Minima Cardiniana 338/4

Domenica 1 agosto 2021, S. Alfonso Maria de’ Liguori

QUADERNI AFRICANI
L’Africa sarà sempre più in prima linea, nei nostri interessi del futuro. È da poco uscito un attesissimo libro dell’amico Giovanni Armillotta, animatore della bella rivista “Africana”, del quale parleremo a lungo nei prossimi numeri. Intanto, un primo “assaggio” su un tema per tanti versi “primario”: il grande fiume sulle rive del quale è letteralmente nata la storia come espressione di volontà di ordinare e razionalizzare la memoria.

ANDREA MARCO SILVESTRI
LA GUERRA DELL’ACQUA. STRATEGIE E IDENTITÀ DEL CONFLITTO SUL NILO
La disputa sul Nilo fra Egitto, Etiopia e Sudan è una dinamica geopolitica preoccupante. Generatasi dalla costruzione della Diga del Millennio in Etiopia, questo conflitto – per ora diplomatico – potrebbe sfociare in un acceso scontro armato con conseguenze importanti in Africa Orientale. In gioco ci sono, infatti, non solo interessi strategici ma anche ragioni identitarie che i tre Stati intendono difendere.
L’acqua, una delle risorse più importanti di cui disponiamo sul nostro pianeta. Risorsa troppo spesso dimenticata e sottovalutata, oggi ci sta sfuggendo. Diverse aree del globo, infatti, sono messe a durissima prova da una situazione senza precedenti: la possibilità di una nuova guerra, non più per il petrolio ma per l’acqua. Fonte simbolica per eccellenza della vita sulla terra, la risorsa idrica è oggi un grande argomento di dibattito e di contesa, soprattutto in Africa, terra in cui i grandi fiumi sono simbolo identitario, storico e asset geopolitico. Simbolo leggendario di prosperità e vita, il Nilo è il fiume per eccellenza nella nostra coscienza collettiva. Culla di civiltà straordinarie ed eventi storici unici verificatisi attorno al suo ampio bacino. In questi anni il fiume è divenuto però anche il simbolo di una disputa, probabile prodromo di un conflitto acceso fra tre Paesi: Etiopia, Egitto e Sudan, gli Stati benedetti dal passaggio del Nilo.

La disputa strategica sul Nilo
Chi controlla il Nilo, controlla il potere. Questo assioma è ben chiaro ai popoli delle terre interessate fin dagli albori delle civiltà dell’area. L’Egitto, con la sua antichissima storia di sfruttamento delle piene nilotiche, è da molti considerato l’erede legittimo del controllo sul grande fiume e anche se la storia avvalora tale ipotesi, la geopolitica non è assolutamente dalla parte egiziana. Il grande Masr di Al-Sisi rischia infatti di vedere il suo afflusso d’acqua significativamente ridotto già nei prossimi mesi. Il responsabile? Una grande diga che si trova a più di 2000 km verso Sud, in Etiopia, Paese sorgente del ramo orientale del fiume.
La Grand Ethiopian Reniassance Dam (GERD) è un simbolo di orgoglio nazionale per il governo etiope. In questo territorio nasce il Nilo azzurro, il ramo che porta a valle la maggior parte dell’acqua e del limo fertile. Queste risorse, legate a doppio filo al destino dei popoli nilotici, sono irrinunciabili per gli Stati interessati. Pur di mantenere il proprio status quo ed equilibrio sono infatti disposti ad eliminare la concorrenza, anche attraverso una guerra.
Le parti in questione nella disputa sono principalmente tre Stati: Etiopia ed Egitto sono quelli che maggiormente attirano l’attenzione mediatica internazionale, mentre spesso lo Stato arido del Sudan viene dimenticato dalla geopolitica contemporanea. La diga costruita in Etiopia è un’opera di alta ingegneria, una mastodontica impresa capace di contenere un bacino idrico di decine di miliardi di metri cubi. Il progetto è italiano, targato Salini Impregilo ed è costato parecchio (si parla di diversi miliardi, ma la cifra ufficiale non è nota).
Si tratta di una diga a gravità la cui principale funzione sarà quella di imprigionare parte del flusso del Nilo Azzurro con il fine di creare una riserva idrica utile mentre viene generata energia elettrica. Tutto chiaro sulla carta, il problema infatti non è la GERD in sé, il problema è a valle. L’Etiopia si è mostrata determinata fin dal 2011 (data di inizio della costruzione della diga) a modificare il suo stato di Paese poverissimo e bisognoso per trasformarsi in un grande produttore di energia elettrica. La scelta è tecnica da un lato e strategica dall’altro, senza contare l’influenza sull’elettorato del premier etiope, che non gode di ottima fama internazionale dopo il riaccendersi delle ostilità in Tigray. Per questo, un simbolo di orgoglio patriottico ed unitario è ora il bisogno primario in Etiopia, l’acqua è addirittura secondaria.
Scendendo più a valle e verso il centro del continente troviamo Khartoum, la capitale sudanese che si trova in una zona fortunata, alla confluenza fra Nilo Bianco e Nilo azzurro.
I due flussi, tuttavia, non sono di eguale portata e potenza. L’anno scorso, quando la GERD fu riempita per un primo test con appena 4 miliardi di mt cubi d’acqua, nella capitale del Sudan fu registrata una sensibile penuria idrica. E se questo accade in una città come Khartoum, che tocca i 5 milioni di abitanti solo nella sua area metropolitana, immaginiamo cosa queste chiusure della diga possano comportare ancora più a valle, nella gigantesca Il Cairo, dove gli abitanti stimati sono almeno 22 milioni. Le conseguenze di una scelta fatta a monte sono amplificate all’ennesima potenza a valle.
La settimana scorsa, la diga è stata riempita con altri 13 miliardi di mt cubi d’acqua. Secondo molti analisti il problema di scarsità a valle dipende dalla velocità di riempimento. Le minacce di guerra egiziane, infatti, già in atto da più di un anno, non hanno tardato ad arrivare.
I negoziati procedono a rilento fra i tre Stati, con timidi interventi di ONU, UE ed Unione Africana ma una posizione comune non si trova e sembra non esserci perché la questione è identitaria prima che politica.

Fra acqua e identità
Le più importanti civiltà e le grandi città della storia nascono sempre sul corso di un fiume che ne permetta la fioritura. Questa regola naturale valeva secoli fa quanto oggi, chi controlla e gestisce l’acqua nel miglior modo sopravvive ed assume uno status privilegiato rispetto al suo competitor.
Oltre alle ovvie ragioni di natura economico-strategica che stanno alla base del conflitto sull’uso delle acque nilotiche, ci sono altre ragioni (forse più profonde) che disciplinano la rivalità tra i due contendenti principali: Egitto ed Etiopia.
Due grandi civiltà che sono confluite in due grandi Stati moderni, molto diversi tra loro per diverse ragioni oggi si trovano a contendersi il primato dell’acqua, una questione materiale ma ancor prima identitaria.
Gli egiziani parlano del Nilo come se fosse una proprietà esclusiva, un monopolio materiale ed ideologico. La storia di antico splendore dovuto alle inondazioni dà ragione agli egiziani ma la realtà geografica è ben diversa. Una scomoda realtà per la retorica di Al-Sisi, quella che vede il corso del Nilo passare per ben 13 diversi Paesi del continente.
L’atteggiamento negoziale dell’Egitto di Sisi è decisamente aggressivo. L’orgoglio patriottico egiziano vede una sola diga come “centrale” per il Nilo, quella di Assuan, il resto non conta. Se il corso del Nilo al Cairo subirà un decremento del 25% le forze armate egiziane attaccheranno lo sfidante etiope.
Mentre l’Egitto affonda la propria retorica belligerante nelle nobili radici egizie, il governo etiope di Ali vede nella diga una tanto attesa possibilità di rinascita. Questa è l’opportunità del millennio per l’Etiopia di risplendere ed alzarsi finalmente con le proprie gambe. Gli ostacoli e le ingerenze esterne non verranno contemplate. Il piano qui è chiaro.
Infine, c’è il Sudan, contendente di ultima fascia che raramente gode dell’ascolto delle altre parti in campo. A differenza dell’Etiopia, terra degli altopiani da cui tutto origina e dell’Egitto, sede della foce nilotica, il Sudan occupa la porzione mediana del fiume e dei negoziati, poco peso politico e strategico che obbligano il governo a fare pressione sulle Nazioni Unite che proprio in questi giorni discutono ai vertici del Consigli di Sicurezza.

Un futuro incerto
Ciò che resta da capire sul destino del Nilo e di chi fa affidamento sulle sue acque per sopravvivere sono gli sviluppi nel prossimo e lontano futuro. Le minacce di guerra sono preoccupanti e credibili, gli sviluppi invece sono ancora incerti.
Secondo una analisi che tenga il benessere umano al centro e quindi legato maggiormente a valori identitari e di sussistenza, le strade possibili sono principalmente tre.
La prima è il conflitto annunciato. Questa ipotesi diventerà la più probabile se i già lenti e difficili negoziati diplomatici dovessero fallire entro il 2023, anno del totale riempimento previsto della diga etiope. Un conflitto armato derivante da questa disputa nilotica vedrebbe sicuramente un acceso intervento egiziano, di cui sarebbe protagonista il temibile e numerosissimo esercito di cui dispone Al-Sisi. Dall’altro lato, l’Esercito etiope, inferiore dal punto di vista militare, avrebbe poche possibilità di difendersi efficacemente. La speranza degli analisti è che un breve intervento iniziale dal lato egiziano porti ad una rinnovata volontà negoziale sul destino della diga dal lato di Addis Abeba.
Un secondo scenario è quello delle interferenze esterne. ONU e UE stanno cercando di influenzare le dinamiche del conflitto da diversi anni. Le parti interessate sono d’accordo sul fatto che tutti “siamo stanchi di vedere problemi africani risolti da potenze straniere”. Soltanto il Sudan, membro subalterno della trattativa, cerca di coinvolgere le Nazioni Unite attraverso le continue segnalazioni da parte di Yasser Abbas, ministro sudanese per l’irrigazione.
Infine, vi è l’ipotesi di un negoziato africano. La realtà meno probabile vede un imminente accordo tripartitico di intesa per delineare e disciplinare l’uso delle dige sul Nilo. L’Egitto perderebbe così il suo primato di grande decisore sulle acque del grande fiume, padre di ogni civiltà. Questo scenario è particolarmente improbabile da qui al prossimo anno.
Le sorti dell’Africa orientale dipendono oggi dalle decisioni di tre governi, molto diversi tra loro e molto lontani nelle vedute. Un esercizio di diplomazia sarà sufficiente per placare le ostilità e valutare modelli di condivisione sostenibile del bene più prezioso?
Le scelte dei leader non sono tutte prevedibili. Gli uomini prendono decisioni ma la legge finale è sempre nelle mani del Nilo.
(Amistades, 17 luglio 2021)

GABRIELE MELE
LA STRATEGIA ISRAELIANA NEL CORNO D’AFRICA
Le ambasciate israeliane ubicate oggi sul continente africano sono dodici e concentrate in particolare nella regione del Corno d’Africa, caratterizzata da un cospicuo volume di interscambi economici, interessi militari ed industriali. Il mutamento delle relazioni diplomatiche tra Israele e le nazioni del Corno d’Africa deve essere ricondotto alla diffusa percezione dell’Iran quale suprema minaccia regionale in continua espansione e con l’ambizione di diventare la principale potenza in quest’area geografica.
Complessivamente sono 12 le ambasciate israeliane ubicate sul continente africano, alle quali potrebbe essere aggiunta a breve una tredicesima, alla luce dell’annunciata normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Khartoum e Tel Aviv sulla base degli accordi del 23 ottobre 2020. Le rappresentanze diplomatiche di Israele in Africa sono presenti in Angola, Camerun, Costa d’Avorio, Egitto, Eritrea, Etiopia, Ghana, Kenya, Nigeria, Ruanda, Senegal e Sud Africa, mentre risultano ancora assenti in nove Paesi che nello stesso continente si rifiutino di riconoscere ufficialmente lo stato ebraico. Si tratta Algeria, Comore, Gibuti, Mali, Marocco, Niger, Somalia e Tunisia.
Difatti appare evidente una specifica mappatura degli interessi israeliani nel continente ed in particolare nella regione del Corno d’Africa dove tende a concentrarsi non solo il maggior numero di ambasciate ma anche e soprattutto il più cospicuo volume relativo degli interscambi economici e degli interessi militari ed industriali. In particolare, resta assolutamente prioritario il mantenimento della sicurezza del Mar Rosso in maniera tale da poter garantire le rotte commerciali marittime in direzione di Eilat e di Suez.
Nei primi anni Settanta del XX secolo molti Paesi africani optarono per una chiusura virulenta delle relazioni diplomatiche con Israele, in seguito ai conflitti che ne avevano rappresentato le burrascose relazioni con alcuni stati arabi. D’altro canto, in Etiopia è presente un’antica comunità ebraica – i falascia – (anche falascià o falasha) sono un popolo di origine etiope e di religione ebraica presenti sin dal XV secolo), l’Etiopia aveva avviato una proficua quanto discreta collaborazione, a partire dal 1966, soprattutto sul piano militare con Tel Aviv. Per oltre trent’anni, in questo modo, le relazioni di Tel Aviv con le nazioni africane sono state ridotte ad un esiguo numero di Paesi con i quali la nazione israeliana era riuscita a salvaguardare le proprie relazioni diplomatiche, avendo comunque dovuto subire un siderale ridimensionamento degli interscambi commerciali. Successivamente a tre decadi di assenza dal continente africano, fu il primo ministro Benjamin Netanyahu il primo esponente di governo a tornare in visita ufficiale nel 2016, concentrando le tappe del suo viaggio principalmente nella regione del Corno d’Africa, e in particolar modo in Etiopia, Kenya, Ruanda e Uganda.

I rapporti tra Israele e le nazioni del Corno d’Africa in funzione anti-iraniana
In contemporanea il contenimento della potenza regionale iraniana progressivamente ha assunto un valore imprescindibile nel calcolo degli interessi geostrategici di Tel Aviv. La rinnovata capacità militare iraniana di volersi espandere verso l’Oceano Indiano ed il Mar Rosso, ha costituito un elemento di interesse prioritario per Israele, da contrastare anche tramite la normalizzazione dei propri rapporti con un numero crescente di Stati della regione, primo tra tutti il Sudan. In tale ottica è facilmente comprensibile come la priorità di queste rinnovate relazioni abbia voluto privilegiare il rafforzamento e la ricostruzione dei rapporti a livello politico-diplomatico con numerosi Paesi del Corno d’Africa.
La necessità di mettere in sicurezza dei flussi marittimi fondamentali per i porti israeliani sia nel Mar Rosso che sul Mediterraneo ha spinto da sempre Israele a proiettarsi su questa regione soprattutto grazie al rapporto privilegiato con l’Etiopia. Il Sinai, a sud tutto il mar Rosso, ed in particolar modo le coste eritree fino allo stretto strategico di Bab el Mandeb compreso tra Yemen e Gubuti, sono costantemente monitorate dai servizi israeliani.
Come annunciato il 5 novembre del 2019 dall’Ethiopian National Intelligence and Security Service (NISS), Israele ed Etiopia hanno siglato un accordo di cooperazione sul piano dell’intelligence militare, volto a fronteggiare la minaccia terroristica e cooperare nell’ambito della condivisione delle informazioni relative alla sicurezza regionale. La cooperazione, sancita dal direttore del NISS Demelash Gebremichael e dal Vice Ministro per la Sicurezza israeliano Gadi Yevarkan, viene considerata da molti analisti funzionale alla gestione della grave crisi politica e militare determinatasi nella regione del Tigray etiopico.

Scenari futuri
Il Corno d’Africa e la regione del Golfo Persico/Arabico sono inoltre fortemente connessi in merito al piano securitario a causa della presenza perdurante di minacce e vulnerabilità comuni: conflitti armati, jihadismo transnazionale e violenza politica. A questi fattori devono essere sommate le storiche rivalità tra arabi del Golfo e Teheran e queste tensioni presenti all’interno del Consiglio di cooperazione del Golfo, le quali sono oggi percepite come una delle minacce più incombenti alla stabilità e alla pace del Corno intero. In questo contesto Tel Aviv guarda oggi con enorme interesse alla cooperazione con l’Etiopia sebbene allo stesso tempo sia preoccupata per lo sviluppo della crisi tra Etiopia ed Egitto relativa alla questione della diga del GERD, in merito alla quale Israele non vuole rischiare di generare attriti con l’Egitto. Più a sud, i rapporti tra Eritrea e Israele sono caratterizzati da un’ampia apertura in quanto l’Eritrea di Isaias Afewrki ha guardato con grande interesse alla possibilità di una partnership con Tel Aviv in particolar modo sul piano della sicurezza e delle infrastrutture.
Infine, deve essere rimarcato come la capacità politica e militare di Israele nella regione del Mar Rosso e del Corno d’Africa sia fortemente aumentata dal 2016 ad oggi andando a perseguire il duplice fine di assicurare la stabilità delle rotte commerciali dirette verso i terminali israeliani e contrastare la crescente presenza e capacità militare dell’Iran nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso anche con il pretesto della lotta alla pirateria in Somalia.
(Amistades, 24 luglio 2021)

FRANCO CARDINI
I FIGLI DI SALOMONE E DELLA REGINA DI SABA. UNA “SCHEDA” MITOSTORICA SUI FALASHA
Sono stati ricordati gli ebrei d’Etiopia: antica, gloriosa etnìa. Ci sarebbe da dirne e da saperne molto di più…

“Uscite, o figlie di Sion,
guardate il re Salomone
con la corona che gli pose sua madre
nel giorno delle sue nozze…
Tu sei bella, amica mia.
Leggiadra come Gerusalemme…”

Così cantava il re-sapiente-poeta nel suo capolavoro, il Cantico dei Cantici.
Salomone, in tutta la sua gloria – così ammoniva Gesù di Nazareth – non era comunque mai riuscito ad eguagliare in splendore e in eleganza i gigli che crescono liberi nei campi: tutte le filatrici e le tessitrici e le ricamatrici dall’Egitto all’India, tutti i tintori di Fenicia, tutto il bisso e la lana e la seta sapientemente e riccamente colorati con la migliore porpora e il più costoso lapislazzulo pestato non avrebbero mai eguagliato la mano del Creatore.
Ma per il resto, egli era – per quanto molti archeologi moderni si siano sforzati di dissacrare questa fama – il più saggio, il più ricco, il più potente fra i re della terra: colui al quale, come testimonia il Corano, obbedivano anche i demoni che si tuffavano nelle profondità dell’Oceano per recargli le rare ricchezze custodite dagli abissi. E la sua stessa vaneggiante vecchiaia, l’aver ceduto al richiamo struggente della lussuria e alle lusinghe dei falsi dèi, non aveva tuttavia intaccato la sua gloria.
Fra le infinite leggende che lo riguardano, una soprattutto c’incanta. Quella dei suoi amori con la regina di Saba, che nell’Europa cristiana sarebbe divenuta addirittura un capitolo della Legenda crucis riscritta da Giacomo da Varazze nella Legenda aurea e poi affrescata da Piero della Francesca e sul quale tutti ricordano tanto il bel libro di qualche anno fa Indagini su Piero, di Carlo Ginzburg, quanto il più recente studio di Chiara Mercuri.
Narrano i Falàsha, gli ebrei etiopi, che dall’amore di Salomone per Makeda regina di Saba sarebbe nato Menelik (Banya-Lehkem), il quale si sarebbe recato con la madre ad Axum portando con sé il più santo fra i tesori del Tempio, l’Arca dell’Alleanza: in seguito a ciò Axum sarebbe diventata la nuova Gerusalemme e gli etiopi il nuovo Israele.
Della leggenda di Menelik tratta il Kebra Nagast (“La Gloria dei Re”), testo sacro della Chiesa copta – cioè monofisita – etiope, redatto in lingua ge’ez nel XIV secolo sulla base però di testi di circa un millennio precedenti: esso ha conosciuto anche un’inaspettata fama ai nostri giorni, divenendo negli Anni Trenta del secolo scorso il testo sacro dei “rastafariani” e penetrato quindi nel reggae giamaicano.
Menelik sarebbe stato incoronato “re dei re” (Negus Negesti) e avrebbe dato origine alla dinastia del Leone di Giuda – la tribù alla quale appartenevano David e Salomone –, la quale avrebbe da allora ininterrottamente regnato sull’Etiopia per quasi tremila anni, con duecentoventicinque imperatori finché nel 1974 l’ultimo di essi, Hailé Selassiè I, sarebbe stato assassinato.
Ad Axum, in una cappella accanto alla chiesa di Maryam Sion nel quale tradizionalmente s’incoronavano gli imperatori d’Etiopia, i sacerdoti copti affermano che si conservi l’Arca dell’Alleanza con le tavole di Mosè che andò distrutta o trafugata durante la profanazione del Tempio di Salomone da parte delle truppe di Nabuchodonosor, o forse inviata come trofeo a Babilonia, dove se ne sarebbero perdute le tracce; ma che secondo alcune voci sarebbe stata invece nascosta, sepolta al centro dello zoccolo di pietra che sostiene il Haram esh-Sharif oppure sui fianchi del Monte Nebo sul quale Mosè spirò dopo aver visto da lontano la Terra Promessa. A dire il vero, una pia tradizione narra com’essa abbia invece preso letteralmente il volo verso il cielo, su un carro alato a guardia del quale stavano i malakhim, gli angeli.
Ma i preti di Axum la sanno lunga; e diversa. A loro dire, Salomone non era per nulla certo che l’Arca fosse ben custodita in Gerusalemme: l’affidò pertanto al figlio Menelik, nato dal ventre della regina di Saba ma evidentemente convertito all’ebraismo. Fu lui a trasferire il santo e preziosissimo oggetto ad Axum, per quanto molte e contrastanti siano le leggende connesse con questa pia translazione.
L’Arca – che si dice venga in alcune circostanze esposta – è una specie di lungo astuccio ligneo rivestito d’oro che contiene una pietra bianca traslucida, lunga circa settanta centimetri e spessa quattro, che viene descritta a volte come uno specchio, altre come una specie di distesa d’acqua, altre ancora come una fonte di vivida luce: al suo cospetto, non si può dormire. Attorno ad essa aleggia lo Spirito Santo, la Presenza del Dio Vivente, la Shekinah.
Gli etiopi, che pure parlano idiomi di ceppo semitico, sostengono ancora di discendere direttamente da Cam, il figlio maledetto di Noè, padre di tutti i popoli neri. Però dopo le nozze tra Salomone e la Regina di Saba essi sono divenuti i figli prediletti della tribù di Giuda – la stessa di Gesù, “Figlio di David” – e del popolo d’Israele. I monaci siriani guidati da Frumezio, che li convertirono al cristianesimo, nulla fecero in fondo – così asseriscono i religiosi abissini – se non confermare e perfezionare l’ebraismo di quella irreprensibile comunità gente che si nutriva solo di cibo puro kosher, circoncideva i figli maschi e osservava il riposo del sabato. sabato. Gli etiopi ricordano il nome del loro primo sovrano convertito al cristianesimo, Esana, e venerano la memoria di Frumezio chiamandolo Abuna Salama, “il padre della Pace”. Axum, che era già allora la loro città più importante, rimase in fondo multiconfessionale, accettando il cristianesimo senza eliminare né i culti pagani, né l’ebraismo. Al culmine dello splendore, il regno estese il suo potere fino all’Arabia meridionale. Si racconta che nello Yemen il monarca ebreo di Sanaa attaccò la città di Nagran tentando d’imporre il giudaismo ai suoi sudditi. Fu allora che l’Etiopia, con l’appoggio dell’imperatore bizantino, intervenne e occupò lo Yemen. Pare che una cattedrale monofisita eretta a Sanaa divenne da allora il principale centro di pellegrinaggio dei cristiani d’Arabia, rivaleggiando perfino con la Mecca. Si dice ancora che nei giorni in cui nasceva Muhammad un re chiamato Abraha si preparava, alla testa di una spedizione militare, a distruggere il centro di culto dell’Arabia: ma le sue truppe, colpite da una pioggia di pietre, furono schiacciate – come ci racconta il Corano nella sura 105 – “come steli di cereali che siano stati calpestati”. I persiani intervennero a loro volta in Arabia respingendo gli etiopi in Africa. Si tratta di una differente versione della cosiddetta “spedizione dell’Elefante”.
Nella primissima tradizione musulmana si narra altresì che alcuni compagni del Profeta, fuggiti dalla Mecca per non sottostare alla violenza di quanti si opponevano alla nuova fede, trovarono amichevole ospitalità ad Axum e che perciò, più tardi, il Profeta vietò che le armate musulmane la sottomettessero: sembra però che, al contrario, l’esercito musulmano fosse respinto dagli etiopi.
Col tempo, comunque, la compagine axumita s’indebolì e dovette sopportare l’egemonia del patriarcato copto di Alessandria. La rinascita giunse con la nuova dinastia degli Zaguè, dalla quale discese il Negus Lalibela – contemporaneo del Saladino e del Barbarossa – che, dopo un viaggio a Gerusalemme che lo lasciò profondamente impressionato, spostò la sua capitale verso sud impiantandola nella città di Roha, che in seguito assunse il suo stesso nome e che venne concepita architettonicamente e urbanisticamente come una replica della Città Santa, con un Giordano e un Golgota. Le chiese di Lalibela – il cui rapporto con Gerusalemme è rigorosamente simbolico-liturgico, ma non propriamente topomimetico – sono tutte scavate in profondità e intagliate nella roccia.
Il nome Lalibela significa in lingua agaw (idioma cuscitico usato in Etiopia e in Eritrea) “le api riconoscono la sua sovranità”, in quanto secondo la leggenda quand’egli nacque – il 6 gennaio, che nelle Chiese orientali è celebrato in quanto Epifania e al tempo steso giorno del natale del Cristo – venne immediatamente “riconosciuto” e adorato da uno sciame di quegli insetti. La simbologia regale delle api – già diffusa nell’antico Egitto fino dal III millennio a. C. – è ben nota anche nel nostro Occidente.
All’Italia spetta purtroppo il disonore di aver eliminato, con la cultura di quei sovrani che si rifacevano a Salomone e, l’impero etiopico per sostituirlo con una grottesca e maldestra imitazione dell’impero dell’India della regina Vittoria; la “rivoluzione” del criminale Menghistu, nel 1974, continuò e portò a compimento con l’assassinio sacrilego del Negus quell’autentico anticapolavoro che Mussolini aveva avviato nel 1935-36 e che costituisce, con le leggi razziali del 1938, una delle più disonorevoli pagine della storia del fascismo. Fra ’36 e ’74 abbiamo perduto una della più grandi tradizioni della nostra civiltà, un’autentica Gloria del Mondo, cancellata dalla collaborazione per nulla casuale di due diversi aspetti della Modernità. Diversi, ma assolutamente non opposti.