Domenica 4 luglio 2021, Santa Elisabetta di Portogallo
LIBRI LIBRI LIBRI
Marina Montesano, Dio lo volle? 1204: La vera caduta di Costantinopoli, Roma, Salerno Editrice, 2020, pp. 186, euri 16 (“Aculei”, 40)
“Le crociate – come assicura anche Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò – furono più di sette”. Per la verità altri manuali scolastici, almeno fino a qualche anno fa, ne contavano anche più di otto: ed erano ancora pessimisti. Oppure ottimistici: dipende dai punti di vista. Il fatto è che, se per crociate s’intendono riduttivamente le “spedizioni condotte (secc. XII-XIII) dai cristiani d’Occidente per strappare la Terrasanta dal dominio musulmano”, come si esprime per esempio l’Enciclopedia Universale Garzanti (la “Garzantina”), esse furono molte di più. Se poi si pensa a tutte quelle che furono definite tali a livello di diritto canonico, secondo il quale a chi vi partecipava era accordata un’indulgenza plenaria, allora il numero di esse si dilata e l’orizzonte si complica. La parola “crociata” venne adottata molto tardi nel linguaggio giuridico ufficiale: non prima del Tre-Quattrocento, mentre di solito si dice che la “prima crociata” (che non si chiamava così) durò dal 1096 al 1099); e si continuarono a bandire spedizioni analoghe alla crociata fino al Settecento, occasionalmente anche più tardi.
Certo comunque, almeno a partire dal XII secolo, per una guerra che la Chiesa romana ritenesse non solo “giusta”, ma anche spiritualmente meritoria – per quanto vi fossero molte resistenze a definirla “santa” – occorreva una specifica bolla pontificia che la bandisse. E, nonostante l’oggetto finale fosse sempre la liberazione dei Luoghi Santi, erano considerate indirettamente volte a tale scopo anche quelle spedizioni bandite contro nemici vari della Chiesa e del papato: eretici vari come i cosiddetti “albigesi”, barbari pagani come gli slavi o i balti del Nordeuropa, signori ghibellini d’Italia, hussiti boemi, turchi ottomani (che almeno erano musulmani), ugonotti francesi, presbiteriani britannici, perfino poveri indios centroamericani…
Insomma, un bel problema. Però la legittimazione, anzi la benedizione pontificia ci voleva: e quella ce l’avevano bella scritta su pergamena sigillata (“in gotico latino”, come hanno detto Guido Gozzano e Francesco Guccini) i nobili signori provenienti dalla Francia centrale e dal Piemonte nonché i marinai veneziani che nel 2002 fecero vela dalle coste di San Marco diretti in Terrasanta per combattere gli emiri, discendenti del gran Saladino, che occupavano Siria ed Egitto signoreggiando quindi – in grande discordia fra loro – la stessa Gerusalemme.
Ce l’avevano, loro, la bulla cruciatae: e firmata nientemeno che da un pontefice straordinario, Lotario di Segni, noto come Innocenzo III. “Santa Impresa”, dunque: e più santa di così…
Ma a riconquistare i Luoghi Santi, strappati ai musulmani alla fine dell’XI secolo e da quelli riconquistati meno di un secolo più tardi, non ce la fecero. Le peripezie di quel grande esercito cristiano-occidentale, imbarcato su un’eccellente e costosissima flotta veneziana presa a noleggio, non condussero a nessuna riconquista, a nessuna liberazione. Ce ne racconta le vicende complesse, appassionanti e in fondo amare Marina Montesano nel libro dall’ironico titolo – allusivo del motto della crociata – Dio lo volle? (Salerno editore).
Già: lo volle? Perché in realtà quei cruce signati compirono un’impresa ch’è una collana impressionante di atti di pirateria. I loro capi erano in discordia fra loro, mentre il doge Enrico Dandolo e i veneziani, loro compagni per non dir complici, erano altresì loro creditori: i soldi per il noleggio delle navi, difatti, non c’erano e bisognava farli saltar fuori da qualche. Ed ecco quindi i nostri eoi prima impegnarsi a recuperare per Venezia il porto dalmata di Zara, in quel momento occupato dal re d’Ungheria (ch’era crociato anche lui: ma in un’altra spedizione), quindi arrivati a Costantinopoli impicciarsi in un colpo di stato e in una guerra civile fra i pretendenti al trono “bizantino” (cioè a quello dell’impero romano d’Oriente), quindi conquistare quell’impero e spartirselo incuranti dei richiami e perfino della scomunica del papa. Venne così fondato il cosiddetto “impero latino di Costantinopoli”, che durò poco più di un mezzo secolo e si concluse con l’ambigua restaurazione di un impero neogreco.
Di solito, si dice che l’impero romano d’Oriente, fondato da Teodosio alla fine del IV secolo, terminò con la conquista ottomana del 1453. Ma in realtà esso non si era mai ripreso dal colpo infertogli dagli auro-occidentali in quel 1204. Per alcuni, era finito allora; e qualcuno ha avanzato perfino l’ipotesi che appunto là potremmo concludere lo stesso medioevo.
Fin qui la narrazione storica: e non c’è dubbio che Marina Montesano – storica del mediterraneo e della stregoneria, che di recente ha debuttato anche coma autrice di un romanzo – sia un’esperta ed efficace narratrice. Ma questo libro è anche fortemente problematico. A chi dare ragione, tra i bizantinisti per i quali quell’episodio fu il punto d’arrivo di una deliberata volontà occidentale di uccidere l’impero d’Oriente e i crociatisti che parlano invece di una “fatale” concatenazione di eventi e di malintesi? Il nucleo problematico del libro, in realtà, verte su questo: e lo fa dando anche ampio e puntuale conto delle fonti a nostra disposizione, l’analisi del quale è l’oggetto del capitolo più denso e stimolante di tutto il lavoro.
L’Italia immaginata. Iconografia di una nazione, a cura di Giovanni Belardelli, Venezia, Marsilio, 2020, pp. 348, euri 22, con illustrazioni a colori
Se vi càpita di visitare a Roma o a Malta qualche mausoleo del Sovrano Militare Ordine appunto di Malta (cioè della militia fratrum hospitalariorum di San Giovanni di Gerusalemme, poi di Rodi, poi di Malta, fondata nel XII secolo) e d’indugiare a considerane le insegne delle differenti nationes europee nelle quali esso è costituto, noterete forse con un qualche sentimento di frustrazione come – a fronte delle aquile, delle torri, dei leoni e dei fiordalisi che sono il centro delle altre -, il nostro paese sia rappresentato solo da uno stendardo nero per traverso del quale, in lettere gotiche dorate, è ricamato il nome Italia. In effetti, a causa soprattutto della sua storia composita, la patria italiana manca di un simbolo centrale nel quale sia pur imperfettamente riconoscersi. Non abbiamo nulla che possa paragonarsi all’aquila germanica, al fiordaliso di Francia, alla combinazione spagnola del leone e del castello.
Vero è tuttavia che, quando pensiamo alla “patria” italiana, alla “nazione” italiana, l’immagine che quasi immediatamente il nostro immaginario ci propone è quella che potremmo definire di stile “grecoromano” e che ci è familiare dall’ottocentesco “Altare della Patria” fino al profilo coniato su certe monete della prima repubblica. L’imponente immagine di una bella e fiera donna armata, eretta, cinta d’elmo crestato o di corona turrita, ch’è quasi intuitivo accostare alle statue greche di Atena.
D’altronde a quest’immagine se ne sovrappone quasi immediatamente un’altra, meno solenne e marziale ma più “materna”, magari seduta e malinconica, con la quale ci hanno familiarizzato certe figure romantiche: una giovane o una madre (o una giovane-madre) non dimessa ma pensosa, magari abbigliata con indumenti – un velo, una tunica, un manto – che insieme compongono i tre colori delle Virtù cardinali (il bianco della Fede, il verde della Speranza, il rosso della Carità) e che rinviano fatalmente all’immagine della Beatrice dantesca alla fine del Purgatorio: un’immagine che si direbbe ispirata a un “archetipo mariano” passato attraverso la figura stilnovistica della “donna angelicata”. Insomma, una vergine guerriera che s’incrocia – in una sintesi d’altronde non coerente e ricca di variabili – con l’idea della vergine-madre. Una compresenza di Atena e della Vergine Maria. Immaginare la Patria e la Nazione come una donna è tutt’altro che esclusivamente italiano, intendiamoci: ma ceerto, nell’universo europeo, il “caso” italiano è precipuo.
Sulla base di una ricerca iconografica mossa da un progetto della cassa di Risparmio e dell’Università perugine dal titolo “Lo stellone e la torre”, un docente appunto di quell’Ateneo, lo storico delle dottrine politiche Giovanni Belardelli, ha diretto e curato una rassegna di studi storico-iconologici che, diacronicamente partendo dall’eredità antica (non solo romana, ma altresì italica) attraverso la lunga costruzione dell’identità nazionale con i suoi “diverticoli” medievali e rinascimentali, si fanno gradualmente più precisi e diretti dall’età dei Lumi al periodo napoleoni, al Risorgimento, al complesso movimento unitario (con l’inevitabile riscontro della “sorella latina”, Marianne), fino alla “Madre guerriera” fascista e alla pluralità delle differenti “Italie” degli ultimi decenni, viste anche attraverso la cultura mediatica di massa (Miss Italia compresa) e – fatalmente – la stessa caricatura.
Non è purtroppo possibile qui procedere a un’analisi puntuale dei tredici saggi che, insieme con l’Introduzione di Belardelli, costituiscono questo libro, insieme con il necessario e opportuno corredo iconografico. Il risultato è una pluralità impressionante e qua e là anche molto divertente di modelli talora contrastanti, specchio peraltro della sostanza policentrica e pluralistica dell’identità del nostro paese e della nostra storia.
Ma è comunque quanto mai significativo che questo libro nasca a Perugia e sia, a modo suo, una schietta espressione di perusinitas: la Città del Grifone ha, specie nel suo ceto borghese fino dal XVIII secolo, una consapevolezza radicata in una lunga tradizione massonica che la distingue e che ne è parte non sottovalutabile. Del resto, e non caso visto che qui si parla di allegorie, gioverà pur rammentare – con il rammarico di non averlo fatto prima e di non avergli dedicato lo spazio che meriterebbe – che perugino era appunto quel Cesare Ripa che con la sua fondamentale Iconologia, del 1603, dette dell’Italia del suo tempo (ch’era pur ben lontana dall’elaborazione di una sua identità concettuale) un’immagine destinata a costituire una svolta. In tempi come il nostro, di faticosa e non sempre facile né serena ricerca di un nuovo “profilo identitario” condiviso, questo libro è senza dubbio molto opportuno.