero rigoroso dell’Islam. Il punto fondamentale, a questo importante livello, non sta tanto nella ricerca, all’interno di ciascun stato la popolazione del quale sia totalmente o prevalentemente musulmana, di un’accettabile relazione tra organi statali e istituzioni religiose, quanto su quel che deve costituire la base del diritto positivo: l’osservanza della legge religiosa, la sharia, oppure l’appartenenza etica e giuridica a una società civile, la muwatana (termine semplice ma difficile a tradurre, che si potrebbe rendere con l’espressione “coscienza di condivisione della medesima patria”).
Naturalmente, segnali d’impegno adottato da tutte le parti in causa per superare differenze e divergenze sia interne all’Islam, sia fra esso e il resto del mondo, non mancano. Ne è prova il generale interesse dimostrato negli ultimi anni nei confronti del sistema creditizio musulmano, provocato anche dalla constatazione effettiva che molti paesi islamici registrano un forte progresso nell’economia e nella finanza senza abbandonare i princìpi sharaitici, ma cercando al tempo stesso di mediare se e quando possibile il loro rigore confrontandoli con i sistemi creditizi non-musulmani con i quali è necessario in qualche modo collaborare. Il sistema creditizio musulmano, che favorisce gli investimenti e i crediti fiduciari ma vieta rigorosamente il ribā (l’“usura”), è stato oggetto negli ultimi anni di attenta considerazione anche in Occidente: si sono aperte “banche islamiche” in paesi non musulmani e si è cercato di appianare le divergenze tra sharia (“diritto religioso musulmano”) e qanun (“prassi giuridica d’origine statale”), incoraggiando nel mondo non-musulmano l’attività delle “banche etiche”.
Allo scopo di superare le difficoltà d’intesa e di collaborazione interne ed esterne all’Islam, venne fondata fino dal 1969 la ICO (“Organizzazione della Conferenza Islamica”), che dal 1971 ebbe la sua sede a Jeddah nell’Arabia saudita e che dal giugno 2013 si denomina “Organizzazione per la Cooperazione Islamica”. Aspirando a presentarsi al mondo come una specie di “ONU dei musulmani”, che d’altronde intende agire all’interno dell’ONU stessa, l’OCI è più volte intervenuta per ribadire la necessità che i paesi non-musulmani adottino comportamenti ispirati a maggior rispetto e comprensione per la cultura dell’Islam, abbandonando quei pregiudizi occidentocentrici alla luce dei quali troppo spesso usi e tradizioni musulmane vengono considerate semplicemente espressione di modi di pensare e di agire “arcaici” o suscettibili comunque di condanna nel nome di una concezione indiscriminata di progresso. All’interno di tale sodalizio di sono così discussi i princìpi dei “diritti dell’uomo” e della reciprocità nel rispetto della libertà religiosa, giungendo a conclusioni non sempre chiare e convincenti ma sintomo comunque di una volontà di dialogo e di confronto. Restano ampie zone di discussione ancora aperta e argomenti a proposito dei quali nello stesso mondo musulmano manca un concorde consenso: coma a proposito della “circoncisione femminile”, o infibulazione, ancora difesa da teologi-giuristi. Le scuola shafiita e hanbalita la considerano obbligatoria, quelle malikita e hanafita sono di parere opposto. Nel 2003 il rettore di al-Azhar, sheyk Muhamamd Sayys Tantawi dichiarò esplicitamente: “Il Sacro Corano non parla di circoncisione femminile e il Profeta Muhammad non si è mai espresso su questo tema”. Anche a proposito del hijab, vale a dire del celo adottato da alcune donne musulmane per coprire i capelli e il collo, Tantawi ribadì sempre nel 2003 che esso era da considerarsi obbligatorio in uno stato musulmano, ma che i paesi non-musulmani che adottino eventuali norme giuridiche atte a vietarne l’uso agiscono secondo un loro legittimo diritto al quale i musulmani che vi risiedono sono tenuti a uniformarsi (tale opinione fu comunque contestata dal segretario del Consiglio Superiore degli Affari Islamici d’Egitto, che la definì un parere personale che non poteva esser considerato come proprio dell’università cairota nel suo complesso). Incertezze e polemiche si registrano negli ultimi anni in vari paesi musulmani anche a proposito dell’uso del niqab (il “velo integrale”) e dell’apostasia, vale a dire l’abbandono dell’Islam in un paese musulmano, che nell’Arabia saudita, in Iran e in Marocco è punita con la pena capitale e in altri paesi con una detenzione di varia durata. Sulla stessa validità della sharia governi e scuole giuridico-teologiche musulmane stanno discutendo, con vari esiti: il nuovo Codice di Famiglia marocchino, promulgato nel 2004, riconosce la parità giuridica tra uomo e donna e il diritto della donna di sposarsi senza essere rappresentata da un “tutore” e di chiedere il divorzio, nonché rende molto più difficile di prima la poligamia.
Il processo di un’intesa internazionale e interreligiosa alla luce non già dell’omologazione, bensì del rispetto per le diversità e le specificità, e nella sistematica sostituzione della violenza con la trattativa, appare comunque un dato confortante che si va affermando, sia pure tra momenti d’inversione di tendenza e fasi di crisi e di ristagno, nelle relazioni tra musulmani e non-musulmani come in quelle che in tutto il mondo caratterizzano quanti aderiscono a un qualunque sistema di valori religiosi e quanti, invece, confidano esclusivamente nella ragione, nell’intelligenza e nella volontà umane. L’itinerario è arduo e, negli ultimi tempi, è talora sembrato più lungo e difficile di quanto non paresse alcuni decenni or sono, ad esempio nel quarto di secolo circa di forse eccessivo ottimismo seguito alla seconda guerra mondiale. La mèta è lontana, come i recenti fatti relativi al Vicino e al Medio Oriente e all’Africa dimostrano: ma non manca chi non si lascia vincere dalla stanchezza e prosegue in quel che i musulmani davvero intendono quando parlano di jihad, “lo sforzo sul cammino indicato da Dio”.

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