Minima Cardiniana 340/1

Domenica 22 agosto 2021, San Fabrizio

EDITORIALE
RITORNO A DUMAS. “VENT’ANNI DOPO”: SIAMO PUNTO E A CAPO CON LA WAR ON TERROR?
Sembra ieri: eppure è una tragedia che a tutt’oggi è durata qualcosa di più di vent’anni, dall’autunno del 2001. Che il buon Dumas sia ancora una volta da citare, che si stia preparando un nuovo Vent’anni dopo? La causa almeno formalmente diretta di quel che allora accadde era stata la tragica giornata americana dell’11 settembre di quell’anno e il rifiuto opposto dal governo “talibano” (un termine che, letteralmente, significa “studentesco”) che allora guidava l’Afghanistan all’ultimatum del presidente statunitense George W. Bush jr., che gl’intimava di consegnargli lo sceicco saudita-yemenita Usama bin Laden, ritenuto – con non infondate riserve da parte di molti, come anche più tardi sarebbe energicamente emerso – il mandante e l’organizzatore del triplice (o quadruplice?) attentato aereo che aveva colpito gli States.
Un complesso episodio più o meno frettolosamente “chiuso” con una raffica di condanne, ma sui troppi punti oscuri del quale mai è stata fatta – è bene ricordarlo – vera chiarezza. La crisi aperta nel 2001 e da allora vissuta all’insegna del bushista War on Terror precedette cronologicamente e logicamente il suo nuovo episodio del 2003, l’aggressione all’Iraq di Saddam Hussein. Ci caddero quasi tutti. Dal canto mio, se ripenso agli ultimi ottantun anni, ho davvero poco di cui vantarmi di quel che ho fatto in vita mia. Ma di due piccole cose, sì. Di due libretti editi entrambi dalla romana-barese editrice Laterza, che procurarono a lei un mezzo “buco” editoriale (poche copie vendute, a causa di un efficace “cordone sanitario” stretto loro attorno prima dalle critiche negative, quindi dal silenzio ostinato e sistematico dei media) e a me lunghi mesi di ostracismo e di semiconfino mediatico. Si trattò di un libro a più mani davvero bipartisan (ne furono coautori, tra gli altri, personaggi quali Noam Chomsky, Alain de Benoist e Marco Tarchi) dei quali fui editor, e che nel titolo La paura e l’arroganza costituiva una risposta intensa e puntuale al best seller di Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, e di una monografia sui rapporti tra politica internazionale statunitense e “sistema multinazionale delle lobbies dal titolo Astrea e i Titani. Mette conto di notare che frutto di quei mesi e di quel lavoro febbrile e affannoso di ricerca e interpretazione di dati nascosti o dissimulati o “negati” furono anche altri lavori: cito fra tuti quello che mi appare uno tra i più lucidi e documentati, Mistero americano di Marina Montesano, edito dalla Dedalo di Bari nel 2004 e incentrato sui lati più oscuri e contraddittori della ricostruzione ufficiale della tragica giornata dell’11 settembre 2001 con le relative responsabilità. La contraerea mediatico-conformistica infierì anche su di esso.
Nella campagna militare che aveva fatto seguito all’attentato alle “Due Torri” e al Pentagono (e anche, pare, ad altri obiettivi…), gli americani furono in un primo tempo affiancati da pochi stati amici o satelliti, ma in un secondo tempo rafforzati dall’appoggio semiconvinto dei paesi della NATO. Ma i vari governi più o meno collaborazionisti che da allora per due decenni si sono succeduti, in una Kabul che da vero e proprio giardino si convertì in pochi mesi in un autentico inferno di edifici distrutti e di baracche prefabbricate, non sono riusciti a risolvere un conflitto la complessità e la profondità del quale rende puro eufemismo il termine di “guerra civile” con il quale solitamente lo si definisce. L’incompetenza e l’inadeguatezza dei rimedi proposti per la sua soluzione, sia da parte dei vari governi in carica e dei loro “consiglieri” locali sia da parte di molte organizzazioni internazionali, sono state più volte denunziate con precisione e con energia: basti ripercorrere la generosa attività spesa al riguardo dal nostro compianto Gino Strada. Ora, allo sconcerto derivato dalla constatazione del fatto che, dopo un ventennio di scontri militari, di terrorismo e di conati di soluzione politica, i “vinti” del 2001 rientrano in Kabul come vincitori, si aggiunge la desolante prospettiva che ci obbliga a constatare che siamo davvero punto e capo. Alcune aree montane restano nelle mani del figlio del comandante sunnita Massoud, che a suo tempo fu eliminato da bin Laden e quindi da una fazione fondamentalista afghana filowahhabita (“eretica” per tutti gli altri musulmani del mondo, ma a capo della quale è la famiglia regnante arabo-saudita) in rotta però – come appunto lo era bin Laden – con la stessa “casa-madre” del movimento politico-religioso del quale era fiancheggiatrice. Al tempo stesso, nel composito fronte delle fazioni e dei gruppi politico-tribali che gli egemoni talibani debbono controllare o con il quale debbono in qualche modo accordarsi, non mancano di riemergere vecchie inquietanti figure: come quella dell’azzimato Karzai, l’ex-consulente (notizia da lui contestata) della compagnia petrolifera statunitense Unocal divenuto leader collaborazionista degli americani e protetto soprattutto dall’ineffabile Condoleezza Rice. Karzai aveva collezionato fallimenti fino a esser costretto ad abbandonare la scena politica: che rispunti fuori in questo momento non è cosa granché promettente. Un “Occidente” che per un ventennio si era olimpicamente disinteressato alla tragedia afghana, a una Kabul devastata, a migliaia di bombardamenti quotidiani condotti con una tecnologia ipermoderna e arcivigliacca da un’aeronautica di droni contro povera gente in carne ed ossa a proposito della quale non ci si preoccupava più nemmeno di contare le vittime, oggi sembra ridestato a una nuova pietà umana, a un’inedita solidarietà. Senza nemmeno porsi di fronte alla fuga di tanta gente dall’Afghanistan quelle elementari domande che sempre è necessario porsi in questi casi – comprese quelle sulle “ragioni”, sul “realismo”, sui “limiti” di fenomeni guidati evidentemente da un pànico in parte almeno mediaticamente se non guidato quanto meno incentivato (ricordate il Vietnam della vittoria dei vietcong e i boat people?) – ecco che si va diffondendo il dogma dell’eterna e irrimediabile ferocia dei talibani e della necessità di reagire alla loro indiscutibile vittoria solo con la chiusura, l’ostilità preconcetta, magari la preparazione a reagire militarmente. Se così non fosse, sarebbero incomprensibili le reazioni isteriche e quasi unanimi contro le dichiarazioni banali forse, ma ispirate a un minimo di buon senso, da parte di Giuseppe Conte. Se così non fosse, sarebbe ovvio che dinanzi alle prospettive di una rappresaglia feroce e irremissibile da parte dei talibani vittoriosi contro la popolazione afghana nel suo complesso si mobiliterebbe immediatamente una corale reazione non solo umanitaria, ma anche diplomatica: e ai talibani – che danno mostra di non essere o di non essere più quel che erano o che venivano dipinti fino a qualche tempo fa – si sarebbe obiettato che proprio adesso che hanno vinto in patria il problema della ricostruzione interna, ma anche quello della loro immagine all’esterno, è più urgente, e che hanno bisogno dell’aiuto della comunità internazionale; e, nell’interesse stesso di quegli afghani che in parte forse sono adesso e che potrebbero essere domani le vittime dei vincitori fondamentalisti; si sarebbero dovuti orientare gli sforzi dei nostri governi, delle nostre cancellerie, dei nostri media.
Sta accadendo il contrario. Si stanno moltiplicando le voci apocalittiche, i segnali manichei. Hanno vinto le Forze del Male, come a New York nel fatidico Nine Eleventh, come a Baghdad nel 2002 quando si accumulavano le prove contro Saddam detentore di “arsenali di mezzi di distruzione di massa”. Eppure, qualche pur debole mezzo per diradare il fumo mediatico e vederci un po’ più chiaro ci sarebbe. Guardatevi “L’Express”, n. 3569, 19-25 agosto 2021, anche se dovrete per questo inghiottire l’ennesima, infame (o tragicomica?) performance dell’inevitabile Bernard-Henry Lévy – Le plus désolant, c’est que l’Occident n’avait pas absolument échoué en Afghanistan, p. 19 – che trasforma un ventennio di errori, di orrori, o di violenze e di corruzione consumato nel massimo disprezzo della cultura e delle tradizioni di un intero popolo nel quale si è tentato di “esportare una democrazia” che non funziona più neanche da noi, in una trionfale sfilata di successi. Oppure procuratevi il Cahier numero Un dell’edizione del 19 agosto de “L’OBS” dedicato almeno in parte ai “nuovi” Talibani, che non sono esattamente la copia conforme dei vecchi.
Comunque il panorama internazionale della reazione alla vittoria talibana è peggiore delle pur prevedibilmente peggiori aspettative.
A questo punto, una raccomandazione è d’obbligo. Diffidate ohimè del mainstream della nostra organizzazione mediatica, composita e indisciplinata finché volete ma in ultima analisi egemonizzata dalla propaganda ufficiale statunitense, che il democratico presidente Biden sta indirizzando con sempre maggior chiarezza negli ultimi mesi – conforme all’ideologia appunto del vecchio Donkey Party – verso una ripresa del ruolo internazionale degli USA come “custode e garante della democrazia nel mondo”: e quindi, fuori dai denti, verso una specie di “nuova guerra fredda” seminedita, ma ormai nelle sue linee di fondo fin troppo intuibile, ancorché non troppo originale. Una linea che sta conducendo sistematicamente gli Stati Uniti a uno scontro almeno politico, diplomatico ed economico (fermiamoci per ora, speranzosi, a questo punto) con la Russia di Putin, ma anche con la Cina: mentre le più recenti mosse a proposito sia di Cuba e un po’ di tutta l’America latina, sia del Vicino Oriente dove il fermo appoggio statunitense al patto saudita-egiziano-israeliano (e fors’anche giordano e irakeno) “Pace di Abramo” rischia di creare seri contraccolpi dall’Iran – che qualunque cosa faccia resta “stato-canaglia” – alla Turchia al Qatar alla Libia all’Africa nordorientale tutta.
Insomma, una cosa dev’esser chiara. La conclusione di quella che almeno fino ad oggi è stata la “questione afghana” non è soltanto la fine di un capitolo dell’eterno Great Game che da quasi due secoli ha opposto (e oppone) russi e inglesi prima, statunitensi e sovietici e quindi di nuovo russi poi, in tutta l’Asia centromeridionale. È anche la fine fallimentare – al pari di quella vietnamita di mezzo secolo circa fa – di una delle tante imprese dell’Impero Yankee: un Impero atipico, che (primo impero nella storia) da ormai circa tre quarti di secolo sembra collezionare, nonostante il suo apparato industriale-militare, ininterrottamente solo sconfitte.
Dinanzi a questa realtà di fatto, il governo di Biden dovrebbe rivedere profondamente il suo apparato diplomatico e il suo sistema di alleanze. Ad esempio, evitando accuratamente di regalare con la sua azione nuovi alleati a quelli ch’egli considera con evidenza i suoi avversari. Nei suoi rapporti con il governo talibano di Kabul, nulla dovrebb’essere già scritto e predeterminato. Ma le apparenze ci parlano un altro linguaggio. Ad esempio, le prime dichiarazioni del portavoce talibano Zabihullah Mujahid – che sono apparse molto aperte al dialogo, molto rassicuranti sull’equilibrio interno e molto disponibili a una chiusura effettiva della “guerra civile” del suo paese anche perché, se continuasse, riuscirebbe fatale per tutti – sono state accolte dal coro dei media dei paesi dell’Unione Europea e della NATO (Italia purtroppo in primissima linea) con una diffidenza e una preconcetta antipatia che non sembrano né razionali né ragionevoli, ma che si giustificano nella ferma e pervicace volontà di riscuotere il consenso e magari la lode della Casa Bianca.
E allora, amici politici e operatori mediatici del nostro paese, una domanda. In Afghanistan vale la pena considerare quali sono state le ambasciate che si sono svuotate (gli USA e il suo alleato-subordinato Regno Unito per prime), e quali invece sono ancora lì, funzionanti (la Russia, la Cina…). Occhio alle prossime chiusure o, peggio, partenze delle rappresentanze diplomatiche (e alle prossime conferme di permanenza): se e nella misura in cui ci saranno, ci diranno quasi tutto. Biden, con la sua “lungimirante” politica, è riuscito quasi ad avvicinare se non proprio a far allineare tanto Ankara e Teheran quanto Karachi e New Delhi, che sotto il profilo geopolitico e geostorico sono due classiche “quadrature del cerchio”; e sta riuscendo ad avvicinare anche Pechino a New Delhi. Non ce l’ha ancora fatta a facilitare i rapporti diplomatici tra Pechino e Taiwan e tra Pechino a Tokyo, ma se esse non fossero ferree alleate degli Stati Uniti ci sarebbe da scommettere perfino nella riuscita di tali ossimoriche imprese. In queste condizioni, e dati questi precedenti, è proprio necessario lavorare con tanta alacrità alla costituzione di un asse Mosca-Pechino-Teheran-Kabul?