Minima Cardiniana 332/4

Domenica 20 giugno 2021, San Metodio

IDENTITÀ ITALIANA. UN PROFILO CRITICO
In occasione del già citato dibattito di “Rete 4”, non sono mancate le Anime Belle che si sono preoccupate dell’identità italiana, a loro dire minacciata dall’Islam. Basta per la verità un’anche superficiale visita a città come Venezia, Pisa, Bari, Salerno (per tacere una regione intera, la Sicilia) per rendersi conto di quanto l’Islam sia estraneo alla nostra identità. Del resto, i due milioni e mezzo di cittadini italiani di religione musulmana (la seconda comunità religiosa nazionale dopo la cattolica) sono lì a dimostrare che noi, con quel credo barbarico e disumano, niente abbiamo a che fare. E allora, rinfreschiamoci le idee anche sull’identità italiana: idee che per molti sono poche ma confuse.

FRANCO CARDINI
IDENTITÀ ITALIANA, POLICENTRISMO, QUESTIONE MERIDIONALE
Oltre un secolo e mezzo dagli atti istituzionali che sancirono la fondazione di uno stato nazionale unificante l’intera penisola italica (a parte qualche lembo) e le sue genti, le quali sia pure con alcune variabili dialettali parlavano lo stesso idioma, si continua a discutere sull’esistenza o meno di un’“identità” italiana, sulla sua qualità, sui suoi limiti. Stiamo pure al gioco: e cominciamo quindi col dichiarare illegittima e ingiustificata l’ipotesi che una “identità” italiana possa obiettivamente non sussistere. Ma se partiamo da questa base, essa dev’essere verificata.

I caratteri dell’identità
Credo che, quando si parla di “identità”, se si vuol far un discorso corretto si debba cominciare a circoscriverne i caratteri. L’identità è la coscienza di se stessi – anzitutto “sentita” e “vissuta”, ma della quale bisogna pur sforzarsi di acquisire razionale consapevolezza –: pertanto della propria specificità, di quel che distingue “noi” dagli “altri” e della gradualità, appunto, dell’essere “noi” rispetto agli “altri”, secondo criteri di maggiori o minori prossimità e/o affinità. Il che significa che l’identità è per sua natura dinamica (in quanto si modifica nella storia) e imperfetta (in quanto nessuna comunità, come del resto nessun individuo, può vantare un’identità assoluta, metafisica e metastorica, “globale”: ciascuna identità si misura su concreti parametri storici, spaziali, genetici, linguistico-dialettali, religiosi, antropologici).
Nell’Italia d’oggi si è affermata a livello politico e massmediale una sorta di “neolingua”, di nefasta orwelliana memoria, che rischia di render le acque della nostra reciproca comprensione più torbide di quanto già non siano. È la “neolingua” nel nome della quale, ad esempio, si definisce “buonismo” qualunque tipo di atteggiamento caratterizzato da quel che si giudica un eccesso di tolleranza, di altruismo, di umanitarismo, di comprensione, spinto fino alla debolezza: e nel nome della quale troppo facilmente si condannano le scelte tese a risolvere i nuovi problemi che il presente c’impone di affrontare (ad esempio l’immigrazione illegale e il disagio causato dalle vecchie e dalla nuove povertà) con equilibrio e senso di solidarietà. Spesso, si disprezza e si condanna come “buonismo” quella ch’è solo la vecchia, cara carità cristiana.
Allo stesso modo si usa di solito condannare, o comunque guardare con sospetto, il cosiddetto “relativismo”. Al riguardo vanno però notate almeno due cose. Primo: non bisogna confondere il concetto di “relativismo morale” – che implica un’adattabilità utilitaristica di concetti e valori di per sé concepiti come innegoziabili – con il “relativismo antropologico”, che altro non è – ce l’ha insegnato un grande scienziato ch’era anche un grande spirito libro, Claude Lévi-Strauss – se non il principio secondo il quale ciascuna cultura va compresa e giudicata alla luce dei criteri e dei valori che le sono propri. Secondo: bisogna guardarsi dal giudicare comunque come frutto di “relativismo” quel ch’è invece, in ogni caso, applicazione del principio della “relatività”, che è caratteristico dei parametri storici e politici. Difatti, è del tutto legittimo perseguire principi assoluti: ma senza dimenticare che l’Assoluto è un parametro teologico, mistico e filosofico, che non può essere tradotto se non in modo mediato e articolato nella realtà storica. La convivenza tra principi religiosi e filosofici differenti è difatti una prassi politica, tesa a salvare l’essenziale di quanto nella culture “altrui” è considerabile come assoluto, senza danneggiare tuttavia i valori assoluti di nessuno, e quindi imparando a rinunziare a quanto essenziale non sia. Bisogna tener presente che il contrario del “relativismo” non è, come potrebbe sembrare, l’“assoluta obiettività”: ma è, al contrario, il più spudorato soggettivismo elevato arbitrariamente a categoria generale e universale. Chi ad esempio ritiene “relativistico” l’atteggiamento di quanti rifiutano d’imporre agli altri, come cànone civile, gli esiti delle proprie convinzioni personali a livello religioso e morale, dimentica che tali convinzioni sono senza dubbio assolute e innegoziabili a livello intimo e personale (in sede di “fòro interno”, come una volta si sarebbe detto): ma – in una società che si autodefinisce “laica” e che tiene alla sua “laicità” – l’unico modo non già d’imporle, bensì di proporle agli altri è il discuterne pacatamente e il dimostrarne razionalmente l’eccellenza. “Voi vincerete, ma non convincerete”, fu affermato nell’altissima replica pronunciata nell’Università di Salamanca, nell’ottobre del 1936, da Miguel de Unamuno al Viva la Muerte! del generale Millan Astray. Questa è la vera sfida che chiunque si senta portatore di valori assoluti in una società laica è chiamato a raccogliere: convincere chi non li condivide che essi sono quelli giusti, o quanto meno quelli più opportuni.
Ecco perché il discorso sulle identità, essendo per sua natura storico, sociologico, antropologico e sul piano dei valori pratici anche politico, non può svilupparsi se non all’interno di un contesto di “segni” e di significati relativi: e anche chi li viva come assoluti non può non accettare questo piano di discussione, dal momento che appunto di storia, di sociologia, di antropologia e di politica qui si parla, non di teologia o di filosofia o di mistica.

Identità, pluralità, relatività
Ora, le “identità”, tutte, hanno la caratteristica fondamentale della pluralità: esse possono inoltre presentarsi tanto come comunitarie quanto come individuali. Esse sono inoltre – come all’inizio di questo discorso dicevamo – dinamiche, essendo soggette al mutamento storico; e imperfette, in quanto alla loro configurazione dinamica concorrono ordinariamente fattori identitari provenienti da altra origine.
Un’identità “nazionale”, ad esempio, non può sacrificare la sua complessità a proposte riduttive che intendano semplificarla. La “nazione” si sovrappone difatti, magari con l’ambizione di sintetizzarle ma senza necessariamente risolverle tutte in se stessa, a una serie di “identità” non solo individuali, ma altresì familiari, cittadine, municipali, regionali, che corrispondono ad altrettanti complessi modi di essere i quali si traducono anche in valori linguistici, etici, addirittura estetici. Esistono inoltre altre dimensioni, esse stessi identitarie, che sono ad esempio quelle religiose, da cui dipendono in gran parte le stesse scelte etiche e civiche (indirettamente perfino estetiche: in quanto simboliche). Le scelte e le tradizioni religiose incidono potentemente sulle identità nazionali, che sono storicamente parlando più “giovani” di esse: tuttavia solo di rado e di solito per brevi periodi, nella storia umana, valori nazionali e valori religiosi (pensiamo a una religione “storica”, incarnata anche in istituzioni ecclesiali o comunque socioculturali concrete) coincidono. A ciò si aggiungono, a completare ma anche a complicare il quadro identitario comune all’interno del quale ogni individuale componente di esso dovrebbe pienamente riconoscersi, altre componenti che sono certo connesse con fattori storici e religiosi, ma che tuttavia riguardano a livello più intimo il nostro essere e il nostro divenire: il sesso con le relative inclinazioni individuali e il valore sociale che ciascuna di esse riveste, la fascia d’età, la condizione socioeconomica, quella psico biologica (lo stato di salute, le aspirazioni, la “speranza di vita”, la “ricerca della felicità”), quella socioculturale.
Prima di procedere oltre, va a questo punto introdotta una considerazione storica fondamentale. Il cammino della Modernità occidentale, dal Cinquecento e con maggior forza dal Settecento in poi, è stato caratterizzato da un crescente ipertrofizzarsi dell’identità individuale, dell’ego, a vantaggio del quale si è teso a progressivamente sacrificare ogni altra identità: soprattutto quelle comunitarie, che per molteplici generazioni sono state considerate un ostacolo all’affermarsi – “assoluto”, appunto…- della Libertà e della Volontà dell’individuo. Ci si deve anzi render conto che questo è appunto, a tutt’oggi, il grande problema di quella che usiamo definire la “civiltà occidentale”: una dicotomia, che può rischiar di portar alla schizofrenia, tra la considerazione dei Diritti Umani (irrinunciabile, appunto, per noi occidentali: che anzi vi guardiamo come a un insieme di valori assoluti e universali) e la Volontà di Potenza individualistica, che in determinati momenti storici può essersi proiettata comunitariamente in progetti di tipo nazionale o classistico, ma che comunque è di per sé insofferente di limiti. Si è provato più volte, nella storia recente e meno recente (dal colonialismo sette-novecentesco alle recenti crisi irakena e afghana) a convincer noi stessi e gli altri che Diritti Umani generali e Volontà di potenza, quindi interessi, “occidentali” coincidessero. Ma si è trattato di un escamotage che ha sempre dovuto scoprir presto i suoi limiti: che insomma, a dirla appunto con de Unamuno, non ha mai “convinto” neppure quando ha “vinto”: e, che del resto, nemmeno la brutalità delle armi è mai davvero riuscita ad imporre, come appunto i “casi” irakeno e afghano drammaticamente dimostrano.
Ora, proprio questo è il punto su cui si deve forse innescare un progetto, se non addirittura attuare una scelta. Noi italiani di oggi – e non siamo i soli: anzi, siamo in ottima compagnia occidentale – abbiamo difficoltà a immaginare sul serio una “identità” che non sia soprattutto e anzitutto quella individuale, al massimo estensibile ai cerchi identitari di prossimità familiare e amicale. Quando invece, riferendosi al piano comunitario, molti parlano di “identità minacciata”, bisogna tener ben presente che le “identità” possono bensì venir combattute o addirittura represse: tuttavia, esse sono minacciate sul serio solo dal loro interno, dalla mancanza o dalla carenza di autocoscienza. Gli italiani, al pari di tutti gli “occidentali”, hanno curato specie negli ultimi due-tre secoli la crescita della propria identità individuale, per quanto altri valori – nazionali appunto, e in genere comunitari, nonché religiosi – si ponessero rispetto ad essa in controtendenza. Abbiamo quindi perduto la consapevolezza delle nostre tradizioni: e, d’altronde, anche della loro complessità. L’abbiamo perduta o, per meglio dire, l’abbiamo consapevolmente rimossa da noi: tra il primo-secondo e il settimo-ottavo decennio del secolo scorso gran parte della società italiana, da “destra” come da “sinistra”, ha fatto a gara nel respingere, rifiutare, deridere e dimenticare usanze e consuetudini ch’erano in realtà l’involucro esteriore di valori profondi. Come ha sostenuto Antonio Gramsci, l’unica autentica tradizione identitaria del popolo italiano nel suo complesso era quella legata ai riti, ai ritmi, ai valori etici della Chiesa cattolica: ma proprio contro di essi, giudicati in blocco nemici della libertà e del progresso, si è costruito gran parte del processo di unità nazionale noto col nome di “Risorgimento”. L’obliterazione è stata profonda e, allo stato presente delle cose, irreversibile: e si è tradotta perfino nella considerazione e nel sentimento del tempo, cioè in valori calendariali. Quanti di noi, che si dicono cattolici e che gridano di voler difendere le loro “tradizioni” contro gli assalti esterni (i “campanili contro i “minareti”…), sanno che cosa sono le Quattro Tempora o come si arriva a determinare calendariamente parlando la domenica di Pasqua?

Geostoria, geolinguistica e latitudinarismo
La penisola italica è stretta e lunga: ha la sua spalla occidentale in Francia (anzi, nel mondo borgognone-provenzale), quella orientale tra mondo germanico e mondo slavo, lo sprone e il tallone in quello greco-illirico (un maestro, Ernesto de Martino, ce l’ha insegnato molto bene), la punta del piede nel mondo arabo-africano; e le sue isole maggiori sono state per lungo tempo parte della realtà storico-linguistica greco-punica, quindi greco-latina, quindi arabo-berbera la Sicilia, poi normano-svevo-franco-catalana ancora la Sicilia, quindi tosco-ligure la Sardegna (al apri della Corsica, che geostoricamente appartiene alle pertinenze della penisola italica), infine iberica e principalmente catalano-aragonese entrambe (come ben sanno i sardi catalanofoni). Fin dall’inizio del primo millennio a.C. – ma in realtà già da prima –, l’Ausonia-Enotria-Italia è stata “molo d’approdo” e “piano di scorrimento” di una quantità di genti ciascuna delle quali le ha apportato parti del proprio patrimonio etnico, religioso, linguistico. Anche a voler abbandonarsi alle semplificazioni e alle astrazioni più estreme, si è costretti ad ammettere che non esistono soltanto italiani “settentrionali”, “centrali” e “meridionali”, italiani “adriatico-ionici” e “tirrenici”, ciascuno con caratteristiche dialettali e gergali che li distinguono. La stessa cultura “italiana” è in gran parte essa stessa dialettale e gergale: la “questione della lingua italiana” è in realtà antica di oltre un millennio e – se vogliamo farla risalire ai sermones bassolatini – ancora di più: ma i tentativi di costruire una lingua italiana, già perpetrati anche da figure come Dante Alighieri e Pietro Bembo, hanno finito con il venir risolti d’autorità, quando “fatta l’Italia, restavan da fare gli italiani”, adottando secondo il modello suggerito da Alessandro Manzoni e sull’urgenza delle necessità pratica unitarie il cànone linguistico dei “fiorentini colti”. Il che significa che, mentre la lingua inglese si è per esempio radicata nel kings English grosso modo già definito nel XV secolo e il francese si è fissato grazie al lavoro dei poeti della “Pleiade” prima e dei philosophes settecenteschi poi, l’idioma italiano non ha ancora due secoli di vita ed è stato sempre insidiato, inficiato, “inquinato”, da quei dialetti che in realtà sono un’irrinunziabile ricchezza delle nostre genti. L’adozione forzosa dell’italiano forzatamente unificato e formalizzato, che insieme con la leva obbligatoria e la scuola primaria obbligatoria è stata uno dei tre più potenti motori del processo d’integrazione nazionale tra 1860 e 1945, ha rischiato di farci perdere una quantità immensa e profonda di valori: basti pensare all’oblio purtroppo generalizzato, e comunque (per fortuna) solo apparente, della gran tradizione letteraria dialettale, dal Meli al Porta al Pascarella al Trilussa al Di Giacomo fino a Totò, a Eduardo e perfino allo stesso Pirandello che pur passa per un propagatore dell’italiano formalmente – e talora, in apparenza, “freddamente” – corretto, e che e stato capace di produrre un capolavoro assoluto come la traduzione in siciliano del Ciclope di Aristofane; uguagliato da Eduardo, con la sua splendida traduzione napoletana della Tempesta di Shakespeare. Si parla d’identità italiana: ma essa è mai davvero pensabile ed esprimibile senza la poesia, il teatro e perfino il cinema in dialetto, sia stato esso il napoletano che a lungo si e imposto nella canzone, il romanesco del cinema del secondo dopoguerra, ma anche il veneziano di Goldoni e di Gallina, il genovese di Govi, il friulano di Pasolini, il milanese di Rabagliati, il fiorentino-pratese di Benigni?
A ciò vanno aggiunti i valori religiosi, complicati dal peso storico che il papato, insediato nel centro della penisola, ha avuto sulla storia italiana, e dal fatto che la religione prevalente – appunto la cattolica – è ormai in crisi (vorrei ricordare al riguardo studi importanti ancorché non recentissimi, quali quelli di Pietro Prini o di Riccardo Chiaberge) – e che la maggior parte dei cattolici è fatta di “credenti” che sono soltanto sociologicamente tali: mentre esistono valori “laici”, che hanno potentemente contribuito alla costruzione storica di una “nazione italiana” unitaria, che sono in realtà profondamente anticlericali quando non addirittura, ed esplicitamente, anticattolici. Del resto, il rapporto tra politica e religione pesa sul nostro paese da molto prima dell’insorgere dell’anticlericalismo-anticattolicesimo di élite degli illuministi e delle logge massoniche: esiste una lontana tradizione antiecclesiale radicata nei movimenti religioso-popolari (e, come diceva Gioacchino Volpe, nelle “sette ereticali”) del medioevo, passata attraverso l’impietas soprattutto – ma non esclusivamente – ghibellina dei secoli XIII-XV (penso al “ghibellino” Ezzelino da Romano, ma anche al “guelfo” Sigismondo Pandolfo Malatesta), il non-conformismo di eretici e di “riformati” del Cinquecento – e ci soccorrono qui lezioni altissime, da Delio Cantimori a Giorgio Spini –, lo scetticismo “libertino” sei-settecentesco collegato con la rivoluzione scientifica allora in atto, per approdare all’anticlericalismo otto-novecentesco.

Resistenza antipontificia, “memoria del regno”, anticlericalismo, latitudinarismo: gli ingredienti di base della coscienza identitaria meridionalista
Si è trattato di una storia lunga, alimentata dal circolo repressione-ribellione soprattutto nei territori dello stato pontificio: ed è noto. Ma quanto ha pesato invece sulla costruzione dell’identità meridionale, nei decenni immediatamente successivi all’Unita, l’altro circolo tragico di repressione-ribellione, quello legato al “banditismo” endemico e di lunga durata e a quello più recente, istituzionale, prima nel “secondo” regno borbonico e poi nel periodo postunitario; e l’altro ancora, quello dell’immigrazione tanto interna quanto diretta all’estero, in gran parte dovute alle esigenze dello sviluppo industriale del Nord a spese del sud e a questioni sociali eternamente irrisolte a causa di un pervicace sostegno dato dei governi dell’Italietta postrisorgimentale a un “sistema dell’ingiustizia sociale” che ha ad esempio impedito sistematicamente qualunque seria riforma agraria?
Ed eccoci pertanto, nonostante le infinite forme di massificazione e di omologazione dei giorni nostri, a un’“identità-mosaico” che non può non essere se non tale. Per esprimersi in termini schematici, ma pensati appunto per far emergere contrasti e contraddizioni: come possono ad esempio un italosettentrionale laico, maturo, di sesso maschile, mediamente abbiente, d’istruzione corrispondente alla scuola media secondaria, e una italomeridionale o isolana giovane, magari disoccupata e ragazza-madre, d’istruzione elementare o medio-primaria, nullatenente, cattolica oppure ebrea (e oggi magari musulmana), condividere la stessa “identità nazionale”? Di quali “Fratelli d’Italia” andiamo mai blaterando?
Questo è forse, dal punto di vista storico, il principale ostacolo da affrontare quando si parla di una “identità italiana”. La costruzione del processo unitario nazionale nel nostro paese non solo è stata recente (datando al massimo dalla fine del Settecento, ma in realtà piuttosto dalla meta dell’Ottocento): essa si è realizzata sulla base dell’adozione di un modello, quello centralizzatore di giacobina e bonapartistica memoria, ch’era per molti versi congruo con la tradizione storica del paese nel quale era nato, la Francia, ma che non era per nulla coerente con la storia della penisola. Ch’è storia policentrica, regionale, municipale, comprensoriale, cittadina, addirittura familiare (e qui hanno avuto ragione tanto Jacques Heers quanto Paul Ginsborg). Storia di varie “patrie” senza dubbio incoerenti e magari reciprocamente incompatibili, ma tuttavia profondamente e lungamente vissute, praticate, sentite: e soprattutto amate. “la patria, uno se la sceglie”, è stato detto; “La patria è quella dove si vive”; c’è chi ha sostenuto che la sua patria è il mondo intero; ma il detto più italiano fra tutti è quello di chi ha sentenziato che “la patria è la propria parte”.
In tedesco, vi sono per indicare la patria due parole: Vaterland, che qualifica in senso generale la “terra degli antenati”; e Heimat, da una radice linguistica significante il segreto, il mistero, il cuore nascosto delle cose.
Dinanzi a una nazione italiana centralizzata nata, e sviluppatasi contro le tradizioni antropologicamente stratificate (da etruschi e greci a celti, a longobardi, ad arabi), policentriche e regionalistiche delle genti italiche, e dopo un secolo e mezzo di vita nazionale ch’è per più versi stata una “falsa partenza” (pensiamo al tentativo di trasformarsi in grande potenza europea e al suo lungo contraccolpo, che ha diviso e ancora in parte divide le coscienze), ora la “seconda repubblica”, se è nata, ha scelto la forma federalistica: il che vuol dire che ha in gran parte rifiutato un modello nel quale per un secolo e mezzo gli italiani avevano cercato e creduto d’identificarsi, bisogna trovare il coraggio di accettare il fatto che un’autentica “identità italiana” è ancora da costruire. E che va costruita di nuovo. Il che non implica un rifiuto del passato: bensì una rilettura storica faticosa e profonda (che ne e, ad esempio, della nostra grande tradizione municipalistica e regionale per quasi mezzo millennio vissuta e praticata all’interno di quegli stati italiani preunitari la storia, le istituzioni, la vita dei quali e stata forzosamente obliterata nell’ultimo secolo e mezzo, ma che pure hanno lasciato tracce profonde?). Il ripensamento storico (“revisionistico”, dirà qualcuno: ma la storia è revisione continua di giudizi precedenti, o non è nulla) va accompagnato altresì da un atteggiamento positivo ed energico di fronte alla realtà presente e alle possibilità del futuro. Nessuno di noi può rinunziare alla sua Heimat profonda.

Smascherare la frode e accettare la sfida del disincanto
Proprio questo è il punto. La pluralità identitaria presente in quella penisola che è policentrica per sua natura, ma che per lunghi secoli è stata caratterizzata da una policentricità municipalistica e al massimo regionalistica al nord e al centro, mentre al sud ha vissuto nei secoli un’identità istituzionale e anche policulturale più ampia e solida, caratterizzata dai grandi principali e dai regni, nel Meridione e nelle isole: l’amministrazione bizantina, la realtà emirale arabo-berbera in Puglia e in Sicilia, poi l’unificazione regia normanna sotto l’ipoteca istituzionale pontificia, quindi il sia pur instabile equilibrio normanno-svevo, poi il lungo duello angioino-aragonese, quindi il viceregno islamo-asburgico e ispano-borbonico, poi la frode dell’“unità” italiana ch’è stata in realtà espansionismo sabaudo-piemontese cui si sono acconciate le élites meridionalcontinentale e siciliana (quella sarda l’aveva già fatta) in quel lungo processo raccontato da De Roberto, da Alianello, da Tomasi di Lampedusa e meravigliosamente descritto ne Il Gattopardo dalla frase romantica e cinica di un personaggio splendido, l’aristocratico e raffinato nobile siciliano datosi ai garibaldini, “Bisogna che tutto cambi perché tutto resti come prima”. Ed è qui che dovrebbe forse innestarsi nella nostra coscienza identitaria anche un ripensamento rinnovato del fenomeno del brigantaggio, come movimento contestativo e come “banditismo sociale”.
L’Italia è un immenso ponte di scorrimento al centro del Mediterraneo: ed è ridiventata un’area di centrale importanza internazionale con l’apertura del canale di Suez, che ha dato nuove speranze ai nostri armatori navali e li ha indotti – nel miraggio di un rinnovamento che avrebbe dovuto essere decisivo e che andava ad esempio nella stessa direzione della lunga, tenace anglofilia (in Sicilia come in Portogallo) di aristocrazie terriere desiderose di riciclarsi in termini imprenditoriali-industriali e di borghesia affaristiche. Si sapeva che le élites italiane, dopo aver imposto all’Italia una soluzione statuale centralizzante e unitaria del tutto lontana ed estranea rispetto alle secolari tradizioni storiche policentriche italiane, avevano fra Anni Quaranta e Anni Cinquanta guardato alla superpotenza del Secondo Impero francese, che garantiva la vitalità dei traffici coloniali tra Algeria e Libano. Ma Napoleone III era sostenuto dai cattolici, che mai avrebbero consentito al giovane regno d’Italia di occupare anche lo stato pontificio: e d’altra parte ecco il capitalismo inglese che, mentre si andava scavando il canale di Suez, già sognava di egemonizzare l’intenso traffico indirizzato attraverso il Mediterraneo alla volta dell’India e viceversa.
Bisognava quindi liberarsi di Napoleone III, che proteggeva lo stato della Chiesa e deteneva la maggioranza azionaria dell’erigendo canale di Suez. Ed ecco la chiave della nuova alleanza del giovane regno sabaudo, che “mollò” la superpotenza francese per appoggiarsi a quell’asse anglo-tedesco che aveva provocato, con la guerra franco-prussiana del 1870 (il canale di Suez era stato inaugurato l’anno prima), la débacle e l’abdicazione di Napoleone III.
Risultati rivoluzionari per l’Europa e crollo delle illusioni imprenditoriali italiane: l’Impero francese distrutto, inaugurato l’impero britannico dell’India con la corona cinta da Vittoria nel 1876, anglicizzazione di gran parte degli utili dei traffici mediterranei tra Gibilterra e Suez ormai entrambi britannici, accettazione da parte dei ceti dirigenti italiani dell’egemonia tedesca appoggiata dalla Sinistra storica ma ben modesti vantaggi e progressi delle installazioni ferroviarie, della rete portuale, delle costruzioni cantieristiche, insomma di tutto il Ben di Dio che il Meridione e la Sicilia si attendevano dal compimento dell’unità d’Italia e dal passaggio della funzionalità all’egemonia francese a quella anglo-tedesca, divenuta solo inglese dopo il 1914. Se con questo spirito rileggiamo il discorso tenuto da Mussolini il 10 giugno 1940 per annunziare agli italiani l’entrata in guerra, sotto la vernice retorica e nonostante il camuffamento delle ragioni autentiche (lo sfruttamento delle vittorie tedesche in Francia), questi problemi riemergono tutti. Italietta, questione meridionale, aggravamento d’un “dislivello” già datante dalle economie “dominate” di età sveva e angioina in cui ad esempio la prosperità siciliana era stata svenduta a genovesi e pisani, ritardo storico-culturale, emigrazione, malavita. Sono i mali storici, che il periodo 1944-’45 dell’occupazione statunitense – seguito a ruota dall’egemonia politico-militare della NATO che grava su tutto il quadrante sudorientale mediterraneo al giorno d’oggi – hanno aggravato e reso irreversibili e che nessun indipendentismo è stato in grado non solo di curare, ma nemmeno di correttamente individuare dal punto di vista storico. E allora?
E allora, esauritosi anche il “meridionalismo storico”, la fatica di Sisifo dello storico deve riprendere. Ripensare, ridefinire, riscrivere, rifondare la politica.
La storia e la realtà attuale c’impongono non solo la consapevole accettazione di quel ch’è stati storicamente il nostro pluricentrico e policulturale Vaterland italiano, bensì addirittura la considerazione di quello che in tedesco si chiamerebbe il Grossvaterland, la “Grande Patria”: che per tutti noi è l’Europa, al di là del carattere insoddisfacente di quelle che a tutt’oggi sono le sue istituzioni comunitarie, che restano nonostante tutto una ricchezza e il cui percorso e sostanzialmente irreversibile, per quanto grazie a Dio non irriformabile. Ma molti di noi, questo “essere europeo”, lo vivono da euromeridionali, da “euroterroni”, cioè da euromediterraneo; cioè da europei che si sentono prossimi ai Balcani, al Vicino Oriente, all’Africa settentrionale. Tutto ciò impone un recupero di valori magari antichi, magari dimenticati, ma al tempo stesso la scoperta di nuove frontiere ma anche di nuovi contenuti culturali, di nuove affinità, in grado di collaborare alla costruzione di un’“identità comunitaria” che ancora non esiste, e i desueti modelli storici della quale debbono esser per forza anzitutto esplicitati, cioè riportati alla conoscenza comune (e in ciò il concorso di scuola e di massmedia sarebbe fondamentale), quindi messi in discussione.
Se riusciremo a vincere questa sfida, potremo parlare sul serio di una “identità italiana”. Nei Demoni di Dostoevskji uno dei personaggi più intensi, Shatov, a chi lo accusa di essere ateo risponde: “Io crederò in Dio”. Shatov intende dire che accetterà di dirsi credente se il popolo russo, nel suo insieme, saprà riscoprire gli autentici valori religiosi che stanno alla base della sua esperienza comunitaria profonda. Oggi, nei confronti dell’Italia, molti di noi si sentono personalmente un po’ come Shatov: “Io crederò nell’Italia se, al di là di nostalgie e di nuovi fanatismi, sapremo riscoprirci italiani, anche aprendoci a chi ancora non è tale eppure in buona fede e buona volontà intende diventarlo, perché il ricambio è una forma di rinnovamento e rinnovarsi è indispensabile anche biologicamente, in tempi di decremento demografico principalmente dovuto sul piano delle scelte morali al benessere e al consumismo”.
Recuperare valori – come dicevo or ora – magari addirittura antichi e dimenticati, quindi ripensarli (non si tratterebbe certo di un recupero archeologico-museale) e proporli a nuovi concittadini, a gente venuta da fuori o nata e cresciuta fra noi ma figlia d’immigrati, e al tempo stesso non chiudersi alle sacrosante e legittime istanze di chi, trovando con noi e presso di noi una nuova patria, non per questo vuol voltare del tutto e repentinamente le spalle a quella che è stato costretto ad abbandonare (che cos’altro hanno fatto mai i nostri poveri connazionali costretti, fra Otto e Novecento, a cercar un pezzo di pane e una casa in America e in Australia?), potrà apparire come la quadratura del cerchio. Ma è la chiave di volta del rinnovamento e quindi del futuro: poiché, come e stato detto, o ci si rinnova o si perisce. Non si può stabilire una prognosi e una terapia adeguata, quando se ne ha bisogno, senza una lucida e spietata diagnosi.

Il senso di un impegno futuro
La diagnosi dello stato di salute dell’Italia è ancora quella presentata nel rapporto ISTAT del gennaio 2010: rispetto al quale le cose sono ulteriormente peggiorate. Il paese sta progressivamente e rapidamente invecchiando; la nostra economia si regge in gran parte su un “lavoro nero” i proventi del quale finiscono in gran parte nelle tasche di gente che poi finanzia e fomenta, direttamente o indirettamente, la xenofobia e soffia sul fuoco della più infame delle guerre, la guerra tra poveri; gli italiani sono ai primi posti nel mondo nel possesso e nell’uso dei telefonini portatili, ma cresce esponenzialmente l’ignoranza.
Non c’è dubbio che le generazioni che oggi sono adulte, mature o anziane, insomma quelle degli italiani nati nel mezzo secolo tra 1930 e 1980, sono le responsabili di tutto ciò. Se quelle nate nel mezzo secolo precedente ci hanno condotto alla guerra e alla rovina, le attuali – prendiamo in blocco quelle di chi oggi è padre o madre, nonno o nonna – sono le responsabili della cattiva e irresponsabile gestione degli anni della ricostruzione e del benessere. Le generazioni nate nel cinquantennio precedente gli Anni Trenta (ovviamente sto schematizzando un discorso che andrebbe attentamente articolato) sono forse ree di averci passato un cattivo, usurato, inquinato testimone; le nostre (io sono del ’40) lo sono di una colpa ancora peggiore, quella di non aver saputo consegnare ai loro figli alcun testimone: sono state il team latitante nella corsa a staffetta della storia. Ai nostri figli e nipoti, abbiamo consegnato solo un peraltro fragile benessere, insieme con la cultura dei consumi. Abbiamo permesso che essi crescessero nell’ignoranza quasi totale di quelli che globalmente si definiscono “valori immateriali”, prigionieri di una Civiltà dell’Avere (ricordate il vecchio Erich Fromm?) che ha loro del tutto nascosto la Civiltà dell’Essere. Su questo deserto sono cresciute le malepiante dell’indifferenza, dell’insensibilità, del disimpegno sociale, della diseducazione civica: le malepiante che hanno prodotto una società civile italiana largamente assente a se stessa, tutta pretesa di diritti e niente assunzione di doveri. Lo abbaiamo visto con la pandemia del Covid-19. Una società profondamente malata, dai livelli alti nei quali si evadono alla grande le tasse e si consumano gli abusi più scandalosi ai livelli bassi di chi non è nemmeno in grado di capire l’importanza di un corretto modo di parcheggiare l’auto o di eseguire la raccolta differenziata dei rifiuti; e dalla noia, dall’angoscia, cui si risponde magari con la droga. Ma il vuoto morale e spirituale, il vuoto dei valori e dei doveri, è come qualunque altra forma di vuoto: non esiste. Viene immediatamente riempito. E, in una società ammalata di consumismo e di spettacolarismo, quel che riempie il vuoto è a sua volta per forza di cose costituito da falsi valori o da controvalori: dal carrierismo senza scrupoli nei casi “rampanti” alla ricerca di surrogati che abbiano una qualche lontana parvenza d’impegno civile ma che, pensati da e per soggetti incolti e corrotti, possono finir col costituire “rimedi” peggiori del male. E siamo alle false neoideologie che alimentano il patriottardismo da stadio, il “sovranismo” ingenuamente e semplicisticamente proposto come rimedio a un disagio economico-finanziario-monetario che non sa guardare alle cause più profonde (prime fra tutte la globalizzazione e lo “stato profondo” dell’impero delle lobbies), la xenofobia “di destra” o, su una sponda solo formalmente ad essi opposta, le tentazioni neosettarie e neoterroristiche “di sinistra”.
Per reagire a tutto questo, per uscire dalla morta gora attuale, bisogna per forza rivolgersi ai giovani. Farlo anzitutto, noi adulti e magari anziani, partendo da un nostra culpa, nostra culpa, nostra maxima culpa che non sia una recriminazione pietosa, ma una virile assunzione di responsabilità. Oltre un secolo fa Giosuè Carducci, rivolgendosi ai giovani del suo tempo dalla sponda della sua generazione, quella che aveva fatto il Risorgimento e aveva coscienza di averlo fatto male, poteva dedicar loro un intenso viatico, adatto ai suoi tempi: “Noi troppo odiammo, e sofferimmo: amate”. Ma noialtri, che abbiamo fallito il dopoguerra, il boom della società del benessere prima e del semimalessere ch’è venuto dopo, non abbiamo né odiato né sofferto: e soprattutto non abbiamo insegnato ai nostri ragazzi ad amare un bel niente. Li abbiamo solo lasciati a se stessi, senza parlar loro, senza comunicar né trasmettere (traditio deriva da tradere: ed è, attenzione!, radice comune delle due parole italiane “tradizione” e “tradimento”) loro un bel nulla: soli nella loro consumistica sala-giochi, E non è solo un modo di dire. Quanti, che oggi hanno dai quarant’anni circa in giù, potrebbero testimoniare che la loro prima e vera, magari unica balia e compagna di giochi è stata la TV? Il danno che in tal modo abbiamo loro procurato, soprattutto al livello della devastazione dell’immaginario, è incommensurabile, inimmaginabile e irreparabile. La stessa crisi della fede cattolica, della famiglia, della scuola, della solidarietà, del principio positivo di autorità (che non è autoritarismo) sta sostanzialmente tutta qui. Dopo le macerie materiali del ’40-’45, è sulle rovine morali e culturali degli ultimi decenni, non meno impressionanti e terribili, che bisogna meditare. Per ricostruire con fatica e dolore, come nell’immediato dopoguerra. E non crediate che i detriti dell’anima si rimuovano più facilmente di quelli fatti di muri crollate e di metallo contorto; non crediate che l’edificio dello spirito si restauri prima e più facilmente dei monumenti e delle fabbriche distrutti dalle bombe.
Ricorriamo quindi alla necessaria medicina già prescritta da Max Weber: il disincanto. Cominciamo a esporre con chiarezza ai giovani d’oggi il quadro del nostro fallimento e dei rischi che essi corrono di conseguenza. Mostriamo loro come l’unico testimone che noi diamo l’impressione di aver loro passato, il Nulla, non può essere appunto un testimone: e che come tale va respinto. E ripartiamo: dal nostro linguaggio italiano, ch’è molto più della lingua italiana convenzionalizzata e astrattizzata da un lavoro di nazionalizzazione delle masse che andava pur fatto, tra Otto e Novecento, ma che deve costituire una base e una traccia, non una gabbia. Ripartiamo dal linguaggio della nostra storia policentrica, delle nostre tradizioni in gran parte dimenticate e tutte da riscoprire, della nostra sensibilità collettiva, del Bello che nei secoli le genti d’Italia hanno saputo produrre e proporre al mondo: e scegliamo quanto di tutto ciò costituisce un capitolo da sigillare e riporre sia pur con venerazione nella nostra memoria collettiva (da non relegare nell’oblio, quindi), e quanto è invece ancora fecondo e suscettibile di esser condiviso con i nuovi compagni di strada, con i nuovi compatrioti che vengono in gran parte a colmare un vuoto – anche demografico – del quale non loro bensì noi portiamo la colpa, mentre essi ne sono semmai le vittime, dal momento che il nostro pluridecennale benessere si è fondato sugli squilibri di una globalizzazione che nelle parti del mondo che essi o i loro padri sono stati costretti ad abbandonare ha prodotto ingiustizia e miseria. Vengono da lontano, privi di tutto o quasi dal punto di vista materiale, ma carichi di ricchezze morali e culturali che a loro volta debbono esser pronti a valorizzare e a condividere. In tal modo, potremo creare insieme nuove sintesi: perché un processo storico si alimenta sempre e soltanto di nuove sintesi, lontano dagli opposti pericoli sia del progressismo e del mondialismo astratti che sono rifiuto del passato, sia delle chiusure xenofobe che sembrano difensive e sono invece suicide perché costituiscono il rifiuto del futuro.
Questa è, qui e ora, la nostra battaglia d’italiani e di euromediterranei. Una battaglia della quale il Meridione dovrebb’essere il centro.