Domenica 22 agosto 2021, San Fabrizio
IL SESSANTENARIO DI UNA FUGA (FALLITA) “VERSO LA LIBERTÀ”
La pausa di Ferragosto ci ha costretti a non ricordare con puntualità un evento senza dubbio epocale in quella “Contemporaneità” che ormai è, a dirla come la definirebbe Charlie Brown, “la Contemporaneità più contemporanea”. Si continua a discutere ancora – magari è il solito “problema di periodizzazione” che molti considerano con forti i ragioni “pseudoproblema” –, quando sia opportuno avviare (se non altro nei manuali scolastici, anche se la scuola non è ormai più ritenuta nel sistema mentale di troppi fra noi – purtroppo – un’istituzione primaria della nostra società) l’età contemporanea (o quell’era intermedia fra la “moderna” e la “contemporanea”).
Si propende a parlare di un’età “del Risorgimento”, con inizio situabile tra Rivoluzione francese e Restaurazione, che in Italia potrebbe comprendere il periodo 1789 (o 1815) e 1870, una periodicità accettabile quanto meno per tutta Europa, considerando il 1870 l’anno della guerra franco-prussiana, a meno di non volerci comprendere anche quella fase per noi ormai intermedia che fu quella del conflitto tra le grandi potenze europee che non includeva ancora gli USA, vale a dire gli anni 1870-1914. Ma gli anni del primo conflitto mondiale, 1914-18, ci sono ormai a loro volta lontani: per quanto sappiamo che la riorganizzazione del mondo all’indomani della scomparsa successiva nel giro di più o meno un decennio dei tre grandi imperi eurasiatici che in qualche modo ne garantivano il pur precario equilibrio (il cinese, l’ottomano, l’austroungarico, il russo), e la successiva equivoca sopravvivenza dei due imperi “liberali” e “colonialistici” (il britannico e il francese) grazie alle due vittorie militari del 1918 e del 1945, non abbiano se non prolungato la sopravvivenza di un equilibrio egemonico “europeo” ormai in irreversibile crisi. In questo senso forse la “Guerra Fredda” tra USA e URSS, anche se vogliamo prolungarla fino al 1991, cioè alla fine formale dell’Unione Sovietica, costituirebbe in realtà l’estrema propaggine – in termini di una ormai necessariamente valutabile World History – di una “Età contemporanea” che alla fine del secolo scorso (e del secondo Millennio) si è rivelata, magari in modo repentino, come a sua volta chiusa e superata. Ma nell’ultimo decennio del secolo XX l’era davvero nuova, da tempo peraltro preparata dalla laboriosa risistemazione del mondo ex-coloniale e dalla definitiva eclisse del continente europeo come realtà egemonica mondiale, si è violentemente imposta in modo evidente: prima l’illusione dell’indefinita durata di un mondo caratterizzato dall’egemonia dell’unica superpotenza mondiale (ricordate Francis Fukuyama e la sua Fine della storia, un saggio del 1992 che a rileggerlo oggi appare ridicolo fin dal titolo?), quindi l’emergere di un nuovo complesso sistema pluriegemonico (o, se preferite, “multilateralista”) provvisoriamente, equivocamente e schematicamente “interpretato” dal Clash of Civilizations di Samuel Huntington. Quel che oggi appare ovvio e irreversibile è che il “risveglio dell’Islam” simbolicamente inaugurato dalla Rivoluzione Islamica dell’Imam Khomeini in Iran nel 1979 – rivelatosi la chiave di volta di un complesso movimento di ridefinizione dei rapporti di forza nel mondo eurasiatico – e l’irresistibile ascesa del nuovo impero egemonico, quello cinese, a contrastare il quale però è restata paradossalmente (ed è paradossalità fino ad oggi e chissà per quanto tempo ancora inaggirabile) la netta superiorità a livello tecnologico-industriale-militare, ci hanno introdotto nell’età che qualcuno ha voluto definire “postmoderna”, ma che forse a questo punto (ed ecco un nuovo paradosso, in un tempo che muta così rapidamente da obbligare il nostro linguaggio a stargli con fatica dietro) dovremmo definire “postcontemporanea” perché è già qui, fra noi, ma noi non riusciamo ancora ad adattarci ad essa.
Un “mondo finito”, quello crollato con il Muro di Berlino e con il franare della compagine sovietica. Un mondo che ci è cronologicamente prossimo ma che pure non riusciamo più a sentire come il nostro. Leggiamo il racconto di David Nieri, che ci dice come “appena” sessant’anni fa, nel 1961, è successo qualcosa che il mondo di allora salutò come l’albeggiare di un prossimo mattino.
Era invece il lampeggiare lontano di quella che sarebbe stata un’alba livida. Nel 2001, in un’agghiacciante “sincronicità simbolica” che ancora ci fa rabbrividire, il vero Nuovo Mondo si sarebbe annunziato con il Clash (quello, sì: altro che quello metaforico chiamato in causa da Huntington) dell’11 settembre, causa occasionale dell’aggressione statunitense all’Afghanistan con l’apertura di una crisi che adesso è entrata in una sua nuova fase).
Come sembrano lontani, ormai, i giorni di Herr Schumann, eroe e martire di quel tramonto che allora sembrò dell’URSS, mentre oggi è chiaro che si trattò di quello di tutto un mondo ch’era nato nel 1918, aveva illuso di essersi rinnovato nel 1945 e poi di nuovo si sarebbe illuso mentre era ormai già decrepito e ormai, con la nuova “crisi afghana”, sta cominciando a mostrarsi per quel che è veramente! Eppure, proprio per questo quel soldato della DDR di sessant’anni fa va ricordato: il suo personale fallimento, cominciato con la “corsa verso la libertà” che invece Libertà non era – ed egli se ne sarebbe accorto tragicamente – è emblematico del fallimento di tutta una civiltà e dei suoi falsi valori individualistici.
SESSANT’ANNI FA
DAVID NIERI
HANS CONRAD SCHUMANN E IL “SALTO” VERSO LA “LIBERTÀ”
Era il 15 agosto del 1961, più o meno le 4 del pomeriggio. Due giorni prima, l’allora Repubblica Democratica Tedesca – definita dall’acronimo DDR (Deutsche Demokratische Republik) che, nel nostro Occidente radioso, faceva paura solo a pronunciarlo – aveva deciso di erigere un muro che dividesse, nella stessa città, la parte “sovietica” rispetto alla sfera di influenza angloamericana. C’era ovviamente un motivo. Tra la fine della seconda guerra mondiale e quel mese di agosto del 1961, decine di migliaia di tedeschi avevano deciso di abbandonare la zona Est per trasferirsi definitivamente a Berlino Ovest. Fu proprio per arginare quella migrazione che la Repubblica Democratica Tedesca decise di metterci una pezza: il Muro di Berlino consisteva inizialmente in un semplice filo spinato “divisorio” – famose sono le immagini con la Porta di Brandeburgo, territorio dell’Est, in secondo piano rispetto alla barriera provvisoria –, poi sostituito da una struttura in mattoni, quella che ben conosciamo e che per quasi tre interi decenni ha rappresentato il simbolo della divisione del mondo durante la Guerra Fredda.
No, non si doveva fuggire, il sogno socialista aveva bisogno di fede e di ideali, di giovani capaci di costruire un futuro di uguaglianza e prosperità.
Tra questi, un soldato appena diciannovenne che quel giorno doveva presidiare l’angolo fra Bernauer Strasse e Ruppiner Strasse proprio per evitare fughe all’Ovest. Durante la mattina di quel 15 agosto, aveva assistito al triste spettacolo di un bambino orientale trascinato via con forza – probabilmente dopo un tentativo di “sconfinamento” – dalla polizia dell’Est. Si sentiva ingabbiato, rinchiuso, in prigione, Hans Conrad Schumann. Una crisi di identità e di coscienza lo attanagliò durante quelle ore calde di una giornata agostana berlinese. Perché la fuga era a senso unico, e un motivo doveva pur esserci. Che la parte est della città, quella che lui stesso difendeva, fosse quella “sbagliata”?
Eppure Schumann aveva mostrato di crederci, nell’ideale socialista, tanto che gli era stato offerto di entrare a far parte della Bereitschaftspolizei, la polizia antisommossa della Germania Est. Ma quel giorno era nervoso, agitato. Fumava una sigaretta dopo l’altra, camminando avanti e indietro, scuotendo il capo, con il suo fucile PPSh-41 in spalla. Fu notato da un fotografo, Peter Leibing, che rimase fermo per più di un’ora a osservarlo, aspettando forse “il momento”. E fu notato dai soldati dell’Ovest, che probabilmente avvertirono la stessa cosa. Fu un attimo. Alla fine, un grido, “Komm rüber!”, “Vieni!”. Conrad prese coraggio, gettò la sigaretta e si mise a correre, fino a saltare la fragile barriera di filo spinato. La libertà era costata quattro secondi di terrore. Il terrore di lasciare il proprio mondo, i propri affetti, la propria famiglia; il terrore di essere raggiunto da una scarica di proiettili. Ma l’unico “proiettile” con il quale fu colpito fu lo scatto del coetaneo Peter Leibing, che rimase impresso su una pellicola da 16 mm. Per un attimo, fu il silenzio. Poi il boato, come un goal messo a segno durante una partita di calcio. I colleghi dell’Ovest e i semplici passanti lo accolsero a braccia aperte, facendolo diventare, suo malgrado, un’icona. L’icona della libertà. Tanto che una statua lo celebra a Berlino, proprio al momento del salto, nei pressi di Bernauer Strasse.
Da quella fotografia, che ormai è diventata “storica”, né lui, né il fotografo – che lavorava per un’agenzia – hanno mai ricavato un soldo. Solo la notorietà. Forse è il primo prezzo che il povero Conrad ha pagato per raggiungere la libertà, che molto promette e che molto, di conseguenza, reclama in cambio.
Schumann divenne un mezzo di propaganda in chiave occidentale. Fu interrogato, “spremuto come un limone” dalle autorità tedesche per carpire segreti del mondo oltrecortina. Segreti che lui non conosceva. Fu invitato, negli anni ottanta, dall’allora presidente americano Ronald Reagan, un incontro immortalato da un’altra foto famosa che li ritrae insieme a Nancy, la first lady.
Dall’altra parte, però, divenne un traditore, un disertore. La Stasi si mise sulle sue tracce, cercando di riportarlo indietro, magari “sulla retta via”. Invitò i suoi familiari a scrivergli lettere – Schumann non cambiò nome, né mai si nascose – con l’assicurazione che nulla gli sarebbe accaduto se avesse deciso di rientrare. Probabilmente sarebbe diventato un’altra icona, stavolta per una propaganda di tipo opposto.
Ma la sua vita fuori dai riflettori e – a maggior ragione – una volta che si furono spenti, fu cadenzata da sofferenze, alcol e depressione. I sensi di colpa non lo abbandonarono mai: nei confronti dei suoi familiari, nei confronti dei suoi commilitoni. Si sentì libero, secondo una sua testimonianza, solo dopo il 9 novembre 1989, quando fu in grado di visitare di nuovo la sua terra, in Sassonia, dov’era nato e cresciuto. Ma trovò le porte chiuse. I suoi familiari non erano contenti di rivederlo, gli amici di un tempo non esistevano più.
La sua vita occidentale fu abbastanza agiata, grazie soprattutto alla consistente eredità ricevuta dai suoceri. Dopo dieci anni trascorsi a Berlino Ovest, dove cambiò diversi lavori, si sposò e si trasferì in Baviera, ebbe un figlio e lavorò per 27 anni alla catena di montaggio dell’Audi.
Il 20 luglio del 1998, 37 anni dopo il famoso salto, Schumann uscì di casa dopo un “normale” diverbio con la moglie. Non rientrò mai. Fu ritrovato alcune ore dopo in un bosco nelle vicinanze, appeso a un albero. Hans Conrad si era impiccato. Non lasciò alcuna lettera d’addio.
OGGI
UN’INTERVISTA
Ci sembra non inopportuno riproporre a questo punto il testo di un’intervista rilasciata da FC il 12 agosto scorso per il Quotidiano Nazionale. Ne pubblichiamo qui una versione corretta, dato che a suo tempo non c’è stato tempo di rivederne il testo prima della pubblicazione, il che ne ha qua e là compromesso il senso.
INTERVISTA A FRANCO CARDINI
“ERAVAMO TUTTI AMERICANI”. INGENUAMENTE
Professor Franco Cardini, docente emerito di storia, saggista e scrittore. Nell’agosto del 1961 lei aveva appena compiuto 21 anni. Come accolse la costruzione del Muro?
Nella maniera sbagliata. Lo dico con l’esperienza dei miei 81 anni (li ha compiuti il 5 agosto NDR). Eravamo la generazione della Guerra Fredda, oggetti e non soggetti di scelte che passarono sopra le nostre teste. Senza nemmeno accorgercene, fummo indotti a pensare che appartenere al blocco occidentale, un sistema difettoso, ma che comunque garantiva giustizia e libertà fosse la scelta obbligata e migliore. Perché dall’altra parte c’era una tirannia. Ed era vero. Per questo l’ Ich bin Berliner di JFK ci avrebbe commossi tanto.
Però?
La costruzione del Muro da parte dei tedeschi dell’Est su decisione del Patto di Varsavia apparve l’ennesimo atto dispotico del blocco comunista. Ma non riflettevamo – non solo io che a quell’età leggevo Salgari e non trattati di politica, ma l’intera opinione pubblica occidentale – che il blocco dei ’cattivi’, dei paesi comunisti altro non era che la risposta alle scelte che l’America aveva fatto già in tempo di guerra. A cominciare dalle bombe su Hiroshima e Nagasaki che colpirono e distrussero sì, il Giappone, ma è come se fossero state sganciate direttamente su Mosca. In maniera acritica, pensavamo che gli americani avessero sempre ragione e che gli altri fossero il Male.
E invece?
In realtà entrambi, Usa e Urss facevano il proprio interesse. Che era anche quello di controllare l’Europa. Coi paesi dell’Est obbligati a obbedire e noi e i tedeschi senza mani libere: Adenauer e De Gasperi, avendo perso la guerra, non avevano margini di movimento. Un po’ di più, ma non troppo Francia e Inghilterra.
L’America ci conservò liberi. Anche dalle minacce del Comunismo.
A salvare l’Italia dalla rivoluzione non fu Bartali. Fu Stalin, che volle rispettare gli accordi di Yalta. Stalin (la Realpolitik del quale era troppo raffinata per non comprendere che includere nel sistema imperialistico sovietico il paese nel quale risiedeva il papa sarebbe stata per lui una follìa) in Italia era rappresentato da un uomo del quale si potrà dire ciò che si vuole, ma che aveva un intuito politico finissimo.
Togliatti.
Appunto. Che frenò le smanie di Secchia e Longo, ottusi che vedevano poco oltre i propri occhi e si erano illusi che l’Italia sarebbe passata al Comunismo, seguita da Francia e Spagna. Ma i carri armati a Trieste avrebbero forse addirittura riacceso la guerra e il primo a non volerla fu Stalin.
Senza l’America, L’Italia dove sarebbe stata?
Lei mi chiede cosa pensavamo allora, io le rispondo cosa penso oggi, rileggendo quegli anni. Allora Mosca invadeva l’Ungheria, Pio XII scomunicava il PCI, ma nessuno batteva ciglio se gli USA s’imbarcavano nella guerra di Corea: quando gli americani si fecero consegnare dai francesi il testimone per combattere in Vietnam, anch’io definivo il loro esercito come i ’nostri soldati’. E lo stesso facevano e pensavano anche le parrocchie, i cattolici. C’ingannarono presentandoci il patto della NATO come difensivo: in realtà era offensivo; fu il successivo ‘Patto di Varsavia’ una risposta difensiva da parte dell’URSS. Da noi lo dicevano i comunisti: e noi pensavamo ch’era propaganda. È vero, lo era. Ma era anche la verità.
Joan Baez, i cantanti marcavano la differenza.
Certo, dissenso ce ne fu: ma qualche anno dopo, e a partire dal disastro in Vietnam. Ma oggi, da europei, dobbiamo riflettere che a suo tempo tanto USA quanto Stalin, per quanto avversari nella Guerra Fredda, puntavano entrambi a non far unificare l’Europa, a mantenerla divisa e sotto il loro controllo. Oggi, ne scontiamo gli effetti. Ci ritenevamo figli dell’America ed era vero, ma avevamo una visione ingenua della realtà.
Lei, da giovanissimo simpatizzante di destra, da quale altra parte avrebbe dovuto stare?
Dai tredici ai sedici anni ebbi un momento di “originalità”, ma senza rendermene conto, anzi quasi per sbaglio. Mi iscrissi al MSI: Inebriato dai discorsi sociali che ascoltavo in pubblico nei comizi di quel partito, e d’altra parte compartecipe dell’atmosfera unilateralmente anticomunista che allora pervadeva gran parte del mondo cattolico. Ma in quanto missino presto restai deluso dal ruolo di stampella della DC che quel partito giocava in Parlamento. Il MSI bocciò l’esercito europeo, che la Francia stava propugnando (o almeno che Robert Schuman lucidamente sosteneva), in ciò d’accordo con il PCI che voleva sabotarlo in quanto lo riteneva un possibile futuro sostegno alla politica statunitense (il che senza dubbio almeno nei primi tempi sarebbe stato), e lasciò che il nostro esercito fosse invece sostegno e praticamente strumento un “reparto ascaro” della politica militare americana della NATO. Per me si trattò di una delusione alla quale per molto tempo (fino agli Anni Sessanta avanzati) non riuscii a elaborare alcuna reazione.
Oggi, la destra italiana è sovranista.
Sempre che abbia un senso parlare di destra e sinistra – penso al PD – non ci sono spazi per alcuna forma di sovranismo. Ormai restano margini limitatissimi di sovranità. La ‘destra’ italiana, o quel che come tale si presenta, oggi sta con la NATO ancora più di sette decenni or sono: a quale forma di sovranismo possa nella sostanza pensare rimane per me un mistero. Guardare all’euro e ai migranti ed ignorare le basi militari straniere extraterritoriali mi sembra un’estensione demenziale di quanto denunziato nella parabola evangelica del fuscello e della trave.
Valgono ancora gli schemi del 1945 e del 1961?
Abbiamo in testa una gran confusione. Simpatizziamo per gli ucraini, considerandoli patriottici rispetto alle mire di Mosca; ma riteniamo secessionisti gli abitanti della Crimea che sono russi figli di russi costretti a vivere sotto l’Ucraina. Parimenti, a parità di sistemi politici, definiamo ‘presidente’ il leader africano o sudamericano violento o corrotto che sta dalla parte che ci piace (cioè che piace agli USA) e ‘dittatore’ quello che non ci piace. Chiamiamo Maduro ‘dittatore’ e Bolsonaro ‘presidente’. Per Draghi, invece, ‘dittatori’ sono Erdoğan in quanto non si capisce ancora bene da che parte voglia internazionalmente schierarsi e Orban perché non si conforma all’UE. Le dico che cosa penso: se proprio fossi costretto a scegliere fra Orban e Bolsonaro, se proprio non ci fossero alternative, preferire di finire sotto Orban.
E il Muro?
Preferisco constatare che sia caduto.