Minima Cardiniana 333/3

Domenica 26 giugno 2021
XIII Domenica del Tempo Ordinario, San Cirillo di Alessandria

DEDICATO AI DOTTI ISLAMOLOGI PROTAGONISTI DEI DIBATTITI NEL PROGRAMMA TELEVISIVO “ZONA BIANCA” A PROPOSITO DELLA BARBARIE MUSULMANA
Nelle ultime due settimane, il programma televisivo “Zona Bianca” (in onda su Rete 4) è stato pressoché interamente dedicato a Saman Abbas, la ragazza pachistana (probabilmente) assassinata dai parenti per aver rifiutato un “matrimonio combinato”. Nelle due puntate finora andate in onda, il conduttore Giuseppe Brindisi e gli ospiti che si sono avvicendati hanno strumentalizzato il caso per attaccare violentemente l’Islam.

CRISTIANITÀ E ISLAM NEL MEDIOEVO. CIRCOLAZIONE DEI SAPERI, COMPLEMENTARITÀ DELLE CULTURE
“Allah è la Luce dei cieli e della terra. La Sua Luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su Luce”.
(Corano, sura XXIV, an-Nur, la Luce – Ayat an-Nur,35)

Qua e là, in certe guide turistiche e in certi libri d’arte, si coglie un buffo ma anche molto significativo lapsus: una delle tele più celebri ed enigmatiche del Giorgione, i Tre filosofi del Kunsthistorisches Museum di Vienna, viene battezzata I re magi. Non si tratta soltanto di un equivoco nato sulla base del numero “tre” – tale il numero dei magoi che non figura nel testo evangelico di Matteo, ma ch’è più tardi generalmente prevalso – bensì anche del fatto che in realtà i magi sono, tra Due e Cinquecento, alcuni tra i soggetti più comuni della pittura europea.
Ma c’è anche di più: il filosofo di età matura, al centro del quadro giorgionesco, ostenta in effetti un’acconciatura orientale, come quella consueta all’immagine dei magi almeno dal tardo medioevo; e – al pari dei magi – anche i tre filosofi appaiono scanditi in tre differenti età, cioè giovinezza, maturità e vecchiaia. Insomma, l’errore di qualche moderno e frettoloso compilatore di guide e di elenchi di opere d’arte risulta, a una valutazione un po’ più attenta, molto meno strano e molto più significativo di quanto potrebbe a prima vista sembrare. Che anche Giorgione in realtà, dipingendo i suoi tre filosofi – e non staremo qui a entrare nelle molte polemiche relative alla loro identità e all’interpretazione dell’enigmatico capolavoro – pensasse ai magi? Che fosse anche un po’ suo, il lapsus in cui sono incappati i moderni, incauti compilatori?
C’è un’identità profonda, tra il “mago” – i magoi evangelici possono essere sacerdoti mazdei, ma più probabilmente sono astrologi caldei –, l’astrologo, il sapiente, il filosofo: d’altronde, al tempo del Giorgione, le più antiche forme iconiche dei magi (l’acconciatura persiana altomedievale, che aveva poi dato luogo a uno sfarzo orientale più o meno fantastico) erano passate attraverso l’ermetismo ficiniano e la ridefinizione estetica determinata dalla sempre maggior conoscenza, in Occidente, dei costumi ottomani (pensiamo al Carpaccio e ai Bellini…), e nell’iconografia dei tre saggi d’Oriente che avevano seguito la stella, le funzioni della regalità e del viaggio – un po’ fiaba, un po’ carovana, un po’ corteo di caccia – avevano travolto e obliterato quelle propriamente sapienziali. Fino a un certo punto peraltro, se ancora il Beato Angelico, affrescando la sua Adorazione dei Magi nel convento fiorentino di San Marco negli Anni Trenta del Quattrocento, sentiva il bisogno di rappresentare uno dei suoi personaggi intento a consultare una sfera armillare: e si era in una città in cui astronomia e cartografia furoreggiavano, alla vigilia delle grandi scoperte oceaniche di cui i fiorentini Toscanelli e Vespucci sarebbero stati in diverso modo protagonisti[1].
Ma c’è qualche altra cosa che il Giorgione ci ricorda. Il suo filosofo maturo, col suo costume orientale, rinvia a un episodio del pieno Duecento: ad Alberto Magno, maestro di Tommaso d’Aquino, che si mostra a Parigi abbigliato da “filosofo”, il che, nel linguaggio del suo tempo, significava da arabo-persiano (o da arabo-ispanico). Sappiamo peraltro bene che, tra Abelardo e Raimondo Lullo, gli orientali islamici – quelli che le chansons de geste chiamavano “mori” o “saracini” – erano più propriamente detti “gentili” (con ambiguo riferimento alla loro qualifica di “pagani”, per quanto tali non si potessero dire propriamente) o “filosofi”.
La Modernità ha progressivamente obliterato, per non dire condannato a una sorta di damnatio memoriae, questa coscienza secondo la quale la cultura filosofica (e non solo…) ci è pervenuta, tra XII e XIII secolo, dal mondo islamico. Dal Petrarca in poi, e quindi con umanisti prima e intellettuali d’età neoclassica poi, la cultura europea è andata soggetta a ricorrenti pogrom concettuali, vere e proprie operazioni di “pulizia intellettuale” dalle quali è emersa la coscienza coatta d’una derivazione esclusiva e diretta (o comunque massicciamente primaria, prevalente) della cultura occidentale dai greci e dai romani. Forse la necessità di riflettere di più sull’Islam, resa indispensabile dai tempi in cui viviamo, ci consentirà di recuperare la più articolata verità relativa al passato della nostra cultura e alle acculturazioni che hanno presieduto al suo costruirsi. La “moda” dell’orientalismo, avviata nel Settecento – e funzionale allo sviluppo delle conquiste coloniali – ma che conosce una complessa preistoria antica e medievale, è forse obiettivamente una sorta di rovescio della medaglia implicito nella storia intellettuale, estetica e artistica della cultura europea. Il segno d’un innamoramento nascosto e il sintomo d’un perdurante complesso d’inferiorità, forse di colpa. Indaghiamo alcune delle radici di questa verità negata, che oggi riemerge prepotente in forme svariate e talora maniacali di pregiudizio antislamico e d’islamofobia.
Gli antichi auctores greci e latini erano stati, per i Padri della Chiesa, un conforto e un dilemma. Da un lato, essi erano una riserva di saggezza; dall’altro, si sapeva che tale saggezza era inquinata dall’assenza della luce della fede e dalla presenza delle “favole”, delle “menzogne”, delle “frodi” pagane. A partire da Origene e da san Gerolamo si meditava al riguardo sull’Esodo e sul Deuteronomio, fornendo una lettura allegorica di passi come l’asportazione del tesoro degli egiziani da parte degli ebrei che partono con Mosè verso la Terra Promessa o come quello della “bella prigioniera”: s’insegnava così che lo spogliare gli antichi dei loro tesori, le verità che avevano sparso nelle loro opere, era giusto e lecito[2].
Ma potevano esserci verità, come in quelli dei pagani, anche negli scritti dei saraceni? E, se ve ne fossero state, non sarebbe stato altrettanto giusto e lecito impadronirsene? C’erano i loro libri sacri, che cristiani orientali e mozarabi di Spagna conoscevano da tempo; e c’erano i libri degli antichi, che i musulmani avevano studiato e tradotto mentre i cristiani li avevano da tempo perduto. Si cominciò a pensare, già dall’XI secolo, ch’era giusto partire alla conquista di tanti tesori.
Tuttavia, sul piano della diffusione del sapere scientifico veicolato nel mondo musulmano attraverso la lingua del Corano, la via era già stata aperta grazie a un illustre precursore: Gerberto d’Aurillac, che giovanissimo viaggiò in Catalogna apprendendovi fra il 967 e il 970 rudimenti di aritmetica e di astronomia arabe e forse anche greche grazie alla familiarità con la curia vescovile di Vich e con il monastero di Ripoll. Divenuto in seguito capo della scuola episcopale di Reims e quindi abate di Bobbio, Gerberto poté diffondere le sue conoscenze in attesa di ascendere al soglio pontificio col fatidico nome di Silvestro II[3]. L’influenza esercitata da Gerberto d’Aurillac su Fulberto, vescovo di Chartres nel ventennio compreso tra 1008 e 1028, influì sul successivo sviluppo della scuola di Chartres[4], dalla quale uscì un’opera fondamentale come la traduzione, curata da Ermanno di Carinzia, della versione araba del Planispherium di Tolomeo. Traduttori del Corano e delle opere scientifiche si identificavano. L’interesse religioso fu sostenuto e veicolato per filosofico e scientifico.
I decenni tra metà del XII e metà del XIII secolo furono tra i più importanti dell’intera, lunga avventura intellettuale del mondo euromediterraneo. Nacquero, con la scuola di Abelardo e con l’affermazione della scolastica, la logica e il metodo dialettico; mentre si confrontavano inquisizione e spinte ereticali, la religiosità e la vita della Chiesa si rinnovavano grazie al contributo degli Ordini mendicanti; decollava la grande stagione degli Studia universitari; si consumava il duello tra regno e sacerdozio mentre si affermavano le monarchie feudali e le autonomie cittadine; trionfava l’economia monetaria e l’Occidente tornava alla coniazione aurea. Furono, questi, anche i decenni centrali del movimento crociato: che sarebbe quindi un errore interpretare come enucleato dal suo contesto, del quale anzi va considerato la componente militare, essenziale in quel rapporto tra Europa e l’Islam che non può d’altronde in alcun modo esser ridotto ad essa[5].
Verso la fine del XII secolo un traduttore dall’arabo, l’inglese Daniele di Morley, giungeva appunto a teorizzare che il Signore aveva ordinato al Nuovo Israele, la Cristianità, di spogliare gli egizi dei loro tesori per arricchirsi come già aveva fatto Mosè[6]: e fra quei tesori c’erano gli ammaestramenti dei filosofi. Con il termine “filosofi” gli studiosi latini indicavano ormai quegli arabi che per gli illitterati – devoti semmai della poesia epica – erano solo “pagani” e “infedeli”: lo stesso Abelardo, perseguitato da Bernardo di Clairvaux, avrebbe minacciato di fuggire tra i “filosofi” per mantenere alte la sua libertà e la sua dignità; mentre Alberto di Colonia, quell’“Alberto Magno” maestro di Tommaso d’Aquino, si mostrava in abiti arabi nell’Università di Parigi per sottolineare appunto la sua condizione di “filosofo”.
D’altronde, se le chansons parlavano dei saraceni idolatri e circolavano le dicerìe sul Maometto eretico, non era mai mancato chi ci vedeva più chiaro anche a un livello di cultura che non era necessariamente quello del traduttore inglese o del maestro parigino. Verso il 1120, Guglielmo di Malmesbury precisava con molta sicurezza: “…nam saraceni et Turci Deum creatorem colunt, Mahomet non Deum sed eius prophetam aestimantes”[7]. Sempre in Inghilterra, attorno ai medesimi anni, circolavano i Dialogi di Pietro Alfonsi, un ebreo spagnolo di Huesca battezzato nel 1106 e divenuto il medico di Alfonso I d’Aragona e di Enrico I d’Inghilterra. Attraverso il tramite dei rapporti così accesi fra penisola iberica e isole britanniche passavano una serie d’informazioni di prima mano: Pietro Alfonsi, ad esempio, si mostrava estremamente dotto in tutto quel che riguardava le religioni di ceppo veterotestamentario[8]. Il Chronicon di Ottone vescovo di Frisinga, redatto fra 1143 e 1146, non nutriva dubbi a proposito del fatto che i musulmani fossero monofisiti, cogliendo evidentemente il forte accento da essi posto sulla sostanza solo spirituale di Dio, Rukh. Un testo per altri versi fantasioso e pronto a fornire sull’“idolatria” saracena i più ampi e strani dettagli, la Historia de vita Caroli Magni et Rolandi eius nepotis dello Pseudo-Turpino, contraddice a tratti se stesso: difetti in una pagina sconvolgente e destinata ad alimentare un altro topos epico, la disputa fra Rolando e Ferracuto, esso fornisce notizie teologicamente parlando abbastanza precise.
Quell’“estremo Occidente” ch’era l’Inghilterra aveva avuto fin dal VII secolo, cioè fin da quando i monaci benedettini ne avevano iniziato la cristianizzazione, un ruolo speciale nella conservazione e nello sviluppo della cultura dell’Occidente. Le sempre più strette frequentazioni – evidentemente anche per via di mare – con il settentrione della penisola iberica le avevano consentito un rapporto privilegiato, quasi diretto, con la cultura araba ed ebraica di al-Andalus: Pietro Alfonsi era un prodotto di questa straordinaria cogliun. E lo era anche Adelardo di Bath, uno dei primi traduttori occidentali dall’arabo. Nato verso il 1070, aveva a lungo soggiornato in Normandia dove aveva insegnato in un centro di cultura importante come Laon. Da lì era passato a Salerno, quindi in Sicilia dove al vescovo di Siracusa aveva dedicato il suo De eodem et diverso. Nel periodo grosso modo compreso fra 1106 e 1111 viaggiò in Siria e in Palestina e fu ad Antiochia e a Gerusalemme: lì si occupò soprattutto di questioni astronomiche. Rientrato a Laon, compose le Quaestiones naturales e un trattato sull’uso dell’astrolabio: in questo modo, attraverso l’opera di Ermanno detto Contractus, egli si riallacciava direttamente al magistero di Gerberto d’Aurillac[9]. Nel 1126, Adelardo tradusse le tavole astronomiche di al-Khuwarizmi.
I tempi erano maturi – proprio mentre dalla penisola iberica alla Siria si dispiegavano i vessilli della crociata – perché una delle personalità più autorevoli della Chiesa del tempo, Pietro il Venerabile abate di Cluny, si facesse protagonista d’una straordinaria iniziativa che ebbe come centro Toledo, da poco più di mezzo secolo restituita alla Cristianità, e quale garante l’arcivescovo stesso della città, Raimondo di Sauvêtat[10]. L’“imperatore” Alfonso VII di Castiglia appoggiò l’esperienza dell’abate di Cluny, che da un lato lavorava con convinzione alla maggiore e miglior conoscenza dell’Islam mentre dall’altro sosteneva con forza l’ideale della Reconquista.
Dall’iniziativa di Pietro nacque l’attività di un’équipe che, con la consulenza di musulmani e di ebrei, provvide a una prima traduzione del Corano che porta il nome di Roberto di Ketton nel Rutlandshire: essa, a quel che pare ottenuta attraverso una serie di versioni – dall’arabo in ebraico e in castigliano, quindi in latino –, per quanto risultasse piuttosto confusa, lacunosa e incompleta, fu tanto importante da restar fondamentale per i quattro secoli successivi[11]. Naturalmente non si deve pensare a un gruppo organico e strutturato di traduttori: si trattò piuttosto di una costellazione di personaggi che agivano sulla base di una rete di relazioni.
La fatica del gruppo coordinato dal Venerabile non si fermò al Corano. Per quanto si possano individuare almeno tre nuclei fondamentali di questa densa attività: uno spagnolo, uno inglese, uno italo-meridionale – il ruolo della penisola iberica resta centrale e fondamentale[12]. I testi islamici redatti in versione latina per cura di traduttori come Giovanni di Siviglia, Domenico Gundisalvi, Ermanno il Dalmata, Platone di Tivoli, Gerardo di Cremona, e quelli islamologici redatti sulla base di quel rinnovato approccio rimasero a lungo la base della forma migliore di conoscenza dell’Islam di cui l’Europa medievale disponesse. Non si può dire che Pietro avesse tratto da quegli studi tutte le conseguenze cui avrebbe potuto giungere: tuttavia, come si può vedere nei suoi due trattati, la compendiosa Summa totius heresis saracenorum e il più ampio Liber contra sectam sive heresim saracenorum, egli segnò progressi importanti, che in molti casi presentavano consonanze con opere come la Diàlexis sarrakenù kài christianù di Giovanni Damasceno[13], che pure il Venerabile almeno in un primo momento non poteva conoscere, dal momento che gli opuscoli del Damasceno furono tradotti da Burgundio da Pisa solo verso il 1148-50. L’interesse di Pietro per l’Islam non si estese tuttavia a una miglior comprensione della figura e dell’opera del suo fondatore: Muhammad restava un apostata e un eretico; era necessario raggiungere con l’amore e la conoscenza i musulmani, persuaderli dei loro errori, convincerli a convertirsi.
Mentre Roberto di Ketton traduceva il Corano, Ermanno di Carinzia si occupava di una genealogia di Muhammad e Pietro di Toledo – un cristiano mozarabo – traduceva in latino con l’aiuto del segretario del Venerabile, Pietro di Poitiers, uno scritto apologetico, la Risala di al-Kindi. Con tutti questi testi, assemblati insieme, si formò la collezione per secoli più completa, sicura e autorevole di opere islamiche, il Corpus cluniacense, conosciuto anche come Collectio Toletana. In seguito, Marco di Toledo propose una versione del Corano ancora migliore della precedente: ed è sintomatico che Marco stesso, oltre che il Libro Santo, traducesse dall’arabo anche le opere di Galeno, uno scritto controversistico opera probabilmente di un ex-musulmano fattosi cristiano e un’opera mistica dovuta a Ibn Tumart, il celebre maestro almohade[14].
La personalità di Marco di Toledo è sotto molti versi esemplare. Il fine ultimo di studiosi come lui non era per nulla puro amor di conoscenza: si era, anzi, in una sfera molto pratica. Anzitutto s’intendeva recare armi alla controversistica: imparar cioè a meglio conoscere la dottrina islamica per meglio poterla confutare. Se questo tipo di atteggiamento è perfettamente comprensibile in un Occidente ormai guadagnato al metodo del grande amico di Pietro il Venerabile, cioè alla logica di Abelardo, meno chiaro è com’esso poteva recar frutto in un àmbito squisitamente missionario. È ovvio che, nel dar al-Islam, il metodo controversistico avrebbe condotto a un solo esito: il martirio. Senza dubbio molti cristiani si auguravano di conseguire tale gloria: tuttavia, sul piano degli esiti missionari pratici, il martirio avrebbe condotto al massimo – né ciò poteva esser considerato cosa da poco – agli esiti già segnalati fra II e III secolo da Tertulliano, cioè a nuove conversioni generate dal sangue dei martiri. La Chiesa era però al riguardo molto cauta e severa: né la controversia era adatta, né la pratica missionaria possibile in terra islamica, dove il confutare la fede coranica scivolava facilmente nella blasfemìa.
V’erano tuttavia i musulmani fuori dal dar al-Islam: ed erano sempre più numerosi. Abitanti dei territori siropalestinesi o iberici conquistati dai cristiani, mercanti, prigionieri: a loro, forse, ci s’intendeva rivolgere anzitutto con una propaganda missionaria che in terra controllata dai cristiani era possibile e che sottintendeva che l’infedele andasse non obbligato, bensì convinto a convertirsi attraverso la persuasione. In questo senso Francesco d’Assisi, incontrando il sultano e poi redigendo la regola del 1221, avrebbe fornito un esempio nuovo, indicato un’altra strada; e nel suo stesso Ordine il suo insegnamento sarebbe entrato sovente in conflitto con atteggiamenti d’altro genere. Dal canto suo Tommaso d’Aquino, che aveva dedicato all’Islam come sappiamo una parte della sua Summa contra gentiles, condivideva l’intenzione di Pietro il Venerabile di concorrere in qualche modo alla conversione dei musulmani e, nel breve De rationibus fidei contra saracenos, Graecos et Armenos, stabiliva in quattro punti l’assunto controversistico destinato a restar a lungo tradizionale: l’Islam come deformazione della verità; l’Islam religione della violenza e della guerra; L’Islam religione fondata sulla licenza sessuale; Muhammad falso profeta[15].
La letteratura controversistica prosperò nel corso del Duecento: in area iberica si produssero opere quali la Quadruplex reprobatio del domenicano Ramon Martí[16], fedele interprete ed esecutore del progetto missionario di Ramon de Peñafort, e il De origine et progressu Machometis del mercedario Pietro Pasqual, in area siropalestinese scritti come il De statu saracenorum di Guglielmo da Tripoli e il Contra legem sarracenorum del domenicano fiorentino Ricoldo da Montecroce[17], che viaggiò fino a Baghdad assistendo quindi al debutto della conversione dei mongoli di Persia all’Islam e alla fine di uno dei grandi sogni della Cristianità occidentale, quello della cristianizzazione del mondo tartaro che avrebbe comportato una sua grande crociata comune con l’Occidente, in grado di schiacciare come in una morsa l’Islam dei sultani mamelucchi d’Egitto.
Nato presso Firenze verso il 1243, domenicano dal 1267, Ricoldo fu inviato ad Acri di dove, a partire dal 1288, aveva cominciato i suoi viaggi nel mondo mesopotamico e persiano; fu schiavo d’una tribù beduina, cammelliere, ma anche protagonista di dotte dispute con i teologi e giuristi musulmani. Ne nacquero due opere importanti, nelle quali l’impegno missionario e il consueto atteggiamento apologetico e controversistico si associano a una notevole competenza: il Contra legem sarracenorum e l’Ad nationes orientales.
Anche Ricoldo si meravigliava del contrasto tra l’infame personalità del Profeta, l’oscurità e la contraddittorietà della sua legge e la mitezza, la generosità, la sapienza dei musulmani: come poteva gente così buona aderire a un credo tanto nefasto e venerare un tanto perfido profeta e accettare un credo così turpe? Questo giudizio schizofrenico costituì una specie di costante autodifesa della Cristianità nei confronti dell’Islam fino almeno al Seicento inoltrato: il pregiudizio della religione coranica come infame e corrotta non poteva essere abbandonato, ma in cambio le virtù dei musulmani servivano come argomentazione etica per rinfacciare ai cristiani i loro cattivi costumi. Pare che fonte diretta del Contra legem fosse un testo del IX secolo redatto da un ex-musulmano spagnolo convertito al cristianesimo, che Marco di Toledo aveva tradotto con il titolo di Contrarietas alfolica e che sarebbe stato poi utilizzato anche da Raimondo Lullo[18]. Troviamo Ricoldo di nuovo nella sua Firenze a partire dal 1301. Lì era attivo nella domenicana Santa Maria Novella, fin dal 1246, uno studium theologiae; e lì in quegli stessi anni viveva un grande predicatore, Giordano da Pisa, nelle opere del quale i saraceni sono una costante presenza.
Intanto, però, un’altra verità si andava facendo strada. Sempre più necessario appariva lo studio dell’arabo non solo in quanto esso era non soltanto una lingua sacra, la lingua d’una Scrittura rivelata – che poi si fosse o meno disposti ad accettarla come tale, era un altro discorso –, ma anche nella misura in cui essa era una grande lingua di cultura. In arabo erano stati tradotti i tesori della sapienza degli antichi greci; e, per quanto essi potessero esser accessibili anche attraverso versioni dal greco – per le quali però al momento erano a disposizione degli occidentali, ad esempio nel mondo bizantino, opportunità ben minori di quanto il mondo iberico non mettesse alla portata degli studiosi per l’arabo –, le versioni da quest’ultima lingua si rivelavano di gran lunga preferibili sia per l’eccellenza dei commenti che traduttori e studiosi arabi avevano redatto, sia per l’abbondanza di studi nuovi da essi intrapresi, sia infine perché ci si andava accorgendo che attraverso l’arabo l’Occidente poteva accedere – magari per via indiretta, riflessa – al sapere e ad alcune tecnologie proprie anche a paesi e a civiltà ancora più lontane, dalla Persia all’India alla stessa Cina[19].
La penisola iberica è la vera patria del rinnovamento scientifico dell’Occidente e, prima, della propagazione di uno dei fondamentali supporti di esso. Sappiamo bene che la carta, originaria della Cina e già diffusa nell’Asia centrale dall’VIII secolo, era già presente nella Spagna musulmana fin dal X secolo: manifatture di carta esistevano a Toledo e soprattutto a Jativa, nel Levante, dove Giacomo I d’Aragona istituì una specie di monopolio di produzione per tutto il regno di Valencia. Fu dall’Aragona del Duecento che il nuovo, prezioso materiale si diffuse in tutte le contrade occidentali.
D’altra parte il processo avviato soprattutto in Spagna e del quale senza dubbio l’équipe di Pietro il Venerabile fu protagonista sarebbe stato meno agevole e avrebbe recato con sé conseguenze molto meno rapide e profonde se il contatto con la cultura araba (o comunque veicolata attraverso la lingua araba) non fosse stato reso perentoriamente indispensabile dal travolgente sviluppo dell’economia e della mercatura. Grazie ad amalfitani prima, a veneziani, pisani e genovesi più tardi, furono conosciuti dunque ben presto – di rado in traduzioni sistematiche: più spesso attraverso volgarizzamenti ed epitomi – opere la conoscenza delle quali era necessaria sul piano pratico: quindi gli scritti dei geografi, dei matematici, dei medici. Si tradussero dall’arabo il grande trattato di Tolomeo detto Almagesto, nonché gli scritti di al-Khuwarizmi dedicati all’algebra o quelli astronomici-astrologici come il Liber de aggregatione scientiae stellarum di al-Farghani – un’opera conosciuta dallo stesso Dante – nonché l’Introductorium in astronomiam e il De magnis coniunctionibus et annorum revolutionibus ac eorum profectionibus di Abu Ma’shar, il celebre Albumasar della tradizione occidentale. I latini d’altronde non si limitarono a recepire questo vasto materiale: lo elaborarono anzi profondamente, come si vede nel Liber abbaci redatto verso il 1202 dal pisano Leonardo Fibonacci (1170-1240), che compose un quadro sintetico dell’aritmetica elementare e che, nella Practica geometriae del 1220, introdusse in Occidente l’uso dell’algebra[20]. Risultato di questi scritti ancor più evidente sul piano pratico, e rivoluzionario su quello concettuale, fu l’adozione delle cifre che gli arabi chiamavano “indiane” e i latini “arabe”, insieme con l’introduzione d’una vera e propria novità epocale, lo zero.
Oggetto privilegiato di traduzione fu molto per tempo la medicina[21]. Nell’XI secolo il monaco cassinese Alfano aveva già tradotto alcuni testi dal greco; ma nella seconda metà dell’XI secolo fu un altro monaco di Montecassino, Costantino Africano – originario dall’odierna Tunisia – a rinnovare profondamente la dotazione libraria della medicina occidentale traducendo in latino dall’arabo e anche dal greco opere quali il Liber aphorismorum di Ippocrate arricchito dal commento di Galeno, i Prognostica di Ippocrate, il Liber graduum di al-Gazzar[22]. Centro importante di studi medici fu Salerno, dove convergevano conoscenze provenienti dalla cultura greca, da quella araba – attraverso la Sicilia e l’Africa settentrionale – e da quella ebraica[23].
Il persiano-tagiko Ibn Sina, da noi noto come Avicenna, è uno dei protagonisti di quest’epopea mozzafiato: ben conosciuta e studiatissima, per quanto i nostri media abbiano fatto di tutto, negli ultimi anni, per ignorarla o per “oscurarla”. Importantissime furono le traduzioni latine di Avicenna[24], cui si deve il celebre Canone – un’opera medica che nel Cinquecento venne più volte stampata e che, usata ancora nelle università europee del Seicento, lo rese Avicenna[25] l’autore di scritti di scienze mediche più noto in Occidente dopo i classici Ippocrate e Galeno[26],
Ma Avicenna aveva un Maestro, un persiano nato a Rey presso Teheran il cui nome lunghissimo suona Abu Bakr Muhammad ibn Zakariya ar-Razi: ma, che, secondo un diffuso costume musulmano, noi conosciamo soltanto come ar-Razi, vale a dire “quello di Rey”. Questo dotto persiano che nel nostro medioevo ebbe fama, ovviamente, perfino di mago, visse tra 865 e 925, era in realtà uno dei più grandi geni che il genere umano abbia mai conosciuto. Scrisse ovviamente in arabo, la lingua sacra dell’Islam e koinè diàlektos di tutto il mondo musulmano. Visse soprattutto a Baghdad, che all’epoca contendeva a Còrdoba (entrambi erano sedi di due califfati sunniti concorrenti, abbaside l’uno e umayyade l’altro) e alla cristiana Costantinopoli il primato delle arti, delle scienze, della cultura e della bellezza. Si occupò non solo della sua grande passione, la musica (suonava benissimo il liuto) ma anche di logica, di filosofia, di poesia, di politica, di fisica, di astronomia e soprattutto di medicina, che poté studiare a Baghdad sotto la guida di un grande scienziato, at-Tabari.
I libri di ar-Razi sono moltissimi e tutti famosi. Ma tra essi ce n’è uno fondamentale per la stessa cultura europea: l’al-Mansuri fi t-tibb, un monumentale trattato generale di fisiologia e di medicina noto nella sua traduzione latina come Liber medicinalis Almansoris o Tractatus ad regem Almansoris, Si tratta di un’immensa opera in dieci libri il nono dei quali, conosciuto appunto come Nonus Almansoris, è servito ordinariamente come manuale nelle nostre università in tutto il medioevo. L’opera di ar-Razi fu diffusa in un numero straordinario di manoscritti in arabo e conobbe, come tutte quelle dei grandi studiosi musulmani, una quantità di traduzioni in latino: magari non perfette, anzi spesso sommarie e lacunose, comunque importanti per il progresso delle scienze. A loro volta queste traduzioni venivano più o meno divulgate nei diversi idiomi “volgari” della nostra Europa, forme arcaiche delle lingue che ancor oggi parliamo.
Firenze e la Toscana furono fra XIII e XV secolo attivissimi centri diffusori di queste spurie e problematiche eppur preziose opere, dette “volgarizzamenti”. Uno di questi testi, opera di un anonimo medico o studioso di medicina fiorentino del primo Trecento, è conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Esso è stato recentissimamente pubblicato in due grossi volumi dall’editore Aracne di Roma in edizione critica, largamente confrontata con le versioni araba e latina del medesimo testo, da uno straordinario studioso arabo-italiano, Mahmoud Salem Elsheikh dell’Accademia della Crusca. Egiziano musulmano, egli è stato uno dei migliori allievi di Gianfranco Contini ed è conosciuto anche come uno tra i massimi specialisti degli idiomi volgari fiorentino e senese bassomedievali[27].
Le opere di matematica e di medicina rispondevano essenzialmente, con le loro traduzioni, a esigenze pratiche e tecniche. Diversamente andavano le cose invece con la filosofia, che rivestiva un particolare significato per gli occidentali anche a livello teologico. Ci si avvicinò così soprattutto alle opere di Aristotele: che però era un Aristotele del tutto particolare, tradotto e rielaborato sotto i califfi abbasidi fra VIII e IX secolo, profondamente imbevuto di elementi neoplatonici desunti soprattutto da Plotino e da Proclo[28]. Fondamentali furono, per l’Europa, tanto le traduzioni del Liber de intellectu di al-Kindi e dei commenti di al-Farabi, che aveva confrontato le tesi di Aristotele con quelle neoplatoniche, soprattutto di Porfirio[29], quanto i trattati filosofici (soprattutto l’avicenniano Kitab as-Sifa) che restarono fondamentali nella vita universitaria due-trecentesca e senza il quale la riflessione filosofica di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio ci resterebbe incomprensibile. Naturalmente, le traduzioni immisero nel tessuto della cultura latina anche gli echi e le tracce delle fortissime polemiche, dalle quali il mondo musulmano, diviso tra gli autori più sensibili alla filosofia greca “pagana” e alle sue ragioni e quelli preoccupati che tali influssi non finissero col compromettere la sostanza profetica sulla quale si fonda l’Islam, era attraversato; celebre al riguardo la polemica scatenata da al-Ghazzali, nella Destructio philosophorum, contro al-Farabi e Avicenna. Un segno potente fu comunque lasciato da Avicenna anche nella filosofia musulmana più preoccupata delle ragioni della fede e della rivelazione: in autori come Ibn Bajiah (per gli occidentali “Avempace”) e Abu Bekr ibn Tufail (“Abubacer”) l’impronta avicenniana è molto forte: ma lo è anche in tutti i filosofi latini, platonici o aristotelici che fossero, tra Due e Cinquecento. Solo un altro Maestro musulmano può stargli al confronto nell’influenza sul pensiero occidentale: il cordobano Ibn Rushd al-Hafid, notissimo fra i latini col nome di Averroè, condannato come “empio” e “nemico del Cristo” da alcuni teologi ma venerato da altri che lo consideravano il vero e autentico interprete di Aristotele[30]. Così la pensava del resto lo stesso Alberto Magno, per quanto la forte componente neoplatonica che gli era propria lo conducesse lontano da Averroè. Naturalmente, accanto agli autori arabi, molta importanza ebbero per l’Occidente i pensatori ebraici: fra essi, vanno ricordati Salomon ibn Gabirol (“Avicebron”), Giuda ha-Levi, Abraham ibn Ezra e soprattutto il grande Mosheh ben Maymon (“Maimonide”) di Córdoba, che fu anche medico del Saladino e attraverso i commentatori dell’opera del quale – specie di uno splendido scritto, la Guida dei perplessi – andò rinnovandosi l’influenza di Averroè nel mondo ebraico non meno che in quello musulmano e in quello cristiano[31].
In meno di mezzo secolo, nella seconda metà del XII secolo, erano uscite dall’atelier dei traduttori toledani le versioni latine degli scritti astronomici di Albategni, Alcabizio e Alfagrano, il De intellectu di al-Kindi[32], parte del Kitab as-Sifa, gli scritti di al-Ghazzali. Del tutto meritorio – con i limiti che fin troppo gli furono più tardi addebitati: fretta, errori, equivoci, barbarismi – fu il lavoro infaticabile di Gerardo da Cremona (morto nel 1187), che tradusse il Canone di Avicenna, l’Almagesto di Tolomeo – del quale esisteva tuttavia un’altra traduzione anonima, dal greco, redatta in Sicilia verso il 1160 –, opere di al-Kindi e forse anche di al-Farabi, una quantità di scritti aristotelici e lo pseudoaristotelico Liber de causis; alle opere arabe egli aggiunse quelle ebraiche, come il Libro delle definizioni e il Libro degli elementi del neoplatonico Isaac Israeli che s’ispirava ad al-Kindi e che fu tradotto anche da Domenico Gundisalvi[33].
Il gigantesco impegno di Gerardo fu ripreso e continuato alla corte palermitana dell’imperatore Federico II dal filosofo, astrologo, medico, “mago” Michele Scoto (1180-1235), che aveva visitato Toledo, Bologna e Roma. Egli tradusse varî scritti aristotelici con i relativi commenti di Averroè, il De sphaera di Alpetragio, il De animalibus di Avicenna[34]. Intanto un traduttore d’ambiente ancor toledano, Ermanno il Tedesco, tradusse fra il 1240 e il 1256 altri fondamentali commenti di Averroè, come quello all’Etica nicomachea. La rinascita filosofica e scientifica dell’Occidente, che porta il segno del neoplatonismo e dell’incipiente aristotelismo, si deve a questo grande abbraccio tra cultura latina e cultura islamica[35].
Esiste nella cultura europea un episodio che non è forse in sé di fondamentale importanza, ma che è notevole sia perché sta alla base di un capolavoro, sia perché il “caso” da esso rappresentato è emblematico. Si tratta dell’insieme dei racconti in arabo che si riferiscono a una tradizione riguardante il Profeta attestata dalla Sura 17 del Corano, Al-Isrâ, il “Viaggio notturno” e da una serie di hadith riguardanti il miraj, cioè l’ascensione notturna del Profeta da Gerusalemme al cielo in sella al cavallo antropocefalo Buraq, dalla “Spianata del Tempio” di Gerusalemme, il Haram esh-Sharif, al cielo. L’originale arabo che coordina questa serie dilo racconti è andato perduto, ammesso che sia mai veramente esistito: tuttavia Abraham Alfaquim ne aveva compilato una riduzione dall’arabo al castigliano sulla quale verso il 1264 Bonaventura da Siena, domini regis notarius et scriba alla corte di Alfonso X di Castiglia, aveva ricavato una versione latina e una francese. Presso quel sovrano, proprio nei medesimi anni, era esule da Firenze il guelfo Brunetto Latini che, viaggiando in Spagna al tempo della battaglia di Montaperti del 1260, che aveva segnato l’inizio di un periodo di governo ghibellino nella sua città, aveva preferito non tornare in patria. Non è impossibile che lo stesso Bonaventura fosse un guelfo, esule dalla sua Siena allora nelle mani dei ghibellini guidati da Provenzano Salvani. Alfonso X era molto interessato al Liber de Scala, che utilizzò nel suo lavoro enciclopedico Settenario, purtroppo incompiuto, ma precedente il suo famoso Trésor[36].
Non sappiamo se nella bisaccia di Brunetto Latini, che sarebbe rientrato a Firenze di lì a qualche anno, vi fosse una copia di quello che ormai è correntemente denominato Liber de Scala, o un’epitome di esso, o degli appunti ad esso comunque relativi[37]; ignoriamo se quel materiale sia stato in qualche modo messo dal Latini a disposizione del più illustre fra i suoi allievi, Dante Alighieri. Certo è che le analogie tra il Liber e la Divina Commedia sono tali e tante consentirci di porre a noi stessi la domanda se il racconto dell’ascensione del Profeta, ritessuto e rinarrato attraverso una serie di successive rievocazioni orali e testuali una della quali sarebbe giunta nella Firenze duecentesca, potrebb’essere uno dei fondamenti – e non dei secondari fra essi – dell’ispirazione che guidò il più grande poema del medioevo occidentale.
L’ipotesi dell’Asín Palacios, già ferocemente contestata, si è trasformata in un dato ormai largamente per quanto lungi dall’essere unanimemente accettato dalla maggior parte dei critici, come hanno dimostrato anche le ricerche di alcuni studiosi italiani, tra i quali vanno ricordati almeno Francesco Gabrieli[38], Cesare Segre[39], Maria Corti[40], Carlo Saccone[41], Luigi Moraldi[42], Giuseppe Tardiola[43].
Dante, studioso di filosofia scolastica negli Studia domenicano e francescano di Firenze, conosceva e condivideva il giudizio sull’Islam espresso dalla Summa contra gentiles di Tommaso d’Aquino, in particolare la tesi del rapporto tra il successo della nuova fede e la pretesa libertà sessuale dal Profeta concessa ai suoi fedeli. Il giudizio da lui espresso su Muhammed, che egli ritiene un eretico cristiano e uno scismatico e colloca all’Inferno nel canto XXVIII della prima Cantica[44], non aveva nulla di originale: si rifaceva alla complessa “leggenda nera” che riguardo a lui circolava in Occidente, e le molte versioni della quale conosciamo grazie a molti studi critici, a partire da un celebre saggio del filologo italiano Alessandro D’Ancona edito nel 1889[45].
D’altronde, alcuni indizi rivelano che il suo giudizio al riguardo non era così chiuso, limitato e negativo come fin qui potrebbe apparire. Ci si è chiesti se egli non abbia potuto incontrare, nello Studium domenicano annesso al convento di Santa Maria Novella, lo stesso frate Ricoldo da Montecroce, reduce dal lungo viaggio che lo aveva condotto fino a Baghdad. Ma, anche se ciò fosse accaduto – e non ne abbiamo le prove –, resta da domandarsi che cosa in concreto egli avrebbe potuto imparare da qualche più o meno lunga conversazione.
Ciò nonostante egli manifesta se non altro rispetto, considerazione e perfino devozione nei confronti di alcuni rappresentanti del mondo musulmano. Presentando nel canto IV della prima Cantica, l’Inferno, la struttura del regno sotterraneo dei dannati, egli c’introduce al Limbo, dove risiedono coloro che, senza colpa, non hanno conosciuto il Cristo: i fanciulli morti senza battesimo e i grandi spiriti del mondo pagano. Questi ultimi dimorano in un luogo oscuro ma sereno, in un’ampia prateria rischiarata da un grande fuoco[46], all’interno di un confortevole castello, il “Castello degli Spiriti Magni”. Tra loro vi sono i grandi poeti pagani, come Omero e lo stesso Virgilio guida di Dante nel viaggio oltremondano; i principi e capi militari dell’antichità, come Cesare; i filosofi, quali Aristotele, Socrate e Platone[47]. Ebbene, tra i principi che Dante non può far salire in Paradiso ma non osa condannare all’Inferno v’è anche il Saladino, per il quale egli ha espresso ammirazione anche in altre opere, come il Convivio, e che il medioevo occidentale ha venerato come specchio delle virtù cavalleresche. E, tra i filosofi e i sapienti, egli rammenta anche Avicenna e naturalmente Averroè, esplicitamente menzionato per il suo grande commento aristotelico[48]. Ma a questo punto un problema s’impone. Dante, fautore della prosecuzione delle imprese crociate in Terrasanta, rimproverava a Bonifacio VIII di far guerra ai cristiani – alludendo alla crociata dal papa bandita contro i Colonna – anziché ai saraceni[49]. La soluzione non sta ancora nell’XI del Paradiso, in quanto Francesco vi è visto predicare “nella presenza del soldan superba”: e la superbia è vizio radicalmente opposto alle virtù cortesi. Essa sta semmai nel rapporto profondo tra il Saladino posto tra gli Spiriti Magni e gli eroi crociati che, nel Cielo di Marte, solcano come luci fulgidissime la croce luminosa che raccoglie le anime dei caduti in battaglia contro gli infedeli, come se tra le parole “Marte” e “Martiri” si stabilisse implicitamente un rapporto addirittura etimologico, falso senza dubbio, ma psicologicamente e moralmente d’una forza e d’una profondità che sorprendono e sconvolgono. Nel nucleo profondo di tutto ciò v’è il ritterliches Tugendsystem dantesco, la concezione del nesso diretto e inscindibile fra virtù cortese, testimonianza cavalleresca e vocazione al martirio. Da ciò il senso di una contraddizione profonda tra la condizione d’infedele e la virtù della magnanimità: il Saladino, “solo, in parte”, è il nodo e la testimonianza di essa.
Ma c’è dell’altro: qualcosa di molto importante. Il modello dal quale Dante ha tratto ispirazione per la sua immensa concezione generale della struttura dell’Aldilà. È ben noto che egli si sia affidato agli esempi fornitigli dalla tradizione latina (in primo luogo l’Eneide di Virgilio), nonché ai testi e alle memorie orali d’origine soprattutto celtica e germanica che costituivano un vastissimo deposito di leggende folkloriche. È comunque necessario sottolineare con forza come a questo patrimonio di fonti cristiane e precristiane vada aggiunta la consapevolezza che il tema del “Viaggio oltremondano” è uno dei fondamentali nelle tradizioni sorte dal ceppo abramitico[50], e che non c’è quindi da stupirsi non solo che egli si sia ispirato anche a una fonte musulmana, ma addirittura che tale ispirazione possa essere stata primaria.
Se il risultato dell’incontro fra Europa e Islam fosse solo questo, il debito di gratitudine della prima nei confronti del secondo sarebbe già immenso. Ma non basta ancora. Pensiamo al dibattito acceso nell’Università di Parigi in pieno Duecento attorno a idee e concetti che sarebbero stati impensabili senza al-Ghazzali, Avicenna e Averroè (e pur nell’inconciliabile differenza tra questi filosofi, forse trascurata dal metodo scolastico o della quale esso addirittura non aveva interesse a tener il dovuto conto). È stato detto con molta ragione che “…chi volesse trattare in modo dettagliato le fonti arabe del pensiero europeo dovrebbe far riferimento al vocabolario, alla concettualità e alla problematica della filosofia dal 1150 al 1500”[51]. A questo passo esemplare manca solo, per esser perfetto, un cenno peraltro essenziale: quello al fatto che – al di là dell’esperienza sartriana – senza Avicenna e al-Ghazzali inconcepibile resterebbe (proprio in termini di rapporto fra essenza ed esistenza) la voce più alta di tutta la filosofia occidentale del XX secolo, quella di Martin Heidegger[52].
Né andrebbe dimenticato – per quanto il discorso, più vago e incerto da inquadrare, non sarà affrontato qui perché ci porterebbe davvero troppo lontano – il contributo della poesia e della musica araba alla lirica occidentale: dopo le ricerche del Menéndez Pidal sulla strofa “zejelescaaraba e la sua diffusione in tutta l’area romanza e le indagini sulle parole e frasi in idioma protoromanzo iberico nelle kharge (le “chiuse”) delle poesie arabe ed ebraiche di Spagna, possiamo affermare che da molti punti di vista la poesia euromediterranea d’amore dei secoli XII-XIII fu caratterizzata da un continuum denso sì di articolazioni e di variabili, ma esteso in una koinè d’atmosfera, di scambi d’esperienze e di temperie e in una pluralità espressiva e idiomatica dall’Andalusia alla Provenza e dalla Sicilia alla Toscana.
Un antico e profondo debito: che, forse, è giunto il momento di pagare in termini di riconoscimento, di riconquistata consapevolezza.
Ma per fortuna queste cose sono ormai ben conosciute dal pubblico televisivo italiano, dopo i dotti contributi che, a proposito dell’Islam e della sua cultura, ci sono di recente stati offerti da ingegni quali Daniele Capezzone e Maurizio Gasparri.

NOTE

[1] Ci sia consentito, per questi temi, il rinvio a F. Cardini, I Re Magi. Storia e leggende, Venezia 2000.

[2] Cfr. H. De Lubac, Esegesi medievale, tr. it., Roma 1962, pp. 522 sgg. Sul problema generale della trasmissione della cultura da Oriente a Occidente, cfr. AA.VV., Orientalische Kultur und europäische Mittelalter, Berlin 1985.

[3] Cfr. Ph. Wolff, Storia e cultura del medioevo dal secolo IX al secolo XII, tr. it., Roma-Bari 1971, pp. 109-198.

[4] Cfr. su ciò, l’indimenticabile capolavoro di T. Gregory, Anima mundi. La filosofia di Guglielmo di Conches e la sucola di Chartres, n. ed., Spoleto 2020.

[5] La crociata non è mai stata una “guerra di religione”, non ha mai teso alla conversione coatta degli infedeli; ed è stata sanctum bellum solo nella misura in cui sancta erano gli oggetti contesi tra cristiani e saraceni, il Sanctum Sepulchrum, la sancta civitas di Gerusalemme, la Terra Sancta. Non c’è tuttavia dubbio che nella coscienza del tempo fosse viva l’idea che l “ingiustizia” che aveva preposto alla perdita del controllo cristiano sulla Città Santa era stata dovuta al diffondersi della perversa predicazione di Maometto. Tutto ciò determinava un inestricabile nodo di contraddizioni: come potevano mai gli infedeli, adepti d’un ignobile culto d’origine ereticale, dimostrarsi tanto spesso uomini virtuosi ed essere leali e coraggiosi cavalieri, vivente e minaccioso rimprovero ai cristiani che, detentori della Verità, si mostravano tanto spesso mediocri, vili e malvagi nei fatti? Tutto ciò poneva un problema di teodicea: Gerusalemme era andata perduta per “giusta vendetta” di Dio, peccatis nostris exigentibus; l’intrinseca malvagità dell’Islam conviveva con le virtù dei saraceni, ch’erano e restavano tuttavia “gente turpa”, come dice Dante (mettendo però tale espressione sulle labbra del suo avo Cacciaguida, crociato e martire di circa un secolo e mezzo prima), in quanto seguaci di un iniquo pseudoprofeta; ma d’altra parte – e qui Dante sarebbe stato seguito da tutta la grande cultura del nostro occidente, dal Boccaccio al Lessing – il Saladino si mostrava, con le sue virtù di generosità e di magnanimità, specchio e modello di perfezione cavalleresca ai cristiani, pur essendo colui che nel luglio del 1187 aveva fatto decapitare, dopo la battaglia di Hattin, i prigionieri templari e giovanniti e, nell’ottobre successivo, aveva cacciato i crociati da Gerusalemme (cfr. ora per tutto ciò F. Cardini – A. Musarra, Il grande racconto delle crociate, Bologna 2019).

[6] Daniele di Morley, cit. da J. Le Goff, Genio del medioevo, tr. it., Milano 1959, p. 21 (questo prezioso libretto è stato in seguito più volte ristampato col titolo Gli intellettuali nel medioevo, più fedele all’originale francese).

[7] Willelmi Malmesbiriensis, De gestis regum Anglorum, ed. W. Stubbs, in Rerum Britannicarum Scriptores, XC, p. 230.

[8] P.L., CLVII, coll. 535-672.

[9] Cfr. AA.VV., Adelard of Bath, ed. by Ch. Burnett, London 1987.

[10] Cfr. AA.VV., Tolède XII.e-XIII.e. Musulmans, chrétiens et juifs: le savoir et la tolérance, Paris 1991.

[11] Cfr. M.Th. D’Alverny, Deux tradutions latines du Coran au Moyen Age, “Archives d’histoire doctrinale et littéraire du moyen-âge”, XVI, 1947-48, pp. 69-131; J. Kritzeck, Peter the Venerable and Islam, Princeton 1964; J. Vernet, La cultura hispanoárabe en Oriente y Occidente, Barcelona 1978; J. Jolivet, The Arab inheritance, in AA.VV., A history of twelfth century western philosophy, ed. by P. Dronke, Cambridge 1988, pp. 113-148.

[12] Cfr. J. Vernet, Ce que la culture doit aux Arabes d’Espagne, Paris 1985.

[13] P.G., XCVI, coll. 1336-48.

[14] Per gli almohadi cfr. ora P. Zattoni, Gli almohadi, Bologna 2016.

[15] J. Waltz, Muhammad and the muslims in St. Thomas Aquinas, “Muslim World”, 66, 1976, pp. 81-95.

[16] Cfr. E. Colomer, La controversia islamo-judeo-cristiana en la obra apologética de Ramon Martí, in AA.VV., Diálogo filosófico-religioso entre cristianismo, judaísmo e islamismo durante la edad media en la península iberica, ed. H. Santiago-Otero, Brepols 1994, pp. 229-257; AA.VV., Medieval encounters. Jewish, christian and muslim culture in confluence and dialogue, ed. by G.D. Newby, Leiden 1998.

[17] Sulla personalità e i viaggi di frate Ricoldo, cfr. U. Monneret de Villard, Il libro della peregrinazione nelle parti d’Oriente di frate Ricoldo da Montecroce, Roma 1948; sul Contra legem sarracenorum, cfr. la traduzione italiana con ampio saggio introduttivo e bibliografia in Ricoldo da Montecroce, I saraceni, a cura di G. Rizzardi, Firenze 1992.

[18] Cfr. M.Th. D’Alverny – G. Vajda, Marc de Tolède, traducteur d’ibn Tumart, “Al-Andalus”, XVI, 1951, pp. 124-132.

[19] Cfr. AA.VV., La diffusione delle scienze islamiche nel medio Evo europeo, Roma 1987.

[20] Cfr. AA.VV., Leonardo Fibonacci. Il tempo, le opere, l’eredità scientifica, a cura di M. Morelli – M. Tangheroni, Pisa 1994; G. Molland, Mathematics and the medieval ancestry of phisics, Aldershot 1995.

[21] Cfr. D. Jacquart, La science médicale occidentale entre deux renaissances (XIIe s. – XVe s.), Aldershot 1997.

[22] Cfr. H. Hathout, Topics in islamic medicine, Kuwait 1984; L. Sterpellone – M. Salem Elsheikh, La medicina araba, Milano 1995.

[23] Cfr. P.O. Kristeller, Studi sulla scuola medica salernitana, Napoli 1986; P. Morpurgo, Filosofia della natura nella “schola” salernitana del secolo XII, Bologna 1990.

[24] Cfr. L.E. Goodman, L’Universo di Avicenna, tr. it., Genova 1992.

[25] Cfr. G.A. Lucchetta, La natura e la sfera, Bari 1987.

[26] Cfr. D. Campbell, Arabian medicine and its influence on the Middle Ages, London 1926; M. Meyerhof, Studies in medieval Arabic medicine: theory and practice, London 1984; D. Jacquart – F. Micheau, La medécine arabe et l’Occident médiéval, Paris 1990.

[27] Cfr. Abū Bakr Muhammad ibn Zakariyā ar-Rāzī, Al-Manūrī fī ibb, ed. crit. Volgarizzamento laurenziano conforntato con le tradizioni araba e latina, a cura di M. Salem Elsheikh, voll. 2, Roma 2016.

[28] Cfr. R. Walzer, Greek into Arabic. Essays on islamic philosophy, Columbia 1962.

[29] Cfr. Al-Farabi, La città virtuosa, a cura di M. Campanini, Milano 1996.

[30] Cfr. L. Gauthier, Ibn Rochd, Paris 1948.

[31] Cfr. M.-R. Hayoun, I filosofi ebrei nel medioevo, tr. it., Milano 1994.

[32] Sull’importanza di al-Kindi nel corso di tutto il Basso Medioevo, specie nell’àmbito della perspectiva, cfr. F. Alessio, Per uno studio sull’ottica del Trecento, “Studi medievali”, III serie, VI, 1965, pp. 444-504.

[33] Per l’Almagesto e le sue traduzioni, cfr. C.H. Haskins, Studies in the history of mediaeval science, Cambridge Mass 19272. Un panorama sintetico sulle traduzioni dall’arabo è quello di H. Daiber, L’incontro con la filosofia islamica, in AA.VV., Storia della filosofia. 2. Il Medioevo, a cura di P. Rossi – C.A. Viano, Roma-Bari 1994, pp. 180-195, con relative informazioni bibliografiche. Cfr. anche C.F. Beckingham, Between Islam and Christendom, London 1983; P. Kunitzsch, The Arabs and the stars: Texts and traditions on the fixed stars and their influence in medieval Europe, London 1989.

[34] L. Thorndike, Michael Scot, London 1965.

[35] Per una panoramica sugli esiti scientifici di questo processo storico, cfr. Scienza e tecnica nel medioevo, “Nuova civiltà delle macchine”, XI, 1993. Per alcuni problemi specifici, come quello dell’ottica di Alhazen, molto utile G. Federici Vescovini, Astrologia e scienza, Firenze 1979. In generale sulle scienze della natura, con riferimenti alla polemica antimusulmana, Il teatro della natura, “Micrologus”, IV, 1996.

[36] Cfr. P. G. Beltrami, Appunti sulle vicende del Trésor: composizione, letture, riscritture, in L’enciclopedismo medievale, a cura di M. Picone, Ravenna 1992, pp. 311-328; Il Tesoro di Brunetto Latino, maestro di Dante Alighieri, a cura di J. Bolton Holloway, Firenze 2021.

[37] Nel 1919 l’arabista spagnolo Miguel Asín Palacios nel suo libro Dante y el Islam, opera ricca di erudizione e costruita con grande abilità, rivendicava alla letteratura mistica musulmana la paternità dell’immaginario dantesco dell’Aldilà. La sua tesi, a lungo contrastata (M. Asín Palacios, Dante e l’Islam, traduzione italiana, voll. 2, Parma 1994, con una densa e lucida Introduzione di C. Ossola; G. Tardiola. “Ancor nel libro suo che Scala ha nome…”. In occasione della traduzione italiana dell’Escatologia di Asín Palacios, “Letteratura italiana antica”, I, 2000, pp. 59-67, in particolare p. 64 per il rinvio agli studi di Maria Corti e di Rocco Montano, ma soprattutto di H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabi, Paris 1958, e ai due saggi di E. Zolla, Amori soprannaturali in terre islamiche e La Dama e l’amor cortese, in Idem, L’amante invisibile, Venezia 1986, pp. 101-113), fu da lui difesa in un successivo studio del 1924 che costituisce oggi il secondo volume della traduzione parmense dell’opera. Il punto debole dell’ipotesi dell’Asín Palacios consisteva nel fatto ch’egli non era stato in grado d’indicare alcun testo specifico che avesse potuto servire a Dante quale modello ispiratore: ciò non gli consentiva di formulare alcuna tesi scientifica. I suoi rilievi rimanevano pertanto al livello dell’ingegnosa ipotesi e della raccolta d’indizi eruditi. Ma la loro correttezza venne più tardi confermata da studi ulteriori. In molti, sulla scia dei suoi lavori, si erano chiesti quale potesse essere il testo musulmano più adatto a costituire un modello per l’Alighieri: e già Claudio Sánchez Albornoz, nel suo grande indimenticabile La España musulmana, Buenos Aires 1946, p. 305, aveva ipotizzato potesse trattarsi del Kitab al-Mi’raj. L’originale arabo che coordina questa serie di racconti è andato perduto, ammesso che sia mai veramente esistito: tuttavia ne conosciamo varie versioni (Il Libro della Scala di Maometto, tr. it. di R. Rossi Testa, Intr. di C. Saccone, Milano 1991; Le Livre de l’Échelle de Mahomet, tr. fr. G. Besson – M. Brossard-Dandré, Paris 1991), nonché una serie di testi, sia dotti sia popolari, che trattano il medesimo tema, fra i quali il Viaggio nel Regno del Ritorno di Sanâ’î, del primo XII secolo (Hakim Sanâ’î, Viaggio nel Regno del Ritorno, a cura di C. Saccone, Parma 1993) o il Viaggio notturno e le Rivelazioni della Mecca di Muyadin ibn ‘Arabi, della prima metà del Duecento. Finalmente nel 1949 Enrico Cerulli, orientalista e islamista italiano specialista soprattutto di cultura etiopica, pubblicò l’anello mancante della catena. Si tratta della versione sia latina sia francosettentrionale del Kitab al-Mi’raj, il titolo latino della quale suona appunto Liber de Scala: e che con tale titolo era conosciuta forse già nella Sicilia sveva, Enrico Cerulli individuò e studiò tale testo nel corso di lunghe ricerche condotte tra 1946 e 1947 nella Bodleyan Library di Londra, nella Bibliothèque Nationale di Parigi e nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Il codice conservato nella Vaticana, oltre al Liber de Scala, contiene anche una copia della cosiddetta Collectio Toletana o, per meglio dire, della Collectio Cluniacensis. Nello stesso 1949, José Muñoz Sendino pubblicava una versione castigliana dello stesso testo (cfr. E. Cerulli, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della “Divina Commedia”, Città del Vaticano 1949; Idem, Nuove ricerche sul “Libro della Scala” e la conoscenza dell’Islam in Occidente, ivi 1972; Idem, Dante e l’Islam, “Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino”, Cl. di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, n. 107, 1973, I, pp. 383-402). È probabile che l’opera fosse conosciuta comunque anche nella Sicilia sveva e comunque almeno dal Tre-Quattrocento, come testimoniano alcuni autori sia italici sia iberici quali Fazio degli Uberti nel Dittamondo, Francisc Eiximenis nel Libro del Cristià, Alfonso da Spina nel Fortalicium Fidei (cfr. per tutto questo, ancora: J. Muñoz Sendino, La Escala de Mahoma, Madrid 1949; G. Levi della Vida, Aneddoti e svaghi arabi e non arabi, Milano-Napoli 1959, pp. 149-161, con integrazioni bibliografiche al Cerulli, e soprattutto i puntuali rilievi di S. Pelosi, Dante e la cultura islamica, o analogie tra la “Divina Commedia” e il “Libro della Scala”, Roma 1965; cfr. anche la sintetica rassegna di V. Salierno, Dante e l’Islam, “L’Esopo”, XII, 1991, 52, pp. 28-31).

[38] F. Gabrieli, Nuova luce su Dante e Islam, in Idem, Il mondo dell’Islam, Milano-Napoli, 1954, pp. 156-72; cfr. C. Baffioni, Aspetti delle cosmologie islamiche in Dante, in AA.VV., Il pensiero filosofico e teologico in Dante Alighieri, Milano, s.d., pp. 103-122.

[39] C. Segre, Viaggi e visioni d’oltremondo sino alla “Commedia” di Dante, in Idem, Fuori dal mondo. I modelli nella follìa e nelle immagini dell’aldilà, Torino 1990, pp. 25-48.

[40] M. Corti, La “Commedia” di Dante e l’oltretomba islamico, “Belfagor”, I, 1995, 3, pp. 208-209.

[41] C. Saccone, La Divina Commedia e una “Commedia” musulmana, “Studia patavina”, XXXIX, 1992, 3, pp. 85-119.

[42] L. Moraldi, L’Aldilà dell’uomo, Milano 1985.

[43] G. Tardiola, I viaggiatori del Paradiso, Firenze 1993.

[44] A proposito del quale va citato il lavoro di Salem Elsheikh sulle fonti arabe di Dante, di prossima edizione per i tipi del nostro editore, La Vela.

[45] A. D’Ancona, La leggenda di Maometto in Occidente, edizione originale 1889, nuova edizione a cura di A. Borruso, Roma 1994. Cfr. inoltre: P. Locatin, Maometto negli antichi commenti alla Commedia, “L’Alighieri”, XX, 2002, pp. 41-75; C. Di Fonzo, Dalla “terza” redazione inedita dell’Ottimo Commento. Il canto di Maometto: una nuova fonte, “Studi danteschi”, LXVI, 2001, pp. 35-62; R. Morosini, Il Roman de Mahomet (1258) tra tradizione e riscrittura nei commenti danteschi del XIV secolo e nella Cronica di Giovanni Villani, “Letteratura italiana antica”, VI, 2005, pp. 293-317. Per l’edizione di una nota fonte duecentesca romanzesca francosettentrionale, evidentemente non ignota al Boccaccio che va considerato l’autentico e originale fondatore con la sua versione della “favola delle tre anella” e con la novella di ser Torello, entrambe contenute nel Decameron, della legenda aurea, cfr. Alexandre du Pont, Le Roman de Mahomet, n. éd. tr. et présentation de Y.G. Lepage, Louvain 1996.

[46] Per il simbolo del fuoco nel medioevo e la relativa, sterminata bibliografia, cfr. J.-P. Leguay, Le feu au Moyen Âge,Rennes 2008, passim.

[47] Cfr. Inf., IV, vv. 129-144.

[48] “Averrois, che ’l gran comento feo” (Inf., IV, 144).

[49] È il tema di Inferno, XXVIII.

[50] Cfr. G. Scholem, Jewish gnosticism, Merkhabah mysticism et talmudic tradition, New York 1960; I. P. Coulianu, Psychanodia, I, Leiden 1930.

[51] A. de Libera, Sources arabes de la pensée européenne, in AA.VV., Granada 1492: histoire et représentations, Toulouse 1993, pp. 83-84, cit. in Guichard, L’Islam e l’Europa, cit., p. 331.

[52] Ma cfr. quanto si dice in A. De Libera, La philosophie médiévale, n. éd., Paris 1995, un libro l’assunto del quale è stato preceduto in forme polemiche e militanti (che a me non sono dispiaciute: al contrario) in Idem, Penser au Moyen Age, Paris 1991.