Minima Cardiniana 332/6

Domenica 20 giugno 2021, San Metodio

LIBRI LIBRI LIBRI
ALABAMA, TRA “PASSATO-CHE-NON-PASSA” E “RITORNO AL FUTURO”
Alessandro Barbero, Alabama, Palermo, Sellerio, 2021, pp. 262, euri 15
È cosa frequente, per quanto non comune, che uno studioso di professione specialista di medioevo sia anche uno scrittore e in particolare l’autore di romanzi storici; ma può stupire che egli, appena reduce dalla non lieve fatica di una corposa, impegnativa biografia dedicata a Dante (Laterza) – un best seller che ha fatto “saltare il banco” delle vendite – pochi mesi dopo ci stupisca sfornando un romanzo storico: per giunta dedicato all’Old Deep Dixie e alla guerra civile americana. La cosa ha in realtà un suo senso profondo. Alessandro Barbero – che non è per nulla un “divulgatore” – ha da tempo fornito con successo, accanto alle sue ponderate ricerche specialistiche, anche ottime prove nella divulgazione storica di qualità: sia con saggi redatti in uno stile limpido e accessibile ma che in realtà “divulgativi” non sono per nulla, sia con prestazioni televisive che negli ultimi mesi ne hanno fatto un quasi onnipresente “divo del piccolo schermo”.
Ma c’è poco da stupirsi se un “accademico” che ha scritto di storia greca a romana ma anche moderna e contemporanea (fino alla battaglia di Lepanto, a quella di Caporetto, all’impresa di Fiume) possa saltabeccare con nonchalance fino all’America dell’Ottocento e trovarvisi a suo agio. Va ricordato che nel 1996 il poco più che trentacinquenne Barbero, ancor promettente allievo torinese del grande Giovanni Tabacco, stravinceva uno Strega con Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo, romanzo storico dedicato a un giovane immaginario aristocratico americano piovuto nell’Europa napoleonica poco dopo la guerra d’Indipendenza. E ce ne volevano, di conoscenze storiche e filologiche, per render credibile un quadro di quella complessità.
Né basta ancora. Già alle primissime righe del suo Alabama – un autentico pocket, nel senso originario del termine – si viene assaliti da una prosa fluente, ruvida e al tempo stesso maestosa: qualcosa che con la sua punteggiatura quasi assente e con le sue continue riprese colloquiali fatte di anacoluti e di sineddoche richiama immediatamente William Faulkner e magari Mark Twain (nonché, visti ambiente e soggetto, perfino Margaret Mitchell e Harriet Stowe). E va ben ricordato allora che quando c’è del genio, quello vero, l’improvvisazione non serve granché: ci vuole studio. E Barbero, così ironico e brillante, è uno che le sue brave e serie ossa americanistiche perdinci se le è fatte: ad esempio come traduttore de Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane; a parte l’attenta lettura della Storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi, e anche quella si sente. Specie nella descrizione della battaglia di Chancellorsville, fronte della Virginia, fra l’aprile e il maggio aprile del ’62.
E allora immaginatevela, questa Alabama otto decenni dopo, nel bel mezzo della seconda guerra mondiale: con i suoi ruvidi e spiantati farmers che si chiedono come mai quei tali giapponesi ce l’abbiano con la libera America (e come mai tempo addietro gli yankees ce l’avessero con loro) e le bandiere confederate accanto alle porte di casa. Immaginatevi le poche Ford a giro, trabiccoli guardati con sospetto, e gli stagni pieni di zanzare, e la polvere dappertutto, e gli empori sgangherati dove c’è poco di tutto dalle candele al petrolio alle caramelle, e il sole a picco e il sudore.
Immaginatevi una studentessa spigliata e di buona famiglia che un professore progressista ha sguinzagliato alla ricerca degli ultimi testimoni viventi del macello di ottant’anni prima e che a casa sua vive con un padre che tiene il ritratto del generale Thomas J. Jackson, “Stonewell” Jackson – occhi di ghiaccio e barba nera –, appeso nello studio. Pensate a come la guardano, ai comenti che le fanno alle spalle.
Non ci crede, l’austero padre della ragazza, al fatto che i neri venivano massacrati, verso la fine della guerra civile. Ma lei rintraccia invece un vecchio pieno di catarro che mastica tabacco inchiodato alla sua poltrona, un reduce quasi centenario. I vecchi non ricordano quasi nulla di quel che hanno fatto il giorni prima. Però, di roba di ottant’anni prima, accidenti se si ricordano. Magari, semmai, non ne parlano volentieri. Se ne vergognano? Chissà…
Noi seguiremo questo lento, paziente esercizio psicanalitico-mnemotecnico, questo monologo quasi ininterrotto per 262 pagine che la ragazza riesce silenziosamente a dirigere. La banalità del male, la spontaneità non sai se fanciullesca o bestiale della violenza, la quotidianità di un mondo povero e ignorante dove la vita umana non conta, i rari idilli amorosi d’una sensualità tutta e solo carnale, e le vendette e gli stupri e le bestemmie e le bevute che ti disgustano e che pure, misteriosamente, ti affascinano. Whisky e granturco, scazzottate e inni al Signore Dio degli Eserciti, un mondo senza fede che rigurgita di religione. L’infinito massacro dei neri d’America ha queste radici. E il ventre che l’ha partorito è ancora gravido.
Il caso ha voluto che questo libro esca a poca distanza dai fatti del Black Lives Matter. Un bello scoop. Questa è fortuna editoriale e mediatica, si dirà. Senza dubbio. Il resto è studio, intelligenza, lungimiranza.
Franco Cardini

“LA STRANA COPPIA”
Hitler e Mussolini. Lettere, documenti, intercettazioni telefoniche, Pontassieve (FI), Adler Edizioni, 2021, pp. 260, euri 20,00
Di seguito riportiamo il testo integrale della Presentazione al volume, di Franco Cardini.
È vero. Per ridicolo e umiliante che possa sembrare, e magari in verità essere, resta il fatto che, da chiunque oggi si appresti a scriver qualcosa che riguardi il fascismo o la figura di Adolf Hitler (un po’ meno quella di Mussolini), per corrette e innocenti – e soprattutto non apologetiche – che siano le sue intenzioni, ci si aspetta almeno una preliminare giustificazione: solo quanti (ed è un paradosso nel paradosso) intendano parlarne per un qualche motivo di scoop o per ricavarci un profitto, oppure vogliano aggiungere la loro pietra al mucchio di contumelie e maledizioni che già ricopre quegli oggetti e la loro memoria, hanno il diritto di non scusarsi.
E già in queste brevi righe ho coscienza, come studioso e come cultore di storia, di essere incappato in almeno un’ambiguità, in almeno un atto implicitamente arbitrario. Ho accostato la parola “fascismo” al nome di Adolf Hitler. Mi sono in altri termini comportato come chi sia acriticamente convinto – e molti lo sono, o fingono di esserlo, o ignorano il problema – che fascismo e nazionalsocialismo siano una stessa cosa, o che il secondo termine sia una sorta di peggioramento del primo. Non sono affatto dell’avviso che sia così: e so perfettamente di essere in più ampia compagnia di quanto possa apparire. Dal canto mio, mi schiero – con la coscienza che il mio parere non ha in materia autorevolezza alcuna – tra coloro che preferirebbero semmai parlare di “fascismi”, al plurale, e che rilevano come siano esistiti (esistano?) anche “falsi fascismi”, regimi cioè che si fondano sulla forza e magari sulla violenza e che di simile al fascismo (o ai fascismi) presentano una più o meno sincera o più spesso ostentata coscienza patriottica tesa fino al nazionalismo, ma che mancano di due connotati senza i quali il fascismo non sussiste: una politica sociale nonché una forte e coerente “organizzazione del consenso” fondata su una costante mobilitazione delle masse (il che configura molti elementi, primo fra tutti un’adeguata politica culturale). Questi due connotati sono invece comuni al fascismo e al nazismo: ma a distinguerli e a differenziarli sono il razzismo indirizzato principalmente in senso antisemita (che il secondo riuscì a proporre/imporre al primo sulla base di un preciso iter storico e socioculturale) e l’atteggiamento dinanzi al tema dell’“uomo nuovo”, che il fascismo – almeno quello “primigenio”, l’italiano e mussoliniano – condivise piuttosto con il bolscevismo e che fa di esso un movimento socioeconomicamente parlando “di sinistra”, mentre nel nazionalsocialismo l’ispirazione tipicamente atavica e il radicamento nel passato magari manipolato e distorto in senso atavistico-völkisch hanno prodotto una costante tensione vòlta all’“uomo arcaico” (ma in entrambi i casi il risultato è stato quello di un atteggiamento anticristiano in genere e anticattolico in particolare, che pure certe forme di “fascismo” storico hanno corretto: si pensi alla Spagna, al Portogallo, all’Austria, alla Croazia, alla Romania, al Belgio, alla Francia stessa, pur ammesso che in quei casi si possa davvero in una certa misura parlare di movimenti e/o di regimi “fascisti”). Quel che si può comunque affermare è che, nei confronti di fascismo e di nazismo, il discorso storico, anziché concluso – com’è invece avvenuto nel caso del “socialismo reale” in Unione Sovietica, mentre perdura in Cina –, è stato interrotto dalla sconfitta militare e spazzato violentemente via: il che a rigore, non consentendoci di apprezzarne la completa parabola, mantiene aperto un inquietante ma anche affascinante interrogatorio su un processo di sviluppo che non ha avuto luogo. Né il fascismo “primigenio” né il nazionalsocialismo hanno potuto sopravvivere alla tragica fine dei loro rispettivi ideatori e fondatori. Certo è che il fascismo italiano, come tutti i movimenti in qualche modo al suo modello ispirati, è stato indotto/costretto da un certo momento in poi a subire la cogente influenza del nazionalsocialismo soprattutto in quel ch’esso aveva di peggio (ma, ohimè, anche di più qualificante) il razzismo: che ad esso ha consentito di sopravvivere in qualche modo, magari caricaturizzato, anche ben altre il suo decesso storico. I suoi tragicomici epigoni americani e perfino sudafricani e australiani ne sono stati la prova.
Non c’è comunque dubbio che origine e “brodo di coltura” del fascismo e del nazismo, non meno che del bolscevismo/sovietismo, siano analoghi: la temperie evoluzionistico-decadentista europea, anzitutto; quindi l’irrisolto nodo della “questione sociale” e il suo radicarsi e ramificarsi nel fallimento sociale di quelle istanze capitalistico-liberiste che pur l’avevano generata senza riuscire né a risolverla, né a contenerla; il dramma della prima guerra mondiale con i suoi milioni di morti e l’aberrante sviluppo sia di varie forme di degenerazione etico-sociale (milioni e milioni di disadattati usciti dalle trincee senza lavoro e senza prospettive sociali); la risposta disordinata e disorientata di masse disoccupate o sottoccupate dinanzi al fenomeno di un sistema capitalistico-liberista che, pur fallito sul piano sociale (e sia la guerra, sia le sue conseguenze, ne sono prova), era risultato paradossalmente vincitore di quello politico e militare senza però riuscir a risanare i mali che pur aveva provocato; Il fallimento delle parole d’ordine wilsoniane fondate sulla pacificazione generale e sull’autogoverno dei popoli e delle “cattive paci” generate dalla conferenza di Parigi del 1919-20. Un sistematico lavoro di depistaggio-repressione a livello politico e intellettuale messo in opera dai ceti dirigenti di quei paesi usciti vincitori dal conflitto del 1914-18, ma che non erano riusciti a dissimulare la loro mancanza forse di volontà, certo di capacità necessarie a correggere il fallimentare sistema di disuguaglianza e d’ingiustizia socioeconomica sul quale si mantenevano, finì col provocare – diciamolo “alla” Toynbee – una risposta drastica e drammatica, ma per più versi terapeutica: il totalitarismo, l’autentica novità del XX secolo. La maggior parte degli osservatori storici ha dissimulato tale realtà sostenendo che esso nacque dalla volontà aggressiva di fermare il socialismo; un grande storico conservatore, Ernst Nolte, ha viceversa affermato che il totalitarismo “di destra”, il fascismo e poi il nazismo, sorse come reazione rispetto al sovversivismo comunista. Nessuno ha osato osservare, con libero e pacato realismo storico, che il totalitarismo fu il rimedio – drastico, crudele e in ultima analisi fallimentare – nato dall’esigenza di rispondere con una qualche cura efficace al disastro mondiale causato dal capitalismo e dal colonialismo liberisti con la concentrazione della ricchezza e la proletarizzazione delle masse che ne aveva costituito l’esito. Che poi i due fronti “opposti” (!?) del totalitarismo si siano scontrati fra loro, e che di tale scontro abbia finito con l’avvantaggiarsi l’ipercapitalismo abbandonando le pur parziali terapie keynesiano-fordiste emerse all’indomani della crisi del ’29 – e dai totalitarismi affrontate con maggior successo – ed evolvendosi poi in quello che uno studioso che ne è pur stato un difensore, il Luttwak, ha definito “turbocapitalismo”. La cattiva coscienza di chi comunque, compresa la realtà, ha fatto in modo di grottescamente camuffarla per negarla, è emersa in una pervicace volontà – solo in apparenza “superficiale” – di sottolineare le “somiglianze” delle differenti forme assunte sotto il profilo storico dal totalitarismo, cercando di presentarle come casuali se non addirittura “estetizzanti”.
D’altronde, è un fatto che fra il turbocapitalismo e le forze che in vari modi gli si sono opposte sia in atto un conflitto che ha interessato entrambe le due guerre mondiali (fino a poter essere denominato “guerra dei Trent’Anni” del XX secolo) ma è poi continuati in Asia, in Africa e in tutto il mondo poiché gli squilibri dei quali oggi tutti noi siamo ancora vittime derivano in gran parte dalle “cattive paci” del 1919-20. E questo è uno dei motivi per i quali ancor oggi Hitler, Mussolini e anche Stalin sono, per la storia contemporanea, un “passato-che-non-passa”: e che a lungo continuerà a non passare.
Ed eccoci approdati ai due protagonisti del nostro libro: due personaggi per molti aspetti (a partire da quelli psicocaratteriali) reciprocamente estranei per non dire addirittura opposti e incompatibili: e Mussolini, già maldisposto a causa della sua germanofobia congenita nei confronti del suo interlocutore, come si rese conto durante il breve incontro di Venezia del ’34 e come espresse rigorosamente l’anno successivo durante la conferenza di Stresa, nella semindifferenza inglese e britannica). Due protagonisti di una “paradossale amicizia”: pressoché coetanei eppure separati da ambienti sociali diversi, da un differente training scolastico che li aveva spinti ad esperienze entrambe marginali (migrante l’uno, déraciné l’altro), da rispettive esperienze che del romagnolo avevano fatto un esperto giornalista, un buono scrittore e un capo riconosciuto della sinistra socialista italiana avevano reso l’alto-austriaco un solitario e solipsistico egocentrico. Eppure, molti e magari inaspettati erano i punti di contatto: entrambi anticristiani e anticattolici (anche se al materialista e bestemmiatore Benito si rispondeva, da parte di Adolf, con una sorta di naturalismo darwinistico tinto di misticismo pagano), entrambi amanti della musica e musicisti dilettanti, entrambi innamorati di Nietzsche, entrambi avversari accaniti del vecchio severo ordine asburgico e valorosi combattenti feriti e graduati della Grande Guerra, entrambi continti – e non a torto, sia pure per diversi motivi – che i loro rispettivi paesi fossero stati maltrattati dai trattati di pace che li riguardavano e pertanto ben decisi a radicare il loro nazionalismo nel terreno comune delle pretese “revisionistiche”.
Il dopoguerra li aveva indotti a trasformarsi in animatori di gruppi di ex combattenti restii a deporre le armi e a tornare alla normalità e caratterizzati da comuni istanze “rivoluzionarie” indirizzate però in senso antibolscevico (una scelta, questa, che non era stata ad esempio recepita né dal mainstream del “legionarismo” fiumano, come si verifica nella Carta del Carnaro, né da alcuni ambienti magari marginali dello spartachismo tedesco che avrebbero dato vita ai conati nazionalbolscevichi poi confluiti nella “sinistra” nazista dei fratelli Strasser). Ma Hitler aveva in un primo tempo fallito nei confronti degli ambienti borghesi-conservatori di Weimar, mentre Mussolini era riuscito a diventare il leader di fiducia di un mondo “borghese” che avrebbe continuato dal canto suo a disprezzare, e i privilegi del quale avrebbe in parte salvato costringendolo a camuffarsi da rivoluzionario.
Che lo Hitler frustrato dopo il Putsch di Monaco vedesse nel trionfatore della marcia su Roma un ispiratore e un Maestro, e ne scimmiottasse perfino comportamenti e ritualismi politici, è comprensibili; ma ci sarebbero volute tutta l’ottusità e la miopia dei “moderati” francesi e britannici per arrivare alla “perfezione” demenziale dello spingere quell’avventuriero italiano che pur molti dei loro esponenti di punta apprezzavano – Churchill fra gli altri e più degli altri – per gettar nelle braccia di quel goffo e ridicolo agitatore austriaco colui che dopo Venezia lo aveva definito un isterico mattoide, che odiava in quanto mandante dell’assassinio del suo amico Dollfuss e che aveva inutilmente denunziato a Stresa in quanto responsabile del riarmo tedesco. Ma le sia pur tardive e criminali ambizioni colonialistiche italiane avevano provocato da parte delle potenze liberali una risposta grossolana e maldestra, aumentando in progressione geometrica la popolarità del Duce presso gli italiani ch’era sostenuta anche da una massiccia organizzazione del consenso e da una politica di opere pubbliche e dalla costruzione di un welfare state che gli aveva procurato l’ammirazione dello stesso presidente statunitense Roosevelt nonché di Keynes e di Ford. D’altra parte, sotto il profilo delle politiche sociali ed economico-finanziarie il dirigismo hitleriano, sostenuto da un gigante dell’organizzazione bancaria come Hjalmar Schacht e puntando sulla scomparsa della disoccupazione e sulla disciplina del lavoro sostenuta dal sindacato unico militarizzato – l’Arbeiterfront – e da una solida rete previdenziale e dopolavoristica, avevano attratto sulla Germania nazionalsocialista l’attenzione del mondo intero, confermata dall’esito trionfale delle Olimpiadi berlinesi del ’36. Il restringimento delle libertà civili, l’inizio ancora in sordina della persecuzione sistematica antisemita e soprattutto il crescere colossale del debito pubblico – una conseguenza della crescita esponenziale degli armamenti – erano passati in sottordine: ed è stato osservato da studiosi di vario orientamento politico che, se il Duce e il Führer fossero scomparsi per un incidente o per una malattia fra ’36 e ’38, essi sarebbero forse ricordati oggi coma i salvatori dei loro rispettivi paesi, alla stregua di un Cavour o di un Bismarck.
Ma intanto il Totentanz europeo, determinato dallo spregiudicato comportamento di Hitler al quale Mussolini si era andato adeguando mentre le potenze occidentali lo subivano interdette, si era già avviato. Dopo l’avventura coloniale italiana fu la volta della guerra civile spagnola, quindi dell’Anschluss e, dopo i patti di Monaco il cui deus ex machina e “salvatore della pace nel mondo” era stato Mussolini nonché della scomparsa di quella creatura di Versailles ch’era stata la Cecoslovacchia, poi dell’occupazione italiana dell’Albania che metteva in crisi la “Piccola Intesa” balcanica, si era arrivati a un nuovo conflitto che aveva visto Hitler meravigliato – anche a causa dell’incapacità del suo ministro degli esteri, von Ribbentrop – dinanzi alla reazione francese e inglese a un’invasione della Polonia che il Führer stimava (non senza discrete ragioni) ben meno grave dell’esito del trattato di Monaco. Frattanto Stalin, dopo aver a lungo cercato di scuotere le potenze liberali dalla loro catalessi nei confronti di Hitler, aveva pensato bene di evitare l’isolamento diplomatico e di mettersi nel contempo al riparo da quelle che conosceva bene come le ambizioni estreme dei nazisti (il Drang nach Osten contro l’Unione Sovietica) negoziando con Berlino un trattato di non aggressione che gli avrebbe di lì a poco permesso di metter la mani sulla metà della Polonia, cancellando un’altra delle labili costruzioni originate dalla cattiva pace di Versailles.
Sono questi alcuni degli antefatti che consentono di comprendere nel suo autentico, prezioso significato il valore di un libro come questo, che rivede la luce dopo l’edizione rizzoliana del 1946 grazie alle cure di Paolo Sebastiani. Si tratta della presentazione sostanzialmente fedele e accurata di 67 documenti – in parte in edizione originale italiana, in parte in traduzione dal tedesco – che vanno da un messaggio telefonico del ministro degli esteri del Reich von Ribbentrop trasmesso all’ambasciatore tedesco a Roma von Mackensen il 2 agosto del ’39 con l’ordine d’immediata consegna al Duce e contenente soprattutto una serie di precisazioni a proposito del trattato a una serie nutrita di lettere, messaggi fonografici, mozioni di governo, intercettazioni telefoniche, note, verbali di riunioni, relazioni e comunicati vari fino agli ultimi quattro, drammatici “pezzi” che documentano l’eclisse di Mussolini e la sua uscita di scena, quanto meno fino al settembre del ’43. Si tratta di una tesissima nota del Duce, il 14 luglio di quell’anno, sulla situazione quattro giorni dopo lo sbarco alleato in Sicilia; di due relazioni sul convegno di Feltre del 19 successivo, allorché il Duce incontrò il Führer e il feldmaresciallo Keitel (commovente la presenza del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, ufficiale addetto al Comando Supremo, che sarebbe caduto otto mesi dopo sotto il piombo tedesco alle Ardeatine); e infine di una penosa relazione dei colloqui tenuti tra Feltre e Tarvisio pochi giorni dopo, il 6 agosto, assente per note ragioni Mussolini (era già prigioniero a campo Imperatore in Abruzzo) nell’agosto, presenti un Keitel e un von Ribbentrop semiostili e sospettosi e due generali italiani, Ambrosio e Guariglia, spaesati e non troppo convincenti per quanto non sappiamo se e fino a che punto consci del tradimento che stava per verificarsi. Una storia triste, che si legge con un senso di disagio e di umiliazione.
Tra i documenti qui editi, i più interessanti riguardano senza dubbio lo scambio epistolare fra i due statisti. Nell’arco di quattro anni, e pur tenendo presenti l’irregolarità della corrispondenza e l’eterogeneità, a tratti il disordine degli argomenti trattati – che per un corretto uso storico di questi documenti richiedono pertanto al verifica di molte altre fonti –, emerge come gradualmente il senso di rispetto e a tratti quasi di devozione con cui Hitler si rivolge a Mussolini (e che sarebbe del resto rimasto nella sostanza costante prova, se non più di ammirazione, quanto meno di un senso di amicizia e se vogliamo di simpatìa che, dall’altra parte, non erano ricambiate se non in modesta misura) sembra nel corso del conflitto, e dinanzi alla sfavorevole dinamica degli eventi, attenuarsi per dar luogo invece a rilievi e a critiche non sempre – forma a parte – granché dissimulati, mentre nel Duce l’iniziale prudenza cede gradualmente il passo a sentimenti e ad atteggiamenti che mutano con una certa rapidità nel tempo. Si trattava, nei primi mesi dopo lo scoppio della guerra, prima di convincere Hitler che l’Italia, pur avendo tutta l’intenzione d’intervenire nel conflitto, non avrebbe potuto esser pronta prima di qualche mese (si parlava del ’41, ma il governo italiano puntava in realtà al ’42; e d’altra parte era conscio che, per godere dei vantaggi della vittoria, era necessario entrare almeno formalmente sul campo); quindi di gestire i tempi iniziali di una drôle de guerre durante la quale sembrava non succedere nulla. Poi arrivò la primavera, l’assalto tedesco alla Norvegia, la penetrazione al di là della Linea Maginot, la marcia su Parigi: a questo punto l’esitante Mussolini si rende conto che il problema dell’inadeguatezza militare rimane ma che a prevalere c’è quello politico. Bisogna entrare in guerra, mettere sul piatto della bilancia della storia un mucchietto di cadaveri: il meno possibile, ma tanti da consentirci di sedere al tavolo dei vincitori.
E avviene: ma le cose cominciano presto a non andare. Sul fronte greco l’esercito italiano trova una resistenza inattesa e si rende conto di non essere troppo più moderno e ben equipaggiato del nemico; le cose non vanno bene neppure in Africa; il Duce moltiplica con il Führer gli appelli antisovietici, sostiene che bisognerebbe romperla con i bolscevichi e che tutto il partito fascista la pensa così (sa che in realtà non è vero, però mira a indurre Hitler a tentare ancora una volta la strada di una pacificazione con l’Inghilterra per quanto sappia che in ciò v’è se non altro l’ostacolo insormontabile di Winston Churchill). È inquieto, insoddisfatto, la sua ulcera si fa di nuovo sentire accompagnata in parte da disturbi forse psicosomatici; e moltiplica intento le richieste d’aiuto militare e logistico. Il suo interlocutore germanico si mantiene cortese e sollecito, s’informa della salute del collega, ma i suoi consigli sono sempre più delle direttive e le direttive si trasformano in qualcosa che somiglia agli ordini. Qua e là, balena nella sua prosa lo Hitler più irremissibile, più terribile: elogia il “fanatismo”, non esita a parlare di “vendetta”, rimprovera le carenze delle armi italiane specie in rapporto agli aerei e ai carri armati pesanti, dei quali gli italiani non dispongono. In Russia le cose non vanno bene, le possibilità d’indurre Franco a scendere in guerra per consentire all’Asse d’impadronirsi di Gibilterra sono sfumate. Così, giorno dietro giorno, i documenti ci parlano il linguaggio della fine delle illusioni. Solo noi, arrivati a leggere dell’agosto del ’43, sappiamo che le cose non erano ancora arrivate all’epilogo e che, per il protagonista di questo libro, il peggio doveva ancora venire.
Nessuno di questi documenti è nuovo, nessuno inedito. Li conoscevamo da tempo, e chi vuole può consultarli pubblicati nella serie Documenti diplomatici italiani. È stato tuttavia molto opportuno ripubblicarli: e conservare sia l’Introduzione, sia le brevi pagine di prefazione a ciascuna delle sei sezioni nelle quali il libro si articola, nonché le stringate ma utili note a piè di pagina. Tutto l’apparato critico è dovuto a una penna illustre, quella di Vittorio Zincone. È ovvio che si tratta di giudizi espressi tre quarti di secoli fa, e per giunta quando le ferite del conflitto erano ancora aperte, le ceneri ancora calde. Ma proprio per questo, dati per scontati i progressi in questi anni compiuti dalla letteratura critica in materia, stupiscono l’adeguatezza e la serenità di molti giudizi. Richiamo il lettore ai 9 punti con i quali Zincone, a p. XXIII, spiega perché in fondo gli alti comandi militari italiani, in quelle difficili circostanze, non potevano far molto più e molto meglio di quello che fecero. La gente era stanca, voleva la pace. Ma sottovalutava che l’Italia era ormai teatro di guerra e lo sarebbe rimasta: gli alleati insistevano per la “resa incondizionata, ma i tedeschi avevano da tempo approntato il “Piano Walkiria” per l’occupazione della penisola in caso di bisogno, l’armamento e il morale delle truppe italiane erano di livello molto basso e una parte dei militari in servizio apparteneva all’ex Milizia fascista e non si sapeva che cos’avrebbe fatto se e quando si fosse loro comandato di deporre le armi o di resistere alle truppe germaniche.
Un libro amaro, in fondo. Ma che contribuisce a chiarirci le idee sulla complessità della storia, dove il torto e la ragione non stanno mai tutti insieme da una parte sola.