Domenica 8 agosto 2021, San Domenico
QUANDO AD ANDARSENE È UN FRATELLO…
ANTONIO PENNACCHI. IN MEMORIAM
Se n’è andato così, il 3 agosto, nella sua Latina: sembra che stesse al telefono quando l’infarto lo ha fulminato. Una “buona morte”, avrebbero detto i miei vecchi: a patto che ti sia concesso un istante per pensare a Dio e chieder perdono dei tuoi peccati. Ricordate Bonconte da Montefeltro, nel V del Purgatorio?
Per me, un fratello: e forse qualcosa di più. Aveva settantun anni, il grande Antonio Pennacchi. Un’età che ormai si definisce “precoce” per andarsene. Ai suoi e ai miei tempi (ho dieci anni più di lui) non era così: quando ero ragazzo, e anche quando lo era lui, si diceva “un vecchio di settant’anni”: cosa che a dirla oggi – la bulimia che ci distingue è diventata anche bulimia del vivere a lungo e restando per giunta giovani (e non c’è senso non dico del limite, ma nemmeno del ridicolo che tenga) – suona quasi come un’offesa.
Comunque, mi sento a disagio a doverne parlare: ho sempre pensato che Antonio, prima o poi (spero più “poi” possibile) mi avrebbe dedicato almeno un “coccodrillo”. E mi auguravo che non sarebbero state le solite quattro parole di circostanza. Che ci sarebbero stati dell’affetto e del rimpianto. Questo avrei desiderato: non certo lodi o riconoscimenti accademici.
Invece, spetta a me invertire l’ordine naturale delle cose e trovarmi a piangere un amico più giovane che ci ha lasciati. Non è purtroppo la prima volta che mi càpita. È una cosa che ho provato altre volte. Per amici davvero fraterni: e questo non è un modo di dire. Ad esempio per Riccardo Francovich o per Marco Tangheroni, le figure dei quali non ho certo bisogno d’illustrare. O per mio nipote Enrico François, poco più che ventenne; o per un giovanissimo che consideravo mio allievo e che speravo continuasse il mio lavoro, Leone Borsotti. O per Ilaria Caputi, conosciuta giovanissima e bellissima nel 1970 su un aereo diretto a Mosca e quindi ritrovata per poco tempo e pochissime volte, l’ultima a letto ammalata. Ilaria, che aveva a lungo collaborato con Folco Quilici, è scomparsa nel nulla alcuni anni or sono: le lettere che le inviavo al suo indirizzo napoletano da un certo punto in poi sono state respinte al mittente senza una parola, e non ho osato indagare. Un amore durato lo spazio di un volo in aeroplano e tutta una vita.
Nel caso di Antonio, certo, il dolore è più lieve in quanto la dipartita è stata meno prematura. Non si può certo dire che non si sia realizzato, che non abbia lasciato il segno. Ed eccolo ancora là, alto e leggermente curvo, col suo passo talvolta incerto e la sua aria disincantata, il berretto a visiera – “alla Lenin” – perennemente calcato sulla testa e la sciarpa altrettanto perennemente sulle spalle per combattere le correnti d’aria, purtroppo non uniche responsabili dei suoi continui feroci mal di schiena.
Di Antonio, a proposito di cose “pubbliche”, ricordo il coraggio e la franchezza non di rado spinta fino a una provocazione talora un tantino esibizionistica, sempre ben centrata e salutare. Nella lunga penombra che abbiamo attraversato dalla prima guerra del golfo fino ad oggi, e che non è ancora finita, sui giornali e in TV ci siamo trovati spesso insieme, noi tre o quattro “refrattari” – insieme con lui ricordo don Andrea Gallo e Giulietto Chiesa, che purtroppo se ne sono andati anche loro; e il magnifico, splendido Moni Ovadia – a far da “voci fuori dal coro” a proposito delle guerre amerikane in Afghanistan e in Iraq, anche sfidando il fuoco di fila dei Vespa, dei Fede, dei Mentana, dei Lerner (personaggi differenti tra loro, qualcuno anche amico: ma su posizioni rispetto alle quali noi facevamo loro da controcanto mediaticamente parlando fievole però moralmente molto risentito: e la storia recentissima ci ha dato ragione, anche se i media non ce l’hanno mai riconosciuta). Con Antonio, mi capitò anni fa di condividere anche la strampalata avventura di una lista elettorale a Latina: che fu subito battezzata “fasciocomunista” e che faceva meetings da “tutto esaurito”, ma che racimolò poi solo un pugno di voti rubacchiati un po’ all’estrema destra un po’ all’estrema sinistra. “Voti sprecati, voti inutili”, ci redarguirono bacchettandoci alcuni leaders tanto della destra quanto della sinistra, contrariati per tanto ardire ma gongolanti per la nostra scivolata. E noi due commentammo, ridacchiandoci sopra, che in fondo era quello che meritavamo. Quanto a quei leaders, in realtà si erano presi una grossa paura e avevano dato prova lampante della loro disonestà e della loro miopìa. E difatti nemmeno uno di loro ce l’ha fatta a restare a galla. Sarà stata colpa dei fasciocomunisti?…
Alla base dell’amicizia tra Antonio e me, consolidata dalla decisione e dal calore con i quali avevo salutato il suo capolavoro, Canale Mussolini, uno dei più bei libri del XX secolo, v’era un qualche parallelismo: io fra Anni Cinquanta e Anni Sessanta, lui un po’ più tardi, eravamo stati militanti convinti del Movimento Sociale Italiano in due contesti molto diversi fra loro ma ugualmente difficili, io nella “rossa” Toscana lui nel “rossonero” Agro Pontino. Pennacchi era un singolare prodotto di quell’ambiente emiliano-veneto di trapiantati nell’”Agro Redento” a metà Anni Trenta: italosettentrionali riciclati nel Basso Lazio, circondati da una popolazione ciociara che li guardava dalle alture preappenniniche, che si esprimevano in un dialetto semiromanesco da “burini” punteggiato di espressioni d’origine nordadriatica. Un impasto dialettale che torna puntualmente in Canale Mussolini, un libro che affonda le sue origini nello squadrismo selvaggio di reduci della Grande Guerra che vivono la piana tra Roma, i Monti Simbruini, i Monti Ausoni, i Monti Aurunci e il Circeo un po’ come se fosse quella alluvionale del Po tra Ferrara e Rovigo e che si situano nel movimento fascista tra Italo Balbo ed Edmondo Rossoni. Insomma, quelli del ’23, direte voi: gli assassini di don Minzoni. Ed è proprio così: proprio quelli. Rispetto ad essi, poi, Antonio si poneva in una collocazione ancora più complessa date le sue origini umbre e operaie da parte di padre e venete e “colone” da parte di madre. Con sei tra fratelli e sorelle, tutti orientati “a sinistra”, Antonio aveva deciso di esser la “pecora nera” della famiglia: ma, vista la storia degli Anni Trenta e nel quadro urbanistico “littorio” di Latina, tutto ciò era a modo suo normale.
Passato ben presto dal Movimento Sociale al Partito Comunista – “da un estremo all’altro”, direste voi: e vi sbagliereste – con tutta la strafottenza di chi si rende responsabile di uno “strappo” sesquipedale ma lo vive come un’espressione d’intima coerenza morale, con la coscienza di poter solo così continuar a “servire gli ultimi”, Pennacchi ha passato la gran parte della sua esistenza da operaio dell’industria pesante (rimettendoci la salute e parecchi anni di vita) e intanto studiando e inseguendo la sua autentica passione e il suo intimo genio: l’”operaio della lingua”, lo scrittore-militante ch’è anche un grande stilista e un perfetto filologo e che a colpi di scuole serali si foggia perfino gli strumenti universitari per esserlo sul serio e fino in fondo. Intanto percorreva la sua tortuosa via politica in varie organizzazioni politiche e sindacali della sinistra, venendo regolarmente espulso: fino alla metà circa degli Anni Ottanta, quando la sua autentica e geniale vocazione per lo studio, la scrittura, la lingua e lo stile ebbe la meglio sulla sua ardente ma strampalata passione politica.
Fu un editore anche lui fuori dal coro, Donzelli, a scoprirlo nel ’94 pubblicandogli in primo romanzo, Mammut, che aveva collezionato il record di ben 55 rifiuti da 33 editori diversi. Una bella costanza: da maniaco fallito o da prepotente convinto di essere un genio. E lui era la seconda che ho detto. Il successo mediatico arrivò con Palude, del ’95, dedicato alla sua città; e quindi con Una nuvola rossa del ’98, con la quale lo scoprii anch’io, e per una coincidenza. Il libro narra un “pasticciaccio bbrutto”, un delitto che aveva coinvolto una coppia di fidanzati della cittadina pontino-ciociara di Cori. Io le conosco bene, quelle parti: nel ’66 ho prestato servizio come sottotenente d’ aeronautica alla Scuola Radaristi di Foce Verde, tra Latina e la torre d’Astura. Quel romanzo m’incuriosì, l’impasto dialettale in cui i personaggi si esprimevano mi piacque. Decisi che quel Pennacchi era uno da tener d’occhio.
Frattanto, passato da Donzelli a Mondadori, egli bruciava le tappe. Nel 2003 lessi la sua “autobiografia”, Il Fasciocomunista, vincitore del Premio Napoli e che ispirò un film francamente bruttino malgrado il suo successo e la bella performance d’uno Zingaretti nelle brache e nella canottiera d’un sottoproletario neofascista venditore ambulante e sciupafemmine. Un film che non piacque a Pennacchi, che non lo mandò certo a dire con delicatezza. Non era il suo forte, la delicatezza. Frattanto, uscivano tra 2003 e 2005 quelli che io credevo rappresentativi del Pennacchi migliore: Le città del Duce (seguito nel 2008 da Fascio e martello) e L’autobus di Stalin, buoni esempi d’una saggistica un po’ frettolosa e scanzonata – “antiaccademica” – nella forma, finissima nella sostanza.
Nel 2010, infine, Canale Mussolini, il romanzo epico sulla bonifica dell’Agro Pontino: “l’opera per la quale sono venuto al mondo”, disse lui. Fece il pieno di premi: lo Strega, l’Acqui, il “Libro dell’Anno”, l’”Asti d’Appello”. In quell’anno si consolidò la nostra amicizia, nata un po’ prima: il suo capolavoro mi aveva convinto e mi ero buttato a capofitto nell’impegno di sostenerlo. L’anno dopo, il 2011, ecco l’avventura della lista “Futuro e Libertà per l’Italia”, col programma di superare la dicotomia destra-sinistra e un forte, deciso indirizzo antiberlusconiano. Con un certo piglio futurista: lo presentammo come “laboratorio politico-artistico rivoluzionario”, fece un baccano impensato ma finì sotto l’1%. Un flop totale, provocato senza dubbio dalla nostra inadeguatezza sul piano strategico-economico-mediatico-pubblicitario, dal vuoto che (a dispetto di troppe promesse) ci fu creato attorno, ma anche dall’ipocrisia perbenistica della sinistra e dall’ottusità conformistica della destra.
Continuò a mieter comunque successi – misurandosi perfino con la fantascienza e occupandosi frattanto dell’ambiente pontino con un intelligente progetto ciclonavigabile. Ottenne lusinghiere affermazioni all’estero e tornò più volte sul suo amato Agro Pontino. Ben noti anche alcuni suoi interventi giornalistici, su “Limes” e altrove.
Ho scritto ripetutamente che Pennacchi è stato il più grande scrittore italiano del secondo Novecento: e, anche se non sono un critico letterario né intendo farmi passar per tale, lo ribadisco. In quanto stilista e filologo, conosco solo Pier Paolo Pasolini che possa stargli alla pari. Solo sul piano storico-politico non andavamo granché d’accordo: la sua era una linea che, piuttosto che propriamente marxiana, definirei salveminiano-volpiana, con un’accentuata passione unitaria per quel che riguarda le vicende italiane che mai almeno negli ultimi sessant’anni ho condiviso. Laicista ancorché equilibrato e unitarista convinto lui, cattolico tradizionalista e “cattaneista” decisamente antirisorgimentale io. Ma sulla necessità di un progetto politico europeista che ancora non si scorge all’orizzonte eravamo ancora una volta d’accordo.
Avrebbe avuto ancora molto da dire: e in termini di “speranza di vita” ne avrebbe avuto ampiamente il tempo. Ma la sua salute era seriamente minata: e lo sapeva. Restano il moltissimo che ci ha donato, e i suoi progetti, e la sua memoria, e la sua burbera appassionata cordialità. Un vuoto incolmabile.