Domenica 22 agosto 2021, San Fabrizio
ANCORA SUL “COVID” (E SUL SUO CONTESTO SOCIOCULTURALE)
L’epidemia ha messo a nudo uno dei tanti aspetti del nostro ormai demenziale modo di vivere e di pensare. Quello che almeno nell’ultimo mezzo secolo è stato per “noialtri occidentali” il tempo del “balzo in avanti” del “progresso” e della “qualità della vita” ci ha fatto cedere di nuovo, mutatis mutandis ma in pieno, in quella che a suo tempo è stata la trappola tesa dall’Antico Serpente ai nostri Progenitori secondo il Genesi: nell’ Eritis sicut Dei. Anni fa Berlusconi vi aveva preavvertito che, quanto a lui, avrebbe vissuto fino a 140 anni: glielo augurammo e continuiamo a farlo. Nel frattempo, però, lo abbiamo seguito e poi addirittura sorpassato. Abbiamo cominciato a pensare – magari senza dichiararlo – che progresso sociale, scoperte scientifiche e qualità della vita ci avrebbero addirittura consentito – antica utopia – di sconfiggere la morte e di divenire immortali. E dal momento che essa era divenuta l’unica nostra vera paura in un universo mentale individuale e collettivo svuotato di tutto il resto, ci siamo dati a negarla, a camuffarla, a illuderci di poterla davvero ingannare.
Il Covid è stato un duro risveglio che ci ha posti dinanzi a una realtà prima d’ora sconosciuta o evitata: la morte, scacciata dalla porta dei nostri orizzonti culturali (non credo sia più il caso di definirli “spirituali”), è rientrata in noi tutti dalla finestra dell’inconscio ed è divenuta una padrona assoluta; eliminata dai rituali sociali e confinata nel limbo delle “cose” delle quali non si deve pronunziare la “parola” che le designa, si è impadronita della nostra fantasia e del nostro inconscio popolandoli di incubi di terrore, di violenza, di Fine di Tutto. Questa “morte inselvaggita”, fuggita dal recinto che la Modernità le aveva costruito attorno, oggi infuria spietatamente. È necessario “addomesticarla” di nuovo, come fanno da sempre tutte le culture tradizionali e come facevamo anche noi, prima della “Grande Apostasia” consumata fra Cinque e Settecento e divenuta irreversibile nel XX secolo dopo la breve, ambigua reazione romantica.
RIADDOMESTICARE LA MORTE
Finalmente. Era ora che l’opinione pubblica nel suo complesso, in Italia come un po’ in tutta la società occidentale, si rendesse conto di una pericolosa assurdità epica e psicologica, una sorta di malattia progressiva che negli ultimi decenni – di pari passo con il cosiddetto “processo di secolarizzazione” e con lo strisciante edonismo della “società dei consumi” – si è impadronita di noi e dei nostri costumi. È almeno dalla seconda metà del Novecento, infatti, e la recente pandemia non ha fatto altro che intensificare tutto questo, che la nostra società è isterizzata in modo così patologico dalla fine della vita che arriva a negare la morte. Ma se non accettiamo che la morte c’è, non riusciremo a uscire dall’eterna emergenza che questa pandemia continua a imporci.
Sulle prime, è accaduto di soppiatto, furtivamente: abbiamo cominciato con il minimizzare al massimo le cerimonie funebri (spesso con l’alibi che si trattava di cose “religiose”, da non sottolineare troppo in una società “laica”), poi con il far sparire o con il camuffare nel nostro lessico anche quotidiano – sostituendole magari con più o meno felici eufemismi – tutto quel che alla morte e al morire si riferisse, infine col dichiarar guerra a tutti i simboli che in qualche modo ne richiamassero il tema: via gli abiti a lutto, via il color nero (magari sostituito, durante le esequie, da insulsi toni pastello), via dal linguaggio pedagogico e scolastico di tutti i riferimenti alla fine della vita.
Questo iter ha fatto parte delle originali innovazioni, uniche nella storia del mondo, apportate alla nostra vita civile dalla Modernità occidentale. Non era mai successo prima: fin dall’antichità preistorica, tombe e simboli mortuari sono stati tra i fondamentali segni di civiltà in quanto collegati alla continuità della memoria, alla maestà dei sistemi religiosi, alla necessità di onorare chi aveva vissuto prima di noi, alla consapevolezza del comune destino che affratella tutti gli esseri viventi ma anche delle problematiche connesse con la considerazione che in natura nulla muore del tutto mentre tutto si trasforma e quindi con la speranza – razionalizzata e trasformata in fiducia religiosa – che la morte stessa non fosse la fine assoluta di tutto, che in qualche modo si potesse vincerla.
In altre parole, miti e riti del passato – nelle religioni antiche e anche in quelle tuttora praticate – insegnavano (e, correttamente intesi, continuano ad insegnare ancora) ad “addomesticare la morte”: a considerala una magari mesta e paurosa compagna di viaggio, ma anche una presenza familiare che per certi versi poteva perfino diventare amica e consolatrice. Nella nostra cultura medievale e moderna – studiata per esempio da Philippe Ariès, da Alberto Tenenti, da Chiara Frugoni – i temi artistici del “Trionfo della Morte” e della “Danza macabra” servivano appunto a questo, come tra Rinascimento ed età barocca servivano i manuali di Ars moriendi: a sottolineare che la Vita, sotto forma di mutamento fisiologico ma anche di ricordo, di memoria, di fama, di storia, di meditazione sul tempo ma anche di desiderio di Eternità, doveva per forza di cose finire con il trionfare sulla Morte.
L’individualismo moderno, il prevalere di sistemi filosofici a carattere totalitaristicamente materialistico, il dogma del “diritto alla felicità” che aveva ad ha inscritto nel suo stesso DNA la negazione della morte avvertita come fine di tutto e quindi massimo dei mali, ci hanno ridotto all’angoscia continua, inesprimibile ma soffocante di oggi. Si pensa che soltanto il negazionismo isterico o l’incoscienza di una sorta di costante ebbrezza mentale possano salvarci dall’orrore di una fine sentita come assoluta. Avevamo addomesticato la morte: l’oblìo delle tecniche con le quali ciò si conseguiva – a cominciare dalla preghiera – ne ha favorito il ritorno selvaggio.
Spia di tutto ciò è, fra le altre cose tutte aberranti, il successo che in una società che non vuol ricordarsi in alcun modo della fine fisica hanno i film, gli spettacoli in genere, i videogames ispirati al genere horror in tutte le sue possibili implicazioni. Viviamo in un mondo assurdo, nel quale è proibito parlare pacatamente della morte ma dove “ci si diverte” sono con i fantasmi, i vampiri, gli zombies e i cascami del demonismo tardoromantico riciclati in termini kitsch tanto orrifici quanto spesso ridicoli.
Trascurata, privata dell’onore dovutole con le cerimonie, i “Trionfi” e le “Danze macabre” respinti nel limbo del folklore, quella che un tempo un fraticello dall’anima immensa ci aveva insegnato a chiamare “sòra nostra Morte corporale” – così fraterna e consolatrice – si è vendicata trasformandosi in incubo, in fantasma scheletrito e ghignante che si cerca di tener a bada negandolo istericamente: e la psicanalisi è lì, a ricordarci ch’essa ha cessato di essere la nostra mesta, severa Compagna di Viaggio per trasformarsi in silenziosa, terribile, minacciosa, invincibile scherana che sorveglia, contandoli, i nostri passi e che noi non osiamo evocare. Ha risposto al nostro tentativo di aggirarla organizzando un suo “ritorno selvaggio”.
Oggi, c’illudiamo di tenerla a bada e di “batterla sui tempi” – è la nostra ultima miserabile trovata – con lo stratagemma dell’eutanasia, trionfante e disperata risorsa dell’individualismo giunto all’ultimo stadio, la rivolta contro la natura. Andate a Salisburgo una di queste estati, se potete. Ogni anno si recita in piazza La morte di Ognuno di Hofmannsthal. È un salutare promemoria, migliore del “La morte è mia e la gestisco io” del nostro delirio di onnipotenza che nega se stesso ogni volta che viene pronunziato.